A PROPOSITO DELLA VITA SPIRITUALE

 

Arch. Amfilohije Radovic

 

 

Una delle caratteristiche fondamentali della primitiva comunità cristiana era il sentimento escatologico. Lo stretto rapporto con il Cristo suscitava e sviluppava nei suoi membri il desiderio del suo ritorno ed il sentimento che esso fosse imminente. Da questo stato d’animo traeva origine un’altra convinzione, quella cioè che essi sulla terra fossero pellegrini e che non avessero qui una propria città, ma che fossero in attesa di quella che sarebbe venuta. Questa disposizione d’animo è stata espressa nel modo più appropriato dall’Apostolo Paolo: “Perché noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve ancora venire”[1]. Questo sentimento caratterizza l’età apostolica e quella post-apostolica come pure tutto il periodo dei martiri della Chiesa primitiva. A cominciare dal IV secolo si verifica, per così dire, una crisi in questo volgersi continuo dei Cristiani alla Gerusalemme celeste, crisi provocata dall’alleanza tra Chiesa e Stato e dalla conversione in massa dei pagani. Proprio questa crisi è una delle cause principali del sorgere del monachesimo nel deserto. Il monachesimo non si propose come fine la ricerca di una nuova via per la salvezza, ma bensì la conservazione dell’ethos originario della comunità cristiana. I monaci del deserto intendevano confermare che quello dei martiri è l’unico reale ethos della Chiesa e del suo rapporto nei confronti del mondo e della città terrena. Altro il monachesimo non voleva essere. La consapevolezza che la Chiesa avesse cominciato ad adattarsi alla città terrena stimolava molte anime a fondare un’anti-città nel deserto in segno di protesta nei riguardi della città terrena e come luogo di preparazione all’imminente ritorno del Cristo ed all’entrata nella sua città celeste.

Come è noto, il monachesimo si diffuse rapidamente in tutte le regioni del mondo cristiano  ed ha improntato fortemente di sé tutta la cultura cristiana, in particolare quella spirituale. I centri monastici quali l’Egitto, il Sinai, la Palestina e l’Athos – per limitarci solo ad alcuni di essi – hanno prodotto nel corso dei secoli una straordinaria e ricca letteratura spirituale. La sua caratteristica principale consiste nel fatto che essa si fonda principalmente sull’esperienza. Essa non vuole parlare del Cristo, ma vivere nel Cristo e vorrebbe “aver l’odore” del Cristo. Per essa la Verità dell’Evangelo non è oggetto di un’indagine razionale, ma un ritmo interiore di vita ed il criterio di ogni pensiero e di ogni azione. Noi oggi diremmo che questo genere di letteratura ha un carattere esistenziale. Per essa Dio è Dio eterno ed amico dell’uomo; per essa la virtù è un’energia divina che si raggiunge con la penitenza e con una lotta eroica; per essa le passioni sono un corpo reale, peccaminoso, che si deve “far morire” in modo reale e spirituale, affinché il corpo umano possa divenire ciò per cui è stato creato: un tempio del Santo Spirito; per essa la potenza demoniaca è un essere reale che con le sue energie, le passioni, tenta di alterare l’immagine di Dio nell’uomo e di trasformare il corpo creato da Dio nel suo “corpo”, cioè di trasformare la Chiesa in una comunità demoniaca, in un’anti-Chiesa.

Caratteristico esempio di quest’antica letteratura del deserto è il libro che s’intitola “Libro dei Padri” (Gerontikòn) o “Apophtegmata (sentenze) dei Santi Padri”. Già dal IV secolo i monaci cominciarono a raccogliere “le parole e le opere” dei più celebri Padri del deserto e ad attribuire loro una particolare importanza. Queste sentenze costituirono nel corso dei secoli la letteratura preferita dei monaci, come lo testimoniano innumerevoli raccolte e manoscritti degli “Apophtegmata Patrum”, che sono tramandati sia in Oriente che in Occidente. Tra queste la raccolta preferita e maggiormente diffusa era quella alfabetica, che è così chiamata poiché i nomi dei Padri sono disposti secondo l’ordine dell’alfabeto greco. Molto verosimilmente essa ha assunto l’attuale forma nel V sec.

Ma non è la storia della tradizione di questa raccolta quello che ci interessa, bensì il suo contenuto. In realtà noi potremmo sulla scorta degli “Apophtegmata” e del loro spirito scoprire lo spirito ed il significato del monachesimo e, particolarmente di quello dell’Oriente ortodosso, ed il rapporto tra il carisma monastico nella vita della Chiesa e tutta la sua vita spirituale. Qui sottolineiamo in primo luogo il rapporto tra gli “Apophtegmata” ed il monachesimo ortodosso, poiché quest’ultimo nel suo atteggiamento e nel suo spirito fino ad oggi è rimasto fedele a quello che incontriamo nelle sentenze dei Padri. Ciò che si può dire del monachesimo ortodosso, non si può ripetere di quello occidentale e della sua evoluzione a cominciare dal Medio Evo, specialmente per quanto riguarda il periodo del sorgere degli ordini religiosi nella Chiesa occidentale. Il monachesimo occidentale assume nel corso dei secoli una dimensione missionaria e sociale. In realtà il monachesimo possedeva questa dimensione da sempre, ma con una significativa differenza: questa dimensione non è stata mai il suo fondamento ed il fine della sua esistenza. Essa risultò come frutto naturale della vita monastica nel Cristo.

L’unico scopo del monachesimo in Oriente era e rimane sino ad oggi il servizio nel Cristo. Scrive San Giovanni Crisostomo: “Un vero monaco si preoccupa di una sola cosa: cioè di edificare la sua anima, di adorare questo santo tempio... per mezzo della santità del corpo e dell’anima”. Questo assoluto allineamento con il Cristo, proprio della vita monastica e spirituale, è espresso nel modo migliore nelle seguenti parole di San Basilio: “Invoca incessantemente il nome di Gesù Cristo, di modo che il cuore beva il Signore ed il Signore il cuore e così di due che sono divengano un’unità”. Con il termine cuore s’intende il nucleo della natura umana o l’uomo intero. San Basilio si limita a parafrasare le note parole dell’Apostolo Paolo: “Pregate incessantemente”, che nell’esperienza monastica si trasformano nel ritmo stesso della vita e nel suo unico fine. Che il monachesimo, oltre a questo suo assoluto allineamento sulla verticale, sull’Eschaton, abbia prodotto nella storia le più sane e socievoli comunità e che abbia iniziato e realizzato le più fruttuose missioni, non è dovuto al fatto che esso si sia posto tutto ciò come scopo. E grazie alla sua esistenza ed al suo assoluto allineamento con Dio il monachesimo divenne la “luce del mondo”, secondo le parole dell’Evangelo; “Non può nascondersi una città che sta sul monte”[2]. Questo atteggiamento del monachesimo di fronte al mondo ed all’attività umana in esso si fonda su una profonda fede ed anche su una profonda umiltà. Sulla profonda fede e fiducia che Dio ha cura delle sue creature e regge l’universo con la sua Provvidenza, su una profonda umiltà, che sorge dall’autocoscienza del monaco di non essere chiamato alla predicazione, ma alla penitenza, cioè dalla consapevolezza di non essere degno dell’ufficio apostolico. Ma proprio la sua penitenza intesa come modo di vita e la prudenza con cui egli procede nel sostituire la sua volontà impura e non illuminata ed a rinunciare ad essa in quanto tale è la volontà di Dio, lo rende testimone del modo di vita dell’Evangelo e predicatore della volontà di Dio. Come Dio opera nel mondo e tra gli uomini misteriosamente e senza fare violenza, così procede anche il monaco, il quale si rende simile a Dio in tutto il suo essere. Egli distrugge con la sua penitenza e la sua vita ascetica (podvig) tutti gli idoli e tutti i muri tra sé e Dio, poiché egli lascia a Dio di operare, secondo il suo piano divino, sul mondo e sugli uomini. Un vero monaco è completamente pieno di Dio e della sua Luce, per cui è un vero testimone di Dio sulla terra e la sua rappresentazione.

Secondo l’esperienza dei Padri del deserto fondamento di una vera vita spirituale è in primo luogo la retta fede[3]. A loro giudizio la fede non è una delle virtù, ma è, se cosi possiamo esprimerci,  la più alta di tutte le virtù. È una condotta di vita, un atteggiamento interiore ed il fondamento di tutta la vita umana. Su di essa è costruito l’uomo interiore, l’unico stabile fondamento nella vita dell’uomo, che è condizionato esistenzialmente dalla mutabilità, dalla caducità e dalla corporeità. In quanto tale, la fede è un dono celeste, mentre la sua mancanza o una fede non retta possono essere solo convincimenti umani, non un dono del Cielo. La retta fede è tale in quanto è vivente, opera con l’amore e da essa nascono tutte le virtù. È il dono del Cristo alla nostra anima ed alla nostra vita. L’operare è la sua essenziale qualità (...) per cui la fede senza le opere deve essere respinta, così come le opere senza la fede[4].

La fede è unita organicamente con la penitenza (metanoia[5]). In realtà la penitenza è proprio della natura della fede, con essa comincia la predicazione del Battista ed anche quella del Cristo. La penitenza è la preparazione all’entrata nel Regno dei Cieli, che s’è avvicinato a noi cioè all’apertura del Regno dei Cieli che è nell’uomo stesso. Il sacramento del Battesimo è in realtà un sacramento della penitenza e questa consiste nel deporre l’uomo vecchio e nell’indossare il nuovo, cioè l’uomo simile al Cristo. Essa esige il rifiuto della scienza falsa e della vita falsa. Perciò non è casuale che i Padri del deserto attribuiscano tanta importanza alla penitenza per la vita spirituale. Se senza la penitenza non c’è il Cristiano, tanto meno ci può essere un monaco, il quale è tale in quanto ha scelto la penitenza come genere di vita. Quanto più profonda e duratura è la penitenza, tanto più vicino è il monaco a sé stesso ed alla realizzazione del suo scopo. È proprio di essa che il monaco si occupa sino alla fine della sua vita.

In che cosa consiste la penitenza? A questa domanda risponde Abba Pimen: “La penitenza per un peccato significa cessare di commettere questo peccato. I giusti sono perciò chiamati puri, poiché essi hanno cessato di peccare ed in tal modo sono divenuti giusti”[6]. I Padri del deserto non misurano la penitenza con la lunghezza nel tempo, ma con l’intensità dello scuotimento interiore a causa del peccato commesso. Perciò Abba Sisoe il Grande così risponde alla domanda: Quanto bisogna pentirsi per un peccato? “Se l’uomo con tutta la sua anima si pente per un peccato, bastano solo tre giorni perché Dio l’accolga nella sua comunità”[7]. Anche in un istante si può giungere ad un mutamento radicale di tutta la vita umana ed a far cancellare da Dio tutti i peccati precedenti. Nel racconti di Abba Paolo il Semplice ne troviamo un esempio. Un monaco, il quale era caduto in un grave peccato, udì durante l’ufficio divino le parole del profeta sulla purificazione e sulla promessa di Dio di rendere bianca come la neve un’anima che si pente: “Lavatevi, purificatevi! Allontanate dai miei occhi le vostre opere malvagie! Cessate di fare del male!... Poi venite, dice il Signore, noi vogliamo far valere tra noi i nostri diritti. Siano pure i vostri peccati color scarlatto, essi debbono diventare bianchi come la neve”[8]. Il monaco allora si rivolse a Dio con tutta l’anima, confessò il suo peccato e promise che non avrebbe mai peccato. Ed in quel momento Dio fece diventare bianchi la sua anima ed il suo corpo, li purificò da ogni colpa ed il suo volto cominciò a risplendere. Abba Paolo il Semplice fu reso degno di vedere questo improvviso mutamento mentre piangendo pregava per questo monaco che il Signore lo purificasse dalla sporcizia dei peccati[9].

L’esempio di Paolo il Semplice e della sua ardente preghiera per il suo confratello dimostra, assieme a molti altri casi che troviamo nel “Paterikòn”, che la penitenza non è solo il risultato di una fatica individuale, ma che si fonda anche sull’aiuto altrui. Spesso i Padri del deserto sacrificano sé   stessi e mettono in pericolo la loro salvezza per aiutare altri nella penitenza. Assai commovente è l’esempio di Abba Serapione, che si chiuse assieme ad una donna di malaffare in una camera e riuscì a condurre costei grazie alla sua preghiera sulla via della salvezza[10]. Il profondo amore ed il saggio comportamento di Abba Timoteo, come pure il suo ammaestramento, esercitarono una tale influenza su un’altra peccatrice, che costei, senza pensarci a lungo, entrò nella vita monastica e trascorse il resto della vita in modo gradito a Dio[11].

Nella penitenza, quale incontriamo nei Padri del deserto, non c’è alcun elemento giuridico; essa è in realtà il bisogno di Dio e della sua purezza che parte dall’anima che è diventata consapevole della propria impurità ed imperfezione. La penitenza è piena di speranza nell’immensa misericordia dell’amore di Dio, ma anche di un profondo sentimento che alle volte si trasforma in un pianto sconsolato, della propria indegnità di questo amore. I Padri del deserto non hanno tanta paura del castigo di Dio, ma piuttosto si rattristano perché a causa della loro imperfezione e dei loro peccati non hanno apprezzato debitamente l’infinito amore di Dio. Perciò si sforzano sino alla morte di corrispondere con il loro amore a quello di Dio. Così Abba Sisoe chiede agli angeli, che sono venuti a prendere la sua anima, di lasciargli ancora un po’ di tempo per pentirsi. E quando i confratelli gli chiesero quale opera di penitenza potesse compiere nelle condizioni in cui si trovava, egli rispose: “Anche se io non posso far nulla, posso tuttavia mandare un sospiro per la mia anima e questo mi basterà”[12].

Solamente là dove c’è un’autentica penitenza si sviluppa la vera umiltà. E dove c’è l’umiltà, si aprono i misteri della fede. Giacché secondo i Padri del deserto, la vera fede, che purifica dai peccati, significa un mutamento vitale nello spirito dell’umiltà e dell’amore. Come l’umiltà che sorge dalla penitenza è la caratteristica della retta fede, così la superbia è propria di ogni credo falso e di ogni scienza falsa. Scrive San Giovanni Climaco: “È impossibile che dalla neve si levi una fiamma; ma è ancora più difficile trovare lo spirito dell’umiltà in coloro che hanno una fede falsa ed alterata”[13].

La vita spirituale, per i Padri del deserto, è inconcepibile senza la rinuncia al mondo. Quest’ultima, come risulta dal “Paterikòn” alfabetico ed in genere dalla letteratura monastica, ha esteriormente una forma monastica, ma tuttavia si fonda sul principio neotestamentario che il Cristiano non possiede alcuna stabile città nel mondo[14]. Questo convincimento si fonda sulla natura della filosofia della vita cristiana ed esprime un mutamento radicale dei rapporti nei confronti del mondo e di sé stesso, come pure un mutamento del modo di vita. Dietro questa rinuncia si nasconde l’aspirazione ad una libertà che solo il Santo Spirito può concedere. Finché l’uomo rimane legato a qualcosa oppure anche a se stesso, anziché a Dio, egli non è in grado di vivere in completa obbedienza di fronte alla volontà di Dio[15]. La rinuncia a tutto è la virtù dell’Apostolo. Solo allorché gli Apostoli rinunciarono a tutto, seguirono il Signore senza preoccupazioni. Nella rinuncia l’uomo e perde ciò che è transeunte e conquista l’eterno. La rinuncia a sé stessi ed al mondo comporta la riduzione dei propri bisogni ad un livello minimo. Comporta la rinuncia a sé stessi ed al mondo, il rifiuto ed il disprezzo del mondo in quanto creazione di Dio? Affatto! Si tratta invece della liberazione da un rapporto passionale nei confronti del mondo e di se stessi, e di scoprire il significato che Dio ha dato al mondo ed il suo vero posto nei rapporti tra Dio e l’uomo.

Questo atteggiamento dei Padri del deserto concernente la rinuncia a sé stessi ed al mondo è diametralmente opposto alla moderna civiltà dei consumi, cioè alla civiltà dell’oggettivazione dell’uomo, della trasformazione dell’uomo in una cosa. Una delle principali caratteristiche della civiltà moderna è lo sviluppo nell’uomo di un insaziabile desiderio di cose e di possedere. A giudizio dei Padri del deserto la fame di acquistare e possedere molte cose provoca nell’uomo molti affanni e questa moltitudine di cose soffoca nell’uomo l’amore verso Dio, anzi lo allontanano dall’anima, poiché occupa il vuoto da Dio lasciato con cose morte e con il desiderio di esse. Invece colui che “rinuncia al mondo” non si proporrà mai una qualsiasi cosa, ad esempio il denaro, o una passione o ciò che è transeunte, come fini e come contenuto della propria vita. Perciò lo sviluppo di un rapporto distaccato nei confronti di tutto ciò che c’è nel mondo è un’esigenza della vita spirituale ed una premessa per lo sviluppo spirituale dell’uomo. Ciò che a giudizio dei Padri del deserto caratterizza il vero monaco ed il vero Cristiano è proprio questa indifferenza e la libertà conseguita per mezzo di essa. Da ciò deriva la loro continua richiesta: non essere legato a nulla che sia transeunte, sentirsi dappertutto un estraneo, fare a meno di molte parole, comportarsi con indifferenza di fronte a tutti ed a tutto. Accanto a ciò è necessario avere davanti agli occhi le proprie colpe e sostituire con la preoccupazione di vivere nel modo più gradito a Dio ogni altro affanno e bisogno. Per i Padri del deserto non basta che si rinunci solo esteriormente al mondo ed alle cose. Questo è solo il principio, il primo passo verso la vera rinuncia. Più pesante e più difficile a realizzarsi è la liberazione dal legame interiore a qualsiasi cosa che non provenga da Dio e non sia a lui conforme. Questa liberazione esige una lunga lotta contro le passioni, cioè contro un atteggiamento passionale nei confronti del mondo e di se stessi. Tale lotta con le passioni ed i suoi metodi costituisce uno dei capitoli più profondi della filosofia della vita dei Padri del deserto e la sua descrizione nel “Paterikòn” e negli altri testi analoghi rappresenta una delle pagine più significative della filosofia e dell’antropologia cristiana. La psicanalisi moderna intravede solo tutte queste profondità e questi stati d’animo, sani e malati, che questi antichi “psicanalisti” del deserto avevano visto e sperimentato da soli con l’aiuto della Grazia.

È evidente che la vita spirituale è una lotta ininterrotta contro l’egoismo e le passioni, una lotta in cui tutto è subordinato all’amore per Dio e per il prossimo, rispettivamente alla salvezza dell’anima. Per i Padri del deserto il nostro rapporto verso il mondo e verso tutto ciò che c’è nel mondo, affinché sia un rapporto corretto, deve passare attraverso la croce dell’amore che si sacrifica secondo le parole dell’Apostolo: “Io voglio vantarmi soltanto di questo: della croce del nostro Signore Gesù Cristo perché egli è morto in croce, il mondo è morto per me ed io sono morto per il mondo”[16].

L’obbedienza. Questa rinuncia e la crocifissione del mondo in noi stessi può essere realizzata grazie ad una profonda obbedienza e fedeltà al Cristo ed a quelli che a lui sono divenuti simili. L’obbedienza non è, secondo i Padri del deserto, una semplice virtù umana; essa appare nel rapporto del Cristo verso Dio Padre come la virtù divino-umana. Il Cristo è obbediente al Padre sino alla morte sulla croce. Questa sua obbedienza, come testimonianza e conferma del suo amore per il Padre celeste rimane il criterio del rapporto umano e del modo di vivere nella Chiesa. E come il Figlio Unigenito è obbediente al suo Padre celeste così anche il cristiano, rispettivamente il monaco, deve essere obbediente al Padre celeste ed al Figlio suo, come pure al suo padre spirituale, il quale, grazie alla sua santità, ha ricevuto il dono della paternità celeste. Per mezzo di questa obbedienza il discepolo diventa partecipe dell’adozione nel Cristo, si trasforma in figlio del Padre celeste. L’obbedienza nei confronti del padre spirituale deve essere assoluta, ma ad una condizione, cioè che il padre spirituale stesso abbia già adempiuto tutto ciò che esige dal suo discepolo. In primo luogo un padre spirituale non esigerà mai dal figlio suo spirituale più di ciò che egli ha raggiunto. Inoltre egli esige da se stesso sempre più di quello che richiede agli altri. Questa è la regola fondamentale dei Padri del deserto: essi non si aspettano mai dagli altri ciò che essi non hanno adempiuto o sperimentato. Di ciò testimonia Abba Pistos, il quale si rivolse per essere istruito e consigliato ad Abba Or. Questi gli rispose: “Va e fa quello che tu vedi”[17].

 

 

da “Orthodoxe Rundschau”, n. 47 pp. 25-33;

trad. di A. S.

In “Messaggero Ortodosso”, Roma, febbraio-marzo 1983, Anno VII n° 2-3, 1-11


 

[1] Ebrei 13,14.

[2] Matteo 5,14.

[3] Retta fede è la traduzione del termine ortodossia (ndr).

[4] Diadoco di Foticea, “Capitolo sull’ascesi”, in “Filocalia”  I, p. 240, n. 20.

[5] Metanoia (lett. cambiamento di mentalità), in greco ha il duplice significato di conversione e di penitenza, i due significati sono fusi in quest’unico termine, si compenetrano e si riversano l’uno nell’altro, anche se per comodità il traduttore ha qui preferito adoperare il solo termine penitenza, occorre quindi contestualizzarlo nella sua pienezza semantica che comprende entrambi i sensi allo stesso tempo (ndr).

[6] Abba Pimen, 120.

[7] Abba Sisoe, 20.

[8] Giosuè 1,16-18.

[9] Cfr. Abba Paolo il Semplice, 1.

[10] Cfr. Serapione, 1.

[11] Cfr. Abba Timoteo, 1.

[12] Abba Sisoe, 49.

[13] Scala Par. cap. 25,31.

[14] cfr. Ebrei 13,14; Abba Arsenio 1,2.

[15] Cfr. Luca 14, 33.

[16] Galati 6, 14.

[17] Abba Pistos, 1.

 

 

 

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