Élisabeth Behr-Sigel

 

La preghiera di Gesù:
mistero della spiritualità ortodossa

 

| 1. L’opera spirituale | 2. L’invocazione del nome | 3. La preghiera attiva |
| 4. Lo spirito d’obbedienza |
5. La pratica della preghiera | 6. L’attenzione spirituale |
| 7. Il silenzio dell’anima |

 

1. L’opera spirituale

Uno tra gli elementi più importanti della preghiera monastica nella Chiesa ortodossa è la “Preghiera di Gesù” chiamata anche “preghiera” o “azione spirituale”[1]. La sua forma esterna – si potrebbe dire la sua realtà “materiale”– è la ripetizione più frequente possibile del Nome di Gesù Cristo, associata alla preghiera del pubblicano (Lc 18,14) e si esprime in questi termini: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”. La sua essenza spirituale è “la discesa della mente nel cuore”, giungendo, attraverso la purificazione del pensiero e la memoria costante di Gesù Cristo, all’illuminazione dell’uomo interiore attraverso la Grazia divina e la coscientizzazione dell’abitazione mistica in sé dello Spirito Santo.

La pratica di questa preghiera è una tradizione antica e venerabile della Chiesa d’Oriente. Essa proviene da una corrente spirituale che risale ai Padri del deserto della quale l’insegnamento dei grandi pensatori cristiani del III e del IV secolo è l’espressione teologica.

Male o poco conosciuta in Occidente, tale grande tradizione mistica, in qualche sorta anima della teologia orientale, ha suscitato comunque ricerche e lavori interessanti[2]. Ma questi studi, scritti da specialisti di letteratura patristica greca ignoravano generalmente le forme più recenti che riguardano la tradizione antica praticata dalle chiese slave e greche moderne, tradizione vivente al di fuori della quale gli antichi testi rimangono spesso incomprensibili al punto che Padre Hausherr scriveva: “La questione dell’esicasmo[3] non presenta solo un interesse storico – sufficiente del resto a meritargli l’attenzione dei ricercatori in questi tempi di rinnovamento degli studi ascetici e mistici – essa non ha perso la sua attualità nell’Oriente ortodosso. Alcuni pensano pure che, tra tutte le questioni il cui studio s’impone – in chi s’interessa dell’avvenire religioso greco o slavo – questa è la più importante”[4]. Noi aggiungiamo che la letteratura ascetica e mistica russa, che potrebbe fornire degli insegnamenti preziosi sulla permanenza e il rinnovamento della pratica della preghiera spirituale, resta quasi totalmente sconosciuta in Occidente.

Sappiate che l’opera divina della santa preghiera spirituale fu l’occupazione costante dei nostri anziani padri teofori e che, simile al sole, essa risplendette tra i monaci, tra i numerosi eremitaggi e nei monasteri dove si praticava la vita comunitaria, al Monte Sinai, presso i solitari d’Egitto e del deserto nitrico, a Gerusalemme e nei monasteri situati attorno a tale città; in breve in tutto l’Oriente, a Costantinopoli, al Monte Athos, nelle isole dell’Arcipelago e infine, in questi ultimi tempi per grazia di Cristo, nella Grande Russia.

È con queste parole che inizia il primo dei Capitoli sulla vita spirituale del grande starets russo del XVIII secolo, san Paisi Velitchkovski[5]. Così, secondo la testimonianza di uno dei più zelanti promotori della “preghiera spirituale” nel monachesimo russo dei tempi moderni, la pratica di tale preghiera risale alla più alta antichità cristiana e fa parte del patrimonio sacro della tradizione ortodossa. Attraverso la loro opera letteraria, san Paisi e i suoi discepoli si proponevano, d’altronde, di far conoscere ai monaci slavi i testi patristici greci riguardanti la “Preghiera di Gesù” e di provare che i suoi diffusori non portavano cose nuove ma, al contrario, rinnovavano una tradizione antica e venerabile della Chiesa. Tale era, in particolare, uno dei fini proposti nella traduzione della famosa Filocalia dei Padri neptici[6], che fu, lungo la prima metà del XIX secolo con la Bibbia e il Gran menologio (Vita dei santi) di san Dimitri di Rostov, il nutrimento spirituale preferito dei monaci russi. La scuola di Paisi non faceva altro che proseguire, d’altronde, l’opera iniziata nel XVI secolo da san Nil Sorski, primo religioso scrittore russo presso il quale troviamo un’esposizione sistematica de “L’opera spirituale”. [...]

Non bisogna dimenticare che la tradizione della Preghiera di Gesù è trasmessa, prima di tutto, da un insegnamento orale diretto. Un po’ in disparte dai centri monastici russi, ma sempre in intima relazione con essi, si trovava sovente una poustinia, cioè un eremitaggio, o una skite, nome dato a un piccolo gruppo di celle isolate dove viveva qualche monaco sotto la direzione di un “anziano”. Là, lontano dal rumore dei pellegrini e della vita comune del monastero, uno o più solitari si dedicavano all’opera spirituale. Erano ammessi solamente qualche raro visitatore laico e qualche giovane monaco che aveva sentito la chiamata per la “vita in solitudine”. Essi ricevevano dagli anziani l’iniziazione alla preghiera spirituale, iniziazione sempre molto personale, adattata al temperamento e al grado di maturità spirituale del discepolo. Tutti gli starets russi, da Paisi Velitchkovski a Teofane il Recluso, hanno sempre insistito sulla necessità, per coloro che si vogliono impegnare nella via della preghiera contemplativa, di fare ricorso a un maestro sperimentato e di seguirne i consigli in uno spirito di totale sottomissione. “I santi Padri – afferma lo starets Paisi – dicono che questa santa preghiera è un’arte. La ragione, mi sembra, che sia la seguente: com’è impossibile ad un uomo istruirsi in un’arte senza ricevere lezione da un artista affermato, così è impossibile praticare questa opera spirituale senza un maestro sperimentato”[7]. Ne segue che ogni conoscenza puramente libresca e razionale dell’opera spirituale, senza essere accompagnata da un’esperienza vissuta in intimità con un maestro spirituale, rimane schematica e totalmente inadeguata.

 

2. L’invocazione del nome

Abbiamo già brevemente definito la “preghiera spirituale” come l’invocazione del Nome di Gesù Cristo accompagnata dall’intelligenza (o spirito) nel cuore. Ora è giunto il momento di precisare il senso di tale definizione.

Essa afferma, inizialmente, che il contenuto oggettivo essenziale della preghiera è il Nome di Gesù Cristo. Lo starets Paisi, al capitolo V del suo opuscolo[8], la descrive come il fatto di “portare costantemente nel cuore il dolcissimo Gesù e d’essere infiammato dall’incessante appello del suo beneamato Nome con un ineffabile amore per lui”[9]. Colpisce che questa definizione stabilisca uno stretto legame tra il “Nome” e la “Persona” di Gesù Cristo. Invocare il Nome, è già un portarLo in se. La potenza del Nome è quella di Cristo stesso. Il fuoco della sua Grazia, si rivela nel Nome del Signore, infiamma il cuore di un amore ineffabile e divino. Ogni sorta di interpretazione “psicologica” e “nominalista” è, qui, sbagliata. La Preghiera di Gesù non è un esercizio per creare, con una ripetizione meccanica, una sorta di monoideismo psicologico. Non si tratta di far funzionare un meccanismo psicologico ma di liberare una spontanea forza spirituale, quel “grido del cuore” che fa zampillare, come una sorgente d’acqua viva, la presenza del Signore, comunicato dalla pronuncia del Nome divino. Il Nome di Cristo è dunque certamente un’altra cosa che un semplice segno. È un simbolo, se con questo termine si designa quello che è lo strumento di una comunicazione reale con l’oggetto significato. Rivela il Verbo divino e Lo rappresenta, cioè lo rende presente in una maniera comparabile a quella dell’icona, rappresenta e attualizza per il credente, nella Chiesa ortodossai, la potenza del Cristo e dei suoi santi.

Questo spiega come per i diffusori della “preghiera di Gesù”, la recita di essa sia, da una parte un “mezzo”, dall’altra il “fine” stesso della vita spirituale. È un mezzo perché “le parole sono un aiuto per lo spirito debole che non ama fermarsi in un luogo e su un solo oggetto”. Il grande male di cui soffre l’umanità decaduta è il disordine interiore, la dispersione dei pensieri e dei sentimenti che rendono l’uomo incapace di fissare il suo spirito su Dio. La preghiera, e più d’ogni altra la Preghiera di Gesù, tende a ricreare l’unità spirituale e questo non solo perché essa “riassume in qualche parola molto semplice l’essenza della fede cristiana”, ma perché il Nome di Cristo comunica all’uomo la forza della Grazia divina con la quale diviene capace di allontanare le forze demoniache la cui presenza genera disordine e menzogna. Chiamando in aiuto il Signore Gesù nella lotta contro il nemico e contro le passioni, l’orante è testimone della loro sconfitta nel Nome terribile di Cristo e riconosce la potenza di Dio e del suo aiuto[10].

Ma se, nella lotta contro le forze del Male la cui opera è la disintegrazione spirituale dell’uomo, la Preghiera di Gesù è un mezzo, uno strumento, essa trova pure in se stessa il suo proprio fine. La realtà trascendente di Dio si rivela e si comunica nel Nome di Gesù Cristo, il fine consiste nell’assorbirsi nella pronuncia di questo, far rimanere il Nome, cioè la Persona di Cristo, impossessandosene nell’intero essere e principalmente nel cuore, affinché lo stesso suo battito divenga preghiera, glorificazione del Nome del Signore. Fintanto che la preghiera è meccanica e celebrale, il fine non è raggiunto. È necessario che lo spirito in qualche maniera s’immerga nella preghiera, ch’essa prenda intero possesso di lui affinché l’irraggiamento del Nome divino penetri fino alle profondità dell’essere e le rischiari. Questo è il senso delle misteriose parole degli starets quando esortavano i loro discepoli “a discendere dal cervello nel cuore”[11]. Qui non si tratta d’uno sforzo puramente intellettuale d’assimilazione del senso delle parole della preghiera, accompagnato da un certo calore emotivo. Il Nome di Gesù Cristo contenuto nella preghiera “apporta” realmente con se la presenza di Dio. Aprirsi a questa “presenza reale” affinché essa penetri le profondità più intime del suo spirito e le illumini, è quanto costituisce lo sforzo dell’orante.

Dal punto di vista soggettivo, ossia, dal punto di vista dell’ascensione dell’uomo, gli starets hanno l’abitudine di distinguere due gradi nell’ “opera spirituale”. (Senza dubbio in realtà ne esistono un numero infinito, ma questa prima distinzione è essenziale). Così, secondo la testimonianza degli “Anziani”, ci sarebbe per coloro che si dedicano all’ “opera spirituale” un primo periodo nel quale predomina il sentimento per lo sforzo personale e il dolore: è la preghiera attiva o “laboriosa”. Il secondo periodo è quello della preghiera “spirituale” o “carismatica”, chiamata anche “spontanea”[12] o “contemplativa”.

 

3. La preghiera attiva

Affermare che nella frase sull’opera spirituale predomina, almeno apparentemente, lo sforzo della volontà umana, non significa che la Grazia sia assente. Ma questa non agisce che all’insaputa dell’uomo. Egli fatica con il sudore della sua fronte, ma il suo lavoro non porta alcun frutto. Senza dubbio è sollecitato dalla Grazia divina, dal momento che costui decide di consacrare la sua vita a Dio aspirando al dono della preghiera spirituale. Ma quello che, per iniziare, gli tocca in sorte, è un lavoro fastidioso, una lotta ardua contro le passioni, i pensieri malvagi, la noia e la tristezza, lotta dove molto sovente viene vinto e dalla quale ne esce estenuato, scoraggiato dalla visione deprimente del suo peccato e della sua impotenza. È segno della privazione della Grazia divina? No. Perché è proprio là che essa vuole condurre: “Il cammino verso la perfezione è il cammino che conduce alla confessione della mia cecità, della mia povertà, della mia nudità e, indissolubilmente legata alla coscienza di questo stato, alla contrizione spirituale, al sentimento doloroso della nostra impurità, ossia, detto diversamente, al pentimento perpetuo”[13].

Così, all’ingresso della via che conduce ai gradi supremi della preghiera mistica, troviamo, secondo l’insegnamento degli starets russi, l’approfondimento della coscienza del nostro stato di peccato e la contrizione a causa di tale peccato.

Forse questo vorrebbe dire che, per i diffusori della “preghiera spirituale”, la lotta attiva contro il male e le opere ascetiche propriamente dette non contano niente? No. La lotta contro le passioni i pensieri vani o malvagi, caratterizza precisamente la prima fase dell’opera spirituale, quella della “preghiera laboriosa”. Anche l’ascetismo ha il suo luogo ben definito[14]. Senza dubbio vale meglio, secondo i Padri, “cadere e rialzarsi che rimanere in piedi e non pentirsi”. Ma d’altra parte, è spiritualmente pericoloso darsi alla preghiera in stato di grave peccato. Maledetto colui che si compiace della sua falsa tranquillità, rassicurandosi all’idea che nessuno può vivere senza peccare volontariamente o involontariamente. Al contrario, è salutare all’uomo lottare virilmente contro il peccato fino allo stremo delle sue forze. Dopo essere caduto, si rialzerà implorando umilmente l’aiuto della misericordia di Cristo. Lavorando con pena sarà veramente vivo e porrà in se il fondamento della vita nuova. Dunque non esiste alcun quietismo, alcuna passività lassista e, allo stesso tempo, alcuna confidenza in se e nelle proprie opere.

Teofane il Recluso ha espresso ancor più chiaramente questa paradossale esigenza dell’opera spirituale: “Sforzatevi fino allo sfinimento. Portate le vostre forze fino all’ultimo grado, ma la stessa opera della vostra salvezza attendetela solo dal Signore... Il Signore desidera sempre tutto quanto ci è salutare ed è pronto a donarcela. Attende solo che noi siamo pronti o capaci di ricevere i suoi doni. Ecco perché la domanda ‘come imparare a conservarmi?’ si muta in quest’altra: ‘Come essere sempre pronto a ricevere la forza salutare che è sempre pronta a discendere dal Signore su di noi?...’ Ed ecco la risposta a questa domanda. Aprirsi alla grazia ossia ‘sapere vuotarsi, privarsi di ragione, senza forza; sapendo che solo il Signore può, vuole e sa colmare questo vuoto”[15].

Così lo sforzo morale e spirituale e i successi ascetici che ne sono la manifestazione non sono fecondi se non conducono all’umiltà, un’umiltà attiva, che non si compiace dello spettacolo della miseria umana, ma conduce alla sua essenziale opera, quella che è sia la confessione della sua impotenza, sia il segno della sua speranza nella preghiera di tutti gli istanti: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore”. Per colui che conosce la sua miseria, essa non è più, in effetti, un’ “opera meritoria” gradita a Dio, ma un grido del cuore, di disperazione e di speranza, un bisogno irresistibile e perpetuo di chiamare Cristo in aiuto della sua impotenza nella lotta contro le forze demoniache e le inclinazioni malvagie del proprio cuore, che sono tra loro complici.

 

4. Lo spirito d’obbedienza

Prima di parlare dell’opera della preghiera propriamente detta, è necessario menzionare ancora un’altra condizione che deve trovar luogo, secondo l’insegnamento degli “Anziani”, in colui che aspira alla preghiera spirituale. Si tratta dell’acquisizione dello spirito d’obbedienza. L’obbedienza di cui si parla non è l’obbedienza gerarchica ai superiori. È la sottomissione al “padre spirituale”, scelto liberamente al quale il novizio[16] si affida totalmente. “Colui che vuol apprendere l’opera divina deve, conformemente alle Scritture, sottomettersi all’obbedienza nel corpo e nell’anima, cioè sottomettersi ad un uomo timoroso di Dio, che osserva scrupolosamente i comandamenti divini e sia provato nell’opera spirituale, rinunciando totalmente alla sua volontà e al proprio giudizio”[17]. L’insegnamento degli starets russi raggiunge qui la dottrina ascetica degli esicasti greci[18]. Ma, forse, più di loro, pone l’accento sul carattere libero e personale di quest’atto d’elezione reciproca che implica la paternità spirituale.

Qual’è il fine di tale obbedienza ascetica? Prima di tutto essa libera il novizio da ogni pensiero a proposito della sua anima e del suo corpo e da ogni affezione verso qualsiasi oggetto, facendo giungere così alla serenità, a questa leggerezza spirituale che è la condizione della vera libertà. Solo colui che ha rinunciato alla propria “volontà”, ossia alla sua superficiale individualità, schiavo degli elementi di questo mondo, è capace di concentrare le sue facoltà sulla preghiera interiore.

Un altro beneficio dell’obbedienza è quello di allontanare dalla precipitazione chi, cercando prematuramente degli stati mistici superiori, cade con sicurezza vittima delle trappole del Seduttore. Una delle essenziali cause di caduta nell’opera della preghiera è, in effetti, “l’orgoglio satanico di coloro che vogliono sondare, prima d’esserne chiamati, i misteri della grazia”. Unico rimedio efficace a tale funesta impazienza è la sottomissione ai saggi consigli di un “anziano” capace di discernere il grado di crescita spirituale di colui che guida facendolo avanzare passo-passo nella via contemplativa.

 

5. La pratica della preghiera

Fin’ora abbiamo parlato dell’atmosfera spirituale nella quale dev’essere intrapresa l’opera della preghiera. Quanto alla preghiera in se stessa, in apparenza, non sembra presentare alcuna difficoltà. In effetti, si tratta di ripetere centinaia e migliaia di volte: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio, abbi pietà di me, peccatore”[19]. Ma precisamente, questa semplicità è la sorgente di parecchie tentazioni. Le anime pure e rozze, come il pellegrino dei Racconti, possono compiacersi e fare dei rapidi progressi. Ma per la maggior parte, essa è causa di noia e scoraggiamento. La preghiera appare loro come un lavoro fastidioso e sterile dal quale lo spirito tende incessantemente a spogliarsi.

Comunque, non si tratta assolutamente di creare, attraverso la ripetizione, un’abitudine puramente meccanica. Tra i diffusori della Preghiera di Gesù esiste una reazione vivissima contro il formalismo e il meccanicismo, i due scogli della preghiera monastica. Come la confidenza eccessiva nelle opere esterne, nell’ascetismo e nelle mortificazioni, l’importanza esagerata alla quantità, nell’opera della preghiera, è sorgente di fariseismo e di vana soddisfazione di se. Contro coloro che credono di potersi salvare con l’osservanza d’una regola di preghiera più o meno lunga, “attraverso il canto dei salmi e dei tropari”, contro coloro che si dedicano all’opera spirituale accordando troppa attenzione al numero di preghiere da recitare, essi affermano che non è la “quantità”, ma la “qualità” della preghiera che conta[20].

“Non inquietatevi per il numero delle preghiere da recitare – scrive a tal proposito Teofane il Recluso – ma il vostro unico pensiero sia che la preghiera sgorghi dal vostro cuore, vivente come una sorgente d’acqua zampillante. Allontanate dal vostro spirito l’idea della quantità”[21]. Questa esortazione può parere paradossale perché, nella pratica della Preghiera di Gesù, la ripetizione della stessa implorazione gioca certamente un ruolo essenziale. In realtà, questa da se stessa non produrrebbe altro che un effetto puramente psicologico e superficiale. La preghiera non sarà che un flusso di parole vane, se essa non si accompagna con ciò che il linguaggio ascetico denomina con i termini di “attenzione” o “vigilanza” (nepsis in greco).

 

6. L’attenzione spirituale

In che consiste quest’attenzione spirituale? Bisogna che al momento della preghiera lo spirito “discenda dal cervello nel cuore” e che egli “custodisca il cuore”. I commentatori occidentali hanno sovente dato a quest’espressione un’interpretazione ristretta e superficiale. Riferendosi alla descrizione d’una certa tecnica psico-fisiologica, che si trova in parecchi testi esicasti e in particolare nel famoso Metodo d’orazione esicasta[22], al consiglio dato di concentrare l’attenzione sul luogo fisico del cuore, trattenendo per un po’ la respirazione e regolando il ritmo di questa su quello della preghiera, alcuni autori hanno parlato, riguardo alla “custodia del cuore”, d’“omfaloscopia” e hanno visto in questo un’essenziale caratteristica dell’orazione esicasta.

In realtà, essi hanno confuso una certa tecnica esteriore, la cui efficacia è, d’altronde, discutibile perfino negli ambienti favorevoli alla preghiera di Gesù[23], con lo sforzo spirituale che essa sostiene. La sua vera ragione d’essere, in effetti, è quella di condurre l’orante a sentire, in una maniera in qualche sorta fisica – l’autopercezione che noi abbiamo di noi stessi in quanto esseri fisici è differente a seconda della parte del corpo sulla quale si fissa l’attenzione[24] – che il centro della personalità non si trova nel cervello, punto d’intersezione delle forze spirituali della persona con il mondo esterno, mondo delle cose “soprapersonali”, ma nel cuore, o piuttosto nelle profondità misteriose dell’essere di cui il cuore fisico è simbolo[25].

Il ruolo della tecnica è, dunque, puramente strumentale. È uno strumento temibile che il novizio non deve maneggiare se non ponendosi sotto la direzione di un maestro sicuro e sperimentato. Non si tratta né d’esagerare il suo ruolo, né di minimizzarlo sotto l’influenza d’un certo pseudo-spiritualismo razionalista che non ha nulla di cristiano. L’attenzione alla preghiera, condizione della “discesa dell’intelligenza nel cuore” è, in realtà, una tensione di tutto l’essere che allontana da se tutto quello che potrebbe distrarlo dalla sua essenziale opera: quella della preghiera. È una vigilanza dello spirito e del corpo nell’attesa del Dio vivente. Essa esige uno sforzo continuo e cosciente della volontà e trascina con sè, attraverso appropriati mezzi, la pesante corporeità. Essa comporta un doppio movimento, il primo di rifiuto e l’altro d’acquiescenza; rifiuto del mondo da una parte (questo termine nel nostro contesto non designa il mondo fisico in se, ma “un erramento dell’anima all’esterno, un tradimento alla propria natura”[26] sotto l’influenza della Potenza del Male) e, dall’altra, l’acquiescenza alla volontà di Dio, che si trasforma in dono e abbandono a lui. Lo spirito “attento” e “sobrio”[27], si porta dall’esteriore che lo sollecita, agli abissi interiori del cuore, unico luogo dove, nella luce dello Spirito Santo, può effettuarsi l’incontro tra la persona umana e la divinità. “Il Signore cerca un cuore pieno d’amore per lui e per il prossimo – questo è un trono sul quale ama sedersi e dove appare nella pienezza della sua gloria”, diceva san Serafim di Sarov[28].

Per meglio comprendere la natura dell’attenzione, conviene precisare il senso dei termini “cuore” e “spirito” (o “intelligenza”) nel linguaggio mistico della Chiesa d’Oriente. Il termine russo um, che traduciamo con “spirito” o “intelligenza”, corrisponde all’originale termine greco noûs. Non designa l’intelletto nello stretto senso razionalista del termine, ma l’insieme delle facoltà cognitive e contemplative, la luce della ragione e la coscienza che fa dell’uomo un essere personale e libero[29]. I padri greci, e con loro gli starets russi, identificano molto sovente lo spirito con l’immagine di Dio nell’uomo. Impiegando una terminologia più moderna, potremo chiamarla coscienza personale che illumina tutte le sfere della vita umana, essa stessa concepita come un insieme complesso di rapporti con diversi ordini di realtàii.

Quanto al “cuore”, il termine designa nella Tradizione orientale il centro dell’essere umano, “la radice delle facoltà attive, dell’intelletto e della volontà, il punto da dove proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale”[30]. È la Sorgente, oscura e profonda, da dove sgorga tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e per la quale egli è vicino e comunica con la Sorgente stessa della vita. Ne risulta che tutta la vita spirituale che non tocca il cuore non è che illusione e menzogna, non avendo alcuna realtà ontologica, alcuna radice nell’Essere, e che ogni vera conversione deve cominciare da quella del cuore. In effetti è alla sorgente che, attraverso il peccato originale, la vita dell’uomo è viziata e che il fango si mischia con le acque limpide. Ma “quando la grazia s’impadronisce delle pasture del cuore, essa regna su tutte le parti della natura, su tutti i pensieri. Poiché lo spirito e tutti i pensieri si ritrovano nel cuore”[31].

Secondo sant’Ignazio Brianchaninoff, “la natura spirituale dell’uomo è doppia. Da una parte si trova il “cuore”, sorgente dei “sentimenti”, delle “intuizioni” con i quali l’uomo conosce Dio direttamente senza la partecipazione della ragione. Dall’altra parte la “testa” (o il cervello), sede del chiaro pensiero dell’intelligenza”[32]. L’integrità della persona umana risiede nel rapporto armonioso tra queste due forze spirituali. Senza la partecipazione dell’intelligenza, le intuizioni del cuore restano oscuri impulsi. ugualmente, senza il cuore, che è il centro di tutte le attività e la radice profonda della propria vita, l’intelletto-spirito è impotente.

Ontologicamente, la conseguenza essenziale della Caduta per l’uomo è precisamente questa disgregazione spirituale con la quale la personalità è privata del suo centro e l’intelligenza si disperde nel mondo esterno. Luogo di questa dispersione della personalità nel mondo delle cose è la testa, il cervello, dove i pensieri “turbinano come dei fiocchi di neve o sciami di mosche estive”[33]. Con il cervello, lo spirito conosce un mondo esteriore e, allo stesso tempo, perde il contatto con i mondi spirituali e con il cuore che, così accecato e impotente, opprime oscuramente la realtà. Per ricostruire la persona nella grazia, bisogna dunque ritrovare un rapporto armonioso tra l’intelligenza e il cuore.

 

7. Il silenzio dell’anima

Il ritorno cosciente e volontario dell’intelletto-spirito verso gli abissi interiori del cuore esige, a sua volta, la rottura totale con il mondo. Colui che vuole darsi all’opera spirituale deve allontanarsi da ogni percezione esteriore, “distaccarsi da tutti gli oggetti visibili... (e fermare) gli occhi di carne”[34]. Essendo divenuto cieco al mondo, deve pure divenire “sordo e muto”[35] rinunciando, almeno provvisoriamente, a ogni conversazione umana.

Ma il silenzio esteriore non è che la preparazione e il segno d’un silenzio dell’anima infinitamente più profondo. Poiché non devono essere solo allontanate le percezioni sensibili e le parole, ma ogni desiderio, ogni pensiero, ogni immagine, pure santa che sia, tutto ciò che attira lo spirito all’ “esterno”, al di fuori di questo luogo del cuore dove non conosce che la sua miseria e il Nome che la salva. Su questo silenzio di totale nudità, san Serafim di Sarov ha detto che è “una croce sulla quale l’uomo si crocefigge con tutte le sue passioni e concupiscenze”, è “passione sofferta con il Cristo”, ma anche “mistero del secolo futuro”[36]. In effetti, è in lui che lo spirito ha accesso al santuario mistico del cuore dove troverà il suo Dio.

Questa è la via della “preghiera laboriosa”, via stretta e dolorosa. Asprezza, nudità d’un deserto spirituale dove il viandante deve volontariamente chiudere gli occhi da ogni miraggio consolatore. Poiché bisogna rigettare non solamente ogni immagine terrestre ma quelle stesse che sembrano d’origine divina, le “visioni”, le “voci”, le “dolcezze” apparentemente celesti, ma che sovente non sono che il frutto d’uno psichismo guastato dalla concupiscenza, le mortificazioni eccessive dove il desiderio impaziente di anticipare l’ora della grazia cerca delle pseudo-soddisfazioni nel sogno e nell’immaginazione. Anche la saggezza esige nel momento dell’orazione, soprattutto all’inizio dell’opera spirituale, di non rappresentare assolutamente neppure le immagini di Dio proposte dalle Sacre Scritture, sulle quali può essere utile meditare in altri momenti. È questo il vero digiuno, la santa “sobrietà” di coloro la cui anima si nutre unicamente di preghiera e di fede. La preghiera, in effetti, non è l’opera dell’immaginazione, ma della fede.

La più semplice regola riguardante la preghiera è quella di non rappresentare nulla, avendo concentrato lo spirito nel cuore, di rimanere nella convinzione che Dio è vicino, che vede ed ascolta; di prosternarsi davanti a colui che è terribile nella sua grandezza e vicinanza e nella sua condiscendenza verso noi... bisogna sforzarsi di pregare senza immagini di Dio. Conservare nel cuore la fede che Dio è presente, ma, dal momento che lo è, non rappresentarlo neppure. (Teofane il Recluso)[37].

Così la via spirituale dell’orante passa attraverso il deserto, ma non cammina certo nelle tenebre. La luce, pura e completamente immateriale che lo guida, è la fede, che schiarisce la sola immagine dove lo spirito trova un punto d’appoggio, il Nome beneamato di Gesù Cristo. L’attenzione alla preghiera è, in realtà, un’attenzione nella fede.

Effettivamente, anche se perviene al grado supremo di concentrazione delle sue forze psichiche e spirituali, l’uomo non è capace di ricreare in se l’unità persa dello spirito e del cuore. Può solamente fare nella sua anima questo silenzio e vuoto che sono il segno sia d’una tensione estrema, sia d’un abbandono totale, segno dell’attesa, della speranza e della fede, del dono dello Spirito Santo.

(Continua)

 

Prima pubblicazione nella rivista Dieu Vivant, n. 8, Éditions du Seuil, 1947.
Ampi estratti sono apparsi in Orthodoxie et tradition française :
Dogmes, spiritualité, histoire
. Éditions Énotikon, 1957.
Rieditato interamente in La douloureuse joie : Aperçus sur la prière personnelle
de l’Orient chrétien
. Éditions de l’Abbaye de Bellefontaine, 1981.
Tradotto dal francese da “Les Pages Orthodoxes La Transfiguration” che hanno aggiunto i sottotitoli e aggiornato le note.
Due note contraddistinte da diverso colore sono state aggiunte dal traduttore.

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/preghiera.htm

 

[1] Lo starets Paisi, grande promotore della preghiera di Gesù negli ambienti monastici slavi e romeni, la designa con questi termini: Jesusowaja molitwa, umom w serce sowerchennaja, che vogliono dire: “Prieghiere di Gesù, compiuta dall’intelligenza nel cuore”.

[2] Cfr. tra gli altri I. Hausherr : La méthode d’oraison hésychaste, Orientalia christiana, IX, 2, Rome, 1927, e M. Viller, La spiritualité des premiers siècles chrétiens, Bloud et Gay, Paris, 1930.

[3] Termine con il quale si designa volentieri la pratica della preghiera di Gesù, in particolare sotto la forma ch’essa prese nei secoli XIV e XV presso gli esicasti (solitari) del Monte Athos.

[4] Hausherr, La méthode d’oraison hésychaste.

[5] Questi Chapitres sono riprodotti in Entretiens sur la Prière de Jésus (Besedi o militwe Jesuwoj), opera molto importante per la comprensione della “preghiera spirituale” in Russia, pubblicata a cura del monastero di Valaam (Serdobol, 1938), p. 270 e seguenti.

[6] Dopo la prima pubblicazione di questo articolo nel 1948, les Éditions de l’Abbaye de Bellefontaine hanno pubblicato La philocalie des Pères néptiques in 11 volumi tra il 1979 e il 1991. Les Éditions Desclée de Brouwer e Jean-Claude Lattès hanno ripreso il testo interamente in due volumi nel 1995, con un’introduzione di Olivier Clément. Sono stati tradotti degli estratti presentati da Jean Gouillard in La petite philocalie de la prière du coeur, Seuil (Points/Sagesses, 20), 1979.

[7] Paisi Velitchkovski, Entretiens, p. 294

[8] Paisi Velitchkovski, Entretiens, p. 299.

[9] La venerazione del Nome di Gesù è tanto antica quanto la Chiesa cristiana. Essa affonda le sue radici nella pietà dei fedeli dell’Antica Alleanza per il Nome di Yahvé. Essa ha trovato la sua espressione perfetta nelle parole di San Paolo: “Dio lo ha sovranamente elevato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, affinché al Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei Cieli, in terra e sottoterra e ogni lingua proclami che egli è il Signore a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).

i [Il corsivo è nostro. Si tenga presente che tale riferimento è essenziale per chi non vuole incorrere in delusioni e in interpretazioni errate riguardo alla preghiera di Gesù. Il riferimento, poi, tiene conto che tale preghiera non può essere enucleata dal contesto ecclesiale nel quale si esprime, contesto che concepisce Dio e l’uomo in modo coerente alla preghiera stessa. Nell’Ortodossia, infatti, la spiritualità è unita profondamente alla teologia, all’antropologia e all’ecclesiologia. Prenderne un elemento e trapiantarlo altrove senza tenere conto di ciò che lo circonda è un po’ come piantare una pianta esotica in un terreno a lei estraneo. La preghiera opera un’unità. Che tipo di unità può operare se, già al primo momento in cui la si compie, non si crede, ad esempio, alle energie divine e alla presenza del noûs nell’uomo, noûs ed energie presupposte dalla stessa preghiera? E se uno ci crede ma appartiene ad una chiesa che non considera queste realtà non è in disarmonia e divisione con la sua chiesa? Così, già inizialmente, ci sarà una divisione tra le cose credute e le realtà praticate, tra se stessi e la chiesa alla quale si appartiene, la preghiera-unità diviene paradossale segno di disunione! Ecco perché si insiste sul pieno senso della pratica di tale preghiera nell’Ortodossia e non al di fuori di essa. N.d.t.].

[10] Starets Rasik, citato da C. Cetwerikow nel suo libro Paisi Velitchkovski, p. 90.

[11] ‘‘È necessario discendere dal cervello al cuore. Al momento non esistono tra voi altro che pensieri completamente celebrali su Dio, ma Dio stesso resta all’esterno”. Teofane il Recluso, Intrattenimenti, Mosca, 1898, p. 58. Il libro dell’igumeno Caritone di Valamo, L’arte della preghiera: Antologia di testi spirituali sulla preghiera del cuore (Éditions de Bellefontaine, 1976), contiene ampie citazioni di scritti di Teofane il Recluso.

[12] Noi traduciamo per “spontaneo” il terme russo samodwiznaia che significa esattamente: “Colui che tace per se stesso”. Si avrebbe torto di tradurlo, in questo contesto, con “automatico”. Designa, qui, un risultato ottenuto senza sforzo contrariamente al frutto dovuto allo sforzo di una penosa volontà.

[13] Paisi Velitchkovski, Entretiens, p. 395.

[14] Esiste comunque presso tutti i maestri russi della “preghiera spirituale”, pur essendo per la maggior parte asceti, una certa diffidenza dell’ascetismo puramente esteriore. Così Teofane il Recluso scriverà: “Prestate meno attenzione possibile alle prodezze esteriori d’ascetismo. Sono senza dubbio necessarie ma non sono l’edificio ma l’impalcatura. L’edificio è nel cuore. Conducete la vostra intera attenzione sull’opera del cuore”.

[15] Teofane il Recluso, Entretiens, p. 383. Altrove Teofane scrive: “Non attaccare la propria speranza di un solo capello alla propria opera personale, è già distogliersi dal retto cammino. Se vi ritirate nella solitudine pensando che grazie alle vostre metanie, alla recitazione delle preghiere, alle veglie notturne, tutto cambierà, il Signore, a sua volta, non vi accorderà la grazia promessa finché non sarà sparita ogni speranza nelle vostre opere, anche se senza di esse non potete ricevere nulla” (Entretiens, p. 379.)

[16] Diamo a questo termine, qui utilizzato, un senso generale non specificamente monastico.

[17] Paisi Velitchkovski, Entretiens, p. 295. Lo starets Paisi ammette, comunque, che in mancanza di un buon padre spirituale la Sacra Scrittura può servire da guida.

[18] Cf. Hausherr, La méthode d’oraison hésychaste, p. 157.

[19] Ecco il consiglio dato dallo starets all’autore dei Récits d’un pèlerin russe : “Devi accettare questo comandamento con confidenza e recitare tanto quanto puoi la Preghiera di Gesù. Ecco una corda di preghiera con la quale potrai iniziare tremila preghiere al giorno. In piedi, seduto, a letto o camminando, ripeti senza posa: Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me! dolcemente e senza fretta. Recita esattamente tremila preghiere al giorno senza aggiungervi o togliervi nulla. È così che perverrai all’attività perpetua del cuore”. Jean Laloy, trad., Récits d’un pèlerin russe, Baconnière/Seuil (Points/Sagesses, 14), 1978, pp. 33-34. Bisogna sottolineare l’importanza data alla stretta obbedienza allo starets. La raccomandazione di ripetere la Preghiera tremila volte non ha altro senso.

[20] C. Cetwerikow, Païsi Velitchkovski, T. II, pp. 89-90.

[21] Teofane il Recluso, Entretiens, p. 359.

[22] Hausherr, La méthode d’oraison hésychaste, p. 102 e ss.

[23] Lo starets Paisi, nei suoi Capitoli sulla preghiera, si limita a riprodurre senza commento il testo sul Metodo attribuito, senza dubbio falsamente, a Simeone il Nuovo Teologo. Teofane il Recluso ha un’attitudine più critica (Cfr. Entretiens, pp. 327, 328, 339, 340). Parla della tecnica come d’un rifugio per coloro che sono “induriti in un formalismo esteriore”. Comunque ammette che, a seguito dell’unione dell’anima e del corpo, le attitudini corporali hanno un’influenza sull’attenzione dello spirito.

[24] Cfr. Paisi Velitchkovski, Entretiens, p. 79.

[25] Cfr. Paisi Velitchkovski, Entretiens, p. 59.

[26] Cfr. Vladimir Lossky, Essai sur la théologie mystique de l’Église d’Orient, Cerf, 1990, p.197.

[27] Il termine “sobrietà” (nepsis in greco) è caratteristico d’una mistica che esclude ogni ebrezza, ogni esaltazione puramente psicologica, ogni voluttà e immagine umana.

[28] Irina Goraïnoff, Séraphim de Sarov,Desclée de Brouwer/Abbaye de Bellefontaine, 1979. Entretien avec Motovilov, p. 181.

[29] Cfr. Lossky, p. 198.

ii [Dissentiamo completamente da quest’interpretazione psicologica di noûs. L’autrice la coglie da Valdimir Lossky. In realtà, per i padri della Chiesa, il noûs è una realtà spirituale immanente ma pure trascendente all’uomo stesso. Confronta con quanto si espone, in tal proposito, nel presente sito. Il noûs non è proprio alla “persona” umana ma alla sua “natura”. È un mistero che viene scoperto all’interno di sé attraverso l’ascesi e la preghiera, è un occhio spirituale del quale ci si accorge vivendo nell’umiltà e nella continua contrizione che permette d’intuire l’esistenza delle realtà dello spirito prescindendo dalla razionalità. Spiegarlo nei termini d’una “coscienza personale che illumina le sfere della vita umana” al nostro tempo non significa altro che far precipitare l’attività divino-umana del noûs in un dominio unicamente umano e di relazioni personali umane. Ciò avviene anche se non lo si vuole, dal momento che si spiegano le cose con i termini della nostra attuale cultura senza le necessarie precisazioni. D’altronde è in questo sfondo filosofico esistenziale che si muovono parecchie affermazioni teologiche di Vladimir Lossky che, perciò, tendono ad allontanarsi dalla genuina prospettiva patristico-ortodossa. I termini e la loro maniera d’impiegarli nascono sempre da un concetto di uomo, di mondo e di Dio. Ecco perché i termini antropo-teocentrici dei padri non sono facilmente scambiabili e traducibili con quelli di una filosofia atea esistenzialista! N.d.t.]

[30] Lossky, p. 197.

[31] San Macario, Omelie spirituali, XV, 32. P.G., 34, 597B.

[32] Ignace Brianchaninoff, Entretiens, p. 59 e seguenti.

[33] Teofane il Recluso, Entretiens, p. 58.

[34] Serafim di Sarov, Instructions spirituelles, p. 201.

[35] Serafim di Sarov, Sa vie, p. 47.

[36] Serafim di Sarov, Sa vie, p. 47.

[37] Teofane il Recluso, Entretiens, p. 70.

 

 

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