LA PENISOLA DEL MONTE ATHOS

LA VITA DI PREGHIERA

 

Le origini del monachesimo

Il monachesimo organizzato non appare prima dell’inizio del IV secolo, ma già fin dalle origini del cristianesimo vi furono singole persone che realizzarono la sequela di Cristo in modo radicale, con la rinuncia a costituirsi una famiglia, vivendo nella castità, nella povertà, usando le eventuali ricchezze ereditate in opere di carità a favore dei poveri della Chiesa. Queste persone erano chiamate “asceti” dal greco àskisis, che indicava l’esercitazione laboriosa degli atleti per conquistare la vittoria nelle gare. La vita cristiana veniva paragonata al lungo periodo di preparazione per conseguire il premio finale e quindi realizzata in un continuo progresso spirituale. Ciò tuttavia non comportava una fuga dal mondo.

La fuga apparve forse per la prima volta come programma di vita nella vicenda di sant’Antonio (250-356) che, sentendo leggere nel Vangelo le parole di Gesù “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” (Matteo 19, 21), le mise letteralmente in pratica, ritirandosi a vivere in estrema indigenza tra il Nilo e il Mar Rosso. Ma non potè rimanere solo: la fama della sua santità attirò molti giovani generosi e nomini maturi, delusi dalle esperienze mondane che, cercando la sua direzione spirituale, si sistemarono nei dintorni in grotte e capanne. Così al difficilissimo e pericoloso ideale della vita solitaria, rimasta sempre nella pratica per alcuni, specialmente nei deserti di Siria, si sostituì una prima forma di vita associata: la lavra. Tuttavia rimase l’originaria denominazione di monaco (monachòs), “solitario”, e di anacoreta, “colui che si è ritirato” dal mondo. Attorno alla stessa epoca, un altro egiziano, san Pacomio (290-346), pensò che fosse più utile per il progresso spirituale dei monaci riunirli in comunità in un unico edificio, chiamato monastero, legati all’obbedienza di un unico superiore, con un comune orario giornaliero nel quale alla preghiera si alternasse il lavoro manuale per il mantenimento della comunità. Così nacque il cenobio (koinòbion, che ora si pronuncia kinòvion). Tale formula si propagò rapidamente in Egitto e in Palestina e giunse a Roma verso la metà del IV secolo. In Oriente la si riscontra nelle disposizioni ai monaci di san Basilio (330-379), alla quale più tardi in Occidente si ispirerà la Regola di san Benedetto (480-547). Le disposizioni basiliane applicate variamente nei monasteri, furono precisate nei particolari da san Teodoro Studita (759-826) per il monastero di Studion a Costantinopoli. E’ necessario aggiungere che in questi secoli la regola di un santo asceta non coincide con i suoi scritti come se questi fossero disposizioni legislative ma con la vita del santo. La regola in questo tempo non è, dunque, un codice di norme scritte come verrà sentito in Occidente molti secoli dopo. Ciò spiega la libertà con la quale, ancora oggi, vengono interpretate ed adattate le antiche disposizioni monastiche.

Sant’Atanasio, nella sua fondazione all’Athos, imitò da vicino la Regola di san Teodoro, non sopprimendo tuttavia la forma eremitica e il tipo di lavra che già esisteva sulla Santa Montagna. Tuttavia, sulla linea stabilita da San Basilio, collegava gli eremiti con un monastero, e disponeva che il superiore concedesse solo a pochi monaci, già sperimentati nella fedeltà alla vita comunitaria il privilegio di ritirarsi in un eremo a fare vita solitaria di preghiera e penitenza.

Nell’Athos sussistono contemporaneamente le tre fasi dello sviluppo storico del monachesimo: l’eremitismo in capanne talora isolate sulla montagna, nascoste e raggiungibili con difficoltà; la vita parzialmente associata in molte kalivi e kellia; la vita comunitaria nei monasteri e nelle skiti.

Il monachesimo dell’Athos, come generalmente quello orientale, è rimasto fedele allo scopo primigenio della vita monastica. In Occidente la vita religiosa associata si è adattata a seguire un mondo ormai non più statico con la nascita degli ordini mendicanti che completavano o supplivano il clero secolare. Poco alla volta queste comunità religiose divennero prevalentemente sacerdotali. Il fenomeno della clericalizzazione degli ordini raggiunse il suo apice nel periodo barocco e non risparmiò neppure i benedettini, unici in Occidente a meritare correttamente il titolo di monaci. Contrariamente a ciò, in Oriente e, in modo speciale nell’Athos, gli “ieromonaci”, cioè i monaci sacerdoti, e gli “ierodiaconi”, i monaci diaconi, sono molto pochi: il loro numero è indispensabile per la celebrazione della Divina Liturgia e per amministrare i sacramenti a servizio della comunità monastica. Questa scelta coincide con lo scopo originario del monaco la cui vita non è espressamente dedicata all’apostolato in una parrocchia o nelle missioni, ma alla santificazione personale rinunciando a quanto potrebbe impedire o ritardare l’unione con Dio. Normalmente si dice che lo scopo dei cristiani è comune. Tuttavia se coloro che vivono nel mondo tendono a Dio come chi salendo su una montagna ne percorre la strada, il monaco lo fà come chi scala la montagna stessa. Ecco perché il monaco vive nella castità e nella povertà, nell’astinenza e nel digiuno, ma specialmente nell’umiltà. Quest’ultimo motivo lo spinge a considerarsi un “servo inutile” (Luca, 17, 10), anche se tutta la sua vita fosse tesa a servire Dio. A questo nel cenobio si aggiunge la rinuncia alla propria volontà con la sottomissione agli ordini del superiore e alle esigenze comuni. In queste condizioni si realizza una vera comunità, praticando il servizio del prossimo, la carità fraterna e la pazienza, virtù irrinunciabile là dove vivono assieme parecchie persone. Quanto alla vita intellettuale, non rientra negli scopi del monaco. In Oriente, come nel medioevo occidentale, i monasteri furono la salvezza degli antichi tesori della letteratura classica e patristica, ma ciò non rientra nella finalità della vita monastica, ma al fatto che, tra i lavori manuali assegnati ai monaci, vi era anche quello di ricopiare i manoscritti. Tuttavia, a differenza dell’Occidente, durante la progressiva cristianizzazione dei barbari dopo il crollo di Roma imperiale, in Oriente sopravvisse fino al XV secolo la raffinata cultura romano-bizantina, con le sue scuole imperiali e vari ambienti culturali. Solo dopo la caduta di Costantinopoli, la Chiesa e i monasteri dovettero supplire allo stato cristiano che non esisteva più, salvando con la fede ortodossa i valori dell’antica cultura come pure il sentimento nazionale.

La vita monastica è, in primo luogo, ascetismo che non è fine se stesso dal momento che lo scopo è la vita mistica la quale, secondo i maestri della vita spirituale, irrompe in forza della grazia, cioè di un dono divino, quando la purificazione dei sensi, della fantasia e dell’intelligenza abbia lasciato via libera all’azione del Santo Spirito. Si tratta di un’esperienza spirituale, che i maestri si sono sforzati di descrivere, ma che non può essere compresa se non da chi l’ha provata. Infatti essa non è sul piano di una teoria, che può essere spiegata concettualmente, ma sul piano esistenziale di un contatto personale con Colui che sta al di là delle nostre fantasie e dei nostri concetti. Molti all’Athos hanno raggiunto questa esperienza, ma essa resta il loro segreto; nulla ne appare all’esterno se non, forse, un riflesso in quella semplicità, dolcezza, mitezza e quasi trasognata serenità, che si riconosce nello sguardo di qualche umile monaco.

 

I gradi della professione monastica

Vi sono all’Athos, come negli altri monasteri ortodossi, tre gradi di professione monastica. Il laico che desidera diventare monaco assiste agli uffici ed è adibito a qualche lavoro. Dopo tre mesi riceve l’abito monastico: una veste talare nera (antérion) allacciata al collo e tenuta aderente alla persona da una cintura di cuoio (zoni); come copricapo lo skufos, un berretto cilindrico, il quale differisce da quello del clero secolare (kalimavchion) perché più basso e senza l’orlo sporgente nella parte superiore. Dopo altri tre mesi può indossare il rason, ampio e leggero soprabito nero con maniche larghissime, comune a ogni grado monastico ed ecclesiastico. Tuttavia questo abito diventa definitivo quando, dopo due o tre anni, il novizio, che ha dato buona prova di sé, non in un noviziato ma nel monastero comune, affidato alla cura spirituale di un monaco anziano, viene finalmente ammesso al primo grado, quello di rasofòros (portatore del rason). Mediante una breve funzione liturgica, e cioè dopo alcune preghiere, il novizio riceve la tonsura, il rason e lo skufos. Quanto alla tonsura, si noti che essa rimane solo come un rito, segno della rinuncia alle vanità del mondo, ma in realtà il monaco si lascia crescere barba e capelli a imitazione degli antichi eremiti. Le lunghe capigliature, annodate dietro la nuca, godono in epoca moderna minore stima, specie nel clero secolare, ma la barba è assolutamente di regola. Il rasoforo non è ancora legato in modo definitivo alla vita monastica e al suo monastero; tuttavia può rimanere tale per tutta la vita.

In genere dopo alcuni anni, da cinque a dieci, il rasoforo viene ammesso al secondo grado, quello di stavrofòros (portatore della croce). Questa professione monastica avviene durante la Divina Liturgia. L’igumeno impone al monaco lo schima (o piccolo abito): è un quadrato di stoffa con la figura della croce e altri simboli sacri, che si porta sulla persona sotto la veste. In seguito il monaco tocca il libro del vangelo, riceve il libro delle regole monastiche, e gli viene praticato ancora il rito della tonsura. Segue la consegna degli abiti monastici, cioè del rason, del mandyas, un largo manto nero per i monaci e viola con linee bianche per i vescovi, un velo nero che copre lo skufos, chiamato epanokalymavchion. Tale velo nel clero secolare è proprio solo dei vescovi e dei dignitari (archimandriti), i quali, anche senza vivere in un monastero, rimangono celibi e fanno la professione monastica. Alla fine gli viene consegnata una candela accesa e una croce di legno, che il monaco avrà sempre con sé caratterizzandolo con il titolo di stavroforo. Il monaco stavroforo è legato per sempre alla vita monastica e al suo monastero.

Il terzo grado è quello del “grande abito” (megàlo schima). Solo dopo molti anni di vita monastica esemplare lo stavroforo può accedere al grado di megalòschimos. Il rito, alquanto solenne, comprende ancora la tonsura e la consegna degli abiti monastici, da ultimo l’abito caratteristico di questo terzo grado, il “grande abito”, chiamato anche analavos. E’ una specie di scapolare che scende sul davanti come una stola, ornato con una croce e con i simboli della Passione (spugna, lancia e iscrizioni varie. Presso i russi esso è completato da un cappuccio ornato di croci. Lo si porta sempre sopra gli altri abiti monastici, ma solo in determinate occasioni. Il monaco megaloschimos partecipa alla vita della comunità come consigliere e guida spirituale, ma è dispensato dai lavori manuali.

 

Cenobitisino e idiorritmia

Come già abbiamo avuto modo di far notare, il cenobio, che presenta l’organizzazione monastica più perfetta, ha una costituzione, per così dire “monarchica”, avendo a capo l’igumeno (igumenos), che dura in carica per tutta la vita. Viene eletto da tutti gli stavrofori e i megaloschimi del monastero in due sedute: nella prima si designano i più degni d’essere eletti, nella seconda a scrutinio segreto si elegge il nuovo superiore.

L’igumeno esercita la sua autorità con l’assistenza di tre epitropi (procuratori) e di un consiglio di otto anziani. Nel monastero cenobitico tutto è comune, anche gli abiti che ciascuno porta oltre alla preghiera liturgica e alla mensa. L’igumeno non ha alcuno sopra di sé. Neppure il protepistàtis, capo di tutta la confederazione monastica, ha la precedenza sull’igumeno quando visita il monastero. Tuttavia l’arbitrio dell’igumeno è minimo, delimitato com’è dal regolamento; per l’assegnazione degli incarichi hanno responsabilità anche gli anziani del consiglio e gli epitropi. Questi hanno una grande importanza per le mansioni amministrative. Si occupano dei bisogni del monastero e amministrano i beni della comunità. Tra le particolari incombenze affidate al monaci ricordiamo le più importanti: pyloròs o portàris, il portiere; archcondaris, l’addetto alla foresteria (archondarikion) che accoglie gli ospiti e si prende cura di loro; kodonokrustis o kambanàris, il campanaro o più spesso l’incaricato di battere con un martello il simandron, di legno se recato in mano, di ferro se sospeso. Tale strumento segna l’inizio delle funzioni sacre e delle riunioni per la mensa o per altri scopi. Esiste poi l’ekklisiastikòs, il sacrestano; l’anaghnòstis, il lettore. Costui è ordinato con un sacro rito per leggere in chiesa i passi biblici (ad eccezione del Vangelo che è riservato al diacono o al sacerdote) e, nel refettorio, leggere le vite dei santi o altri libri spirituali. I monaci lettori sono anche cantori, perché tutti gli uffici che si recitano in chiesa sono accompagnati dal canto. L’elenco degli incarichi prosegue con il vivliofylax, il bibliotecario; lo skevofylax il conservatore del tesoro nel quale si custodiscono i cimeli, le icone antiche e i paramenti preziosi. Altri incaricati attendono a servizi meno nobili ma non meno necessari: il trapezàris, l’addetto al refettorio; il maghiras, il cuoco; il dochiàris il cantiniere; l’arsanàris, l’addetto al piccolo porto (arsanàs) del monastero; il vadonàris, l’addetto ai trasporti e alle stalle dei muli. Come si vede, il cenobio è concepito come una comunità autosufficiente. Infatti altri monaci lavorano attorno alle coltivazioni (orti, vigneti, uliveti) e sorvegliano o eseguono le provviste di legname nei boschi del circondario. In tal modo, il monastero arriva anche a esportare vino, olio, legname, procurandosi in cambio i generi che non si possono trovare sul posto. Un’ultima caratteristica dello statuto cenobitico, a differenza di quello idiorritmico: nel cenobio non si mangia mai carne, neppure a Pasqua.

Caratteristiche del monastero idiorritmico (idios, proprio, privato; rythmòs, ordine regola) sono il permesso della proprietà privata ai monaci e la vita in gruppi o famiglie monastiche distinte, benché alloggiate nello stesso monastero e riunite in preghiera nella stessa chiesa centrale. La famiglia monastica è composta da cinque o sei monaci attorno a un presidente (proestòs) il quale, come un padre di famiglia, ha il peso finanziario di mantenere i suoi monaci. Il monastero fornisce pane e farina, vino, olio, legna; il presidente deve pensare al resto. Ciò spiega come possa formarsi una famiglia di questo tipo: da una parte il presidente deve avere personalmente dei mezzi e quindi cercare tra i novizi e i monaci liberi chi vuol fare vita monastica sotto la sua presidenza; d’altra parte i novizi o i monaci liberi scelgono un presidente di loro gradimento per mettersi sotto il suo patronato. Naturalmente non vengono mantenuti a ufo; fanno i lavori che il presidente dispone per il buon andamento della famiglia, ma ricevono anche un piccolo salario che mettono da parte e di cui si serviranno liberamente. Nel tempo disponibile possono dedicarsi a qualche lavoro di artigianato e guadagnare qualche cosa dalla vendita dei prodotti di tale lavoro, in genere oggetti religiosi, arredi, piccole icone, incensi pregiati, eccetera.

Ogni famiglia monastica vive in un appartamento proprio: il presidente occupa le camere che vuole e le arreda anche con proprietà ed eleganza e alloggia i suoi monaci nelle rimanenti camere, lasciando alla loro fantasia di arredarle come vogliono. Ogni famiglia ha la sua cucina e il suo refettorio. Nel refettorio comune, di solito grandioso e ornato di affreschi, le varie famiglie si radunano solo tre volte all’anno in occasione delle grandi feste. Ogni monastero conta da tre a dodici famiglie. Non esiste l’igumeno né un’autorità di tipo personale. L’autorità centrale, unico legame tra le famiglie dello stesso monastero, è costituita dal consiglio di tutti i presidenti delle singole famiglie. Naturalmente anche questo consiglio ha un suo presidente (proistàmenos), che viene eletto dai membri del consiglio e deve essere approvato dal consiglio generale di tutti i monasteri dell’Athos (Sacra Comunità o Antiprosopia). Egli ha il titolo di dikeos (giusto), e tutte le prerogative onorifiche dell’igumeno, ma nessun potere che rientra completamente come prerogativa del consiglio. Il consiglio nomina il padre spirituale (pnevmatikòs) che è il confessore di tutto il monastero; decide sull’ammissione agli ordini sacri (diaconato, sacerdozio) dei monaci appartenenti al monastero. Nomina anche l’economo, amministratore dei beni del monastero, che praticamente sbriga anche le compere per incarico dei singoli presidenti; nomina i sacrestani, perché la chiesa e le cappelle sono in comune, nominando pure l’archondàris, l’addetto alla foresteria, dato che l’ospitalità viene esercitata a nome e a spese di tutto il monastero. Il consiglio decide dell’espulsione di un monaco, se si rende necessaria, ma non dell’accettazione che è prerogativa del presidente che lo prende a carico.

Il candidato, che ha trovato un presidente che lo accetta nella propria famiglia, fa un noviziato di due o tre anni, occupato nei lavori materiali e nella lettura di libri ascetici, con la frequenza regolare alle preghiere comuni. Terminato il noviziato diventa stavroforo con l’approvazione del consiglio. Egli resta però legato al monastero solo per propria volontà. Potrebbe diventare un monaco libero, ma allora dovrebbe provvedere personalmente a tutte le sue necessità, ricevendo dal monastero solo l’abito. La vita comune si svolge nell’ambito della famiglia monastica, tranne che per gli uffici liturgici, celebrati da tutte le famiglie riunite. Il presidente della famiglia non è necessariamente un sacerdote. A questo proposito si noti che i monaci sacerdoti (ieromonaci) o diaconi (ierodiaconi) non hanno nessuna precedenza sugli altri monaci, ma ricevono il medesimo trattamento, ciò in tutti i monasteri, cenobitici o idiorritmici.

Se all’Athos si trova un vescovo come ospite temporaneo o in ritiro definitivo, egli non ha alcuna autorità sui monasteri. Potrà presiedere le celebrazioni liturgiche nelle solennità maggiori; potrà anche essere designato dalla Sacra Comunità per le ordinazioni dei sacerdoti e dei diaconi, ma non spetta a lui interferire nella vita dei monasteri.

Quanto all’autorità spirituale del patriarca di Costantinopoli, che è il capo gerarchico dell’Athos, essa si esercita mediante l’Exarchia, un consiglio di tre metropoliti. Talvolta il patriarca interviene mandando un éxarchos (delegato) straordinario, un metropolita a ciò designato con altri sacerdoti, allo scopo di visitare i monasteri, informarsi sul loro funzionamento, convocare la Sacra Comunità per risolvere le questioni pendenti e comunicare le disposizioni del patriarca. Come già abbiamo notato, nonostante l’opinione della gerarchia e degli intellettuali ortodossi sfavorevole allo statuto idiorritmico, ben sette monasteri, anche tra i più importanti, praticano tuttora l’idiorritmia: Grande Lavra, Vatopédi, Iviron, Chilandàri, Pantokràtoros, Xiropotàmu, Dochiariu.

Un altro punto dove i monaci dell’Athos non temono di mettersi in contrasto con le direttive del patriarcato consiste nella difesa dell’ortodossia. A tal proposito criticano apertamente l’ecumenismo quale sorgente d’indifferentismo religioso. In questa linea, nell’aprile del 1980, la Santa Assemblea (Synaxis) della comunità della Santa Montagna, in sessione straordinaria, emanò una “Dichiarazione” al patriarca e a tutto il mondo ortodosso denunciando l’errore e il pericolo insito nelle relazioni della Chiesa ortodossa con gli eterodossi e particolarmente nel dialogo con i cattolici romani. La Dichiarazione afferma che “il dialogo con gli eterodossi può solo avere lo scopo di illuminarli, perché possano ritornare alla vera fede. Ma il dialogo teologico non può assolutamente accompagnarsi con preghiere comuni, ciò che potrebbe dare l’impressione che la nostra Santa Chiesa Ortodossa riconoscerebbe i cattolici romani come formanti una Chiesa nel senso pieno e il papa come il vescovo canonico di Roma”. Naturalmente questo tipo di affermazioni non negano quegli elementi di valore che possono esistere all’interno delle altre confessioni cristiane. Ma quest’aspetto è riscontrabile soprattutto nel dialogo diretto con ogni monaco.

 

La giornata del monaco

Secondo il nostro modo di computare le ore, la giornata del monaco all’Athos incomincia all’una o alle due di notte secondo le stagioni. Al rintocco del simandron i monaci, rivestiti dell’abito corale, cioè del rason e del velo nero sullo skufos, si radunano nella chiesa maggiore del monastero, detta katholikòn, e celebrano l’ufficio notturno (mesonyktikòn), l’ufficio dell’alba (òrthros), accompagnato dalle lodi mattutine (Èni). Segue la liturgia eucaristica (la Divina Liturgia), per la quale il sacerdote e il diacono indossano le vesti liturgiche. La Divina Liturgia è celebrata da uno dei sacerdoti per turno. Solo nelle feste la celebrazione è presieduta dall’igumeno, con altri sacerdoti concelebranti. Generalmente i monaci non ricevono con frequenza la comunione. Ciò per umiltà e perché la comunione deve essere preceduta da una lunga preparazione. La questione sulla frequenza alla comunione divise gli animi all’Athos nel secolo scorso. Una corrente sosteneva l’utilità della comunione frequente, altri ritenevano che ciò fosse un segno di presunzione. Infine il patriarca stabilì che ciascuno agisse secondo la propria coscienza. La frequenza alla comunione è molto maggiore presso i monaci russi, anche se esiste qualche monastero greco che la pratica (Grigoriou).

La celebrazione notturna e mattutina dura da quattro a cinque ore. Alla vigilia delle grandi feste vi è la pannychis (tutta la notte) o agrypnia (rinuncia al sonno). L’ufficio comincia alla sera con l’ora di nona e il vespero (esperinòs) e si prolunga per tutta la notte. Il giovedì e venerdì della Grande Settimana (la Settimana Santa), l’ufficio dura praticamente l’intera giornata. A differenza di quanto si è imposto in Occidente, la preghiera dell’ufficio divino non è un obbligo individuale, ma della comunità. Le composizioni dell’ufficio bizantino sono così numerose e ricche da non potersi riunire in un breviario portatile di facile consultazione per il singolo. Esse compongono una piccola biblioteca. Le ufficiature liturgiche hanno varie parti: le preghiere che sono recitate dal sacerdote all’altare; le invocazioni che sono cantate dal diacono tra due cori; i salmi, i canti, le letture che sono cantati alternativamente di due cori. I monaci lettori sono riuniti attorno ai leggii, a destra e a sinistra. Sui leggii sono collocati dei grandi libri che riportano gli uffici di ogni giorno, dei santi e delle feste. Gli altri monaci stanno disposti nei loro stalli tutt’attorno alle pareti della chiesa, ascoltando senza leggere, segnandosi e inchinandosi nei momenti stabiliti. Altre parti dell’ufficio sono: l’ora di prima, di terza, di sesta, che possono essere recitate in altri luoghi, anche sul posto di lavoro. Comunque, la prima può essere un’appendice delle lodi mattutine e la nona è recitata prima del vespero nel pomeriggio. La compieta (apòdipnon: dopo cena) è recitata in comune o in privato prima del riposo notturno.

Dopo la Divina Liturgia, ai monaci viene servita una tazza di caffè o di tè, dopodiché inizia il lavoro e ciascuno si applica in vari modi. Il pranzo è le prime ore della mattina a seconda da quando comincia a sorgere il sole. Quando non è giorno di digiuno, i cenobiti possono mangiare del pesce, mentre nei monasteri idiorritmici anche della carne. Di solito viene servita una zuppa, legumi cotti in acqua e conditi con olio, formaggio, verdura e frutti freschi o secchi. Il vino non manca nei giorni ordinari. Nei giorni di digiuno i monaci si astengono dal pesce, dai latticini, dall’olio e dal vino. Inoltre in questi giorni vi è un solo pasto completo; alla sera solo una piccola refezione. I giorni di digiuno sono 125, distribuiti in quattro periodi: dal 15 novembre in preparazione al Santo Natale, nella Grande Quaresima dalla sesta settimana prima della Santa Pasqua, dalla domenica dopo Pentecoste in preparazione alla festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno). dal primo di agosto in preparazione alla festa della Dormizione (o Assunzione) della Madonna (15 agosto). Inoltre ogni mercoledì e venerdì nel corso dell’anno è giorno di digiuno, tranne qualche mitigazione quando uno di questi giorni coincide con una festa. Durante il pranzo, che ha luogo nel refettorio comune, un lettore per turno legge la vita di qualche santo o scritti ascetici. Una preghiera precede e segue il pasto. Esiste, inoltre, l’uso dell’ “elevazione” della Panaghia (la Tutta Santa), cioè di un pane che viene deposto davanti a un’icona della Madonna. Alla fine del pranzo esso viene incensato e benedetto e poi innalzato con un’invocazione alla Madonna, dopodiché ogni monaco ne riceve un piccolo pezzo. Essa vuol ricordare la presenza della Madonna ai pasti degli apostoli e della Chiesa primitiva e vuol sottolineare che, come allora, anche ora spiritualmente la Madre di Dio è vicina ai suoi figli riuniti a mensa. Nelle prime ore pomeridiane c’è un riposo, fino alle due o alle tre. Quest’usanza è comune nei paesi mediterranei, ed è indispensabile nei monasteri dove metà della notte viene passata in preghiera. Nel secondo pomeriggio si riapre la chiesa per l’ora di nona e di vespero e riprende il lavoro. Dopo la cena c’è un po’ di tempo libero e la compieta. Come preghiera privata e personale i monaci possono fare qualche lettura spirituale, o pregare mentalmente. Tutti però hanno l’impegno che gli assegna il loro padre spirituale (pneumatikòs) di fare un numero determinato di “metanie” con l’invocazione del nome di Gesù: “Gesù Cristo, figlio di Dio abbi pietà di me!”. La metania è una prostrazione fino a terra (grande metania) o un inchino profondo toccando la terra con la mano destra (piccola metania), che si conclude con un segno di croce e con l’invocazione. Un numero determinato di metanie sostituisce l’ufficio divino celebrato in comune; ciò è di regola per gli eremiti che vivono lontano dalla comunità. Molto è lasciato all’iniziativa individuale. E’ appunto praticando questa preghiera di Gesù che gli esicasti si concentrano nel pensiero della presenza di Dio, fino a divenire come trasfigurati. Per contare le invocazioni i monaci si servono di una corda con nodi o grani, simile ad una corona del rosario, detta komboschini (cioè corda a nodi), che i sacerdoti monaci e i vescovi portano attorcigliata sul polso sinistro anche durante le sacre funzioni.

            Concludendo, la giornata del monaco all’Athos comporta otto ore di preghiera, otto ore di riposo e otto ore di lavoro, il tutto suddiviso e alternato nel corso della notte e del giorno. Tutto ciò è quello che appare all’esterno. Il perfezionamento interiore, la progressiva capacità di accogliere il dono di Dio, l’esperienza anche straordinaria di tale dono, rimangono il segreto che ogni monaco tiene racchiuso nel cuore.

 

Il Monte Athos e il monachesimo russo

A diverse riprese uomini e istituzioni del Monte Athos influirono sullo sviluppo del monachesimo nei paesi slavi e particolarmente in Russia. Com’è noto, il popolo russo ricevette il cristianesimo da Costantinopoli quando, nel 988, il principe san Vladimiro e sant’Olga, sua nonna, furono battezzati con i loro sudditi e fu istituita la sede metropolitana di Kiev. Meno di un secolo dopo, verso il 1073, moriva il padre del monachesimo russo, sant’Antonio, fondatore della Lavra delle Grotte (Pecerskaja Lavra) presso Kiev. Egli si era formato all’Athos. Tuttavia la sua personale esperienza orientava la vita monastica in un senso più profondamente penitenziale, con un accento posto sulla peccabilità umana, che rimarrà caratteristico della spiritualità russa. All’Athos si era formato anche san Nilo Sorskij (1433-1508), profondo ed equilibrato esponente della spiritualità esicasta che, tornato in Russia, si oppose con l’esempio e con gli scritti al principio della proprietà terriera dei monasteri. Questo ideale di povertà non fu allora accolto dalle organizzazioni monastiche, ma rivisse più tardi, connaturale col radicalismo dello spirito russo.

 Nel 1515 un dotto monaco di Vatopédi, Massimo il Greco (al secolo Michele Trivolis, 1470-1556 circa), fu chiamato dal gran duca di Mosca, Basilio III; per tradurre le opere ecclesiastiche dal greco in slavo. Massimo aveva studiato in Italia, era stato amico di Aldo Manuzio e discepolo del Savonarola. La sua cultura e la sua spiritualità, favorevole alle idee riformatrici di san Nilo Sorskij, urtarono contro la mentalità dominante nei centri di potere; così, dopo quindici anni di lavoro intenso, Massimo fu condannato come sospetto di eresia e incarcerato per ventidue anni in un monastero di Tver. Dopo la morte fu annoverato tra i santi della Chiesa russa.

Un altro erudito greco, monaco a Dionysìu e poi in un kellion della Grande Lavra, Nicodemo Aghiorita m. 1809, influì indirettamente sullo sviluppo successivo del monachesimo russo mediante una voluminosa opera di compilazione chiamata Filocalìa (amore per la bellezza), un’antologia di scritti di ascetica e mistica, dai più antichi monaci egiziani ai padri greci e ai teologi esponenti dell’esicasmo, fino a Palamas e a Nilo Cabasila. Stampata a Venezia nel 1782, essa divenne quasi la Bibbia della preghiera esicasta specialmente in Russia. Infatti, attorno allo stesso tempo, un monaco ucraino, Paisi Velickovski (1722-1794), dopo essere stato nel monastero Pantokràtoros e aver fondato la skiti di Sant’Elia, si stabilì con i discepoli in un monastero della Bucovina ed ebbe la felice idea di tradurre in slavo la Filocalia (Dobrotoliubie), che fu pubblicata nel 1793. La diffusione di quest’opera influì potentemente sulla rinascita monastica in Russia, con la valorizzazione della direzione spirituale da parte degli starcy (monaci anziani). Si rese famoso in quest’opera di guida verso la perfezione il monastero di Optina, a cui nel secolo scorso ricorrevano anche gli intellettuali russi tornati alla fede ortodossa. Tale era la figura dello starec Zosima (il suo vero nome era Amvrosi, Ambrogio), immortalata da Dostoevskij nel romanzo I Fratelli Karamazov. Si può vedere in azione la spiritualità della Filocalia nel libro, assai noto e incantevole per la sua semplicità, Racconti di un pellegrino russo.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Oros/preghiera.htm

 

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