La coerenza e l’incoerenza cristiana

 

Secondo i Padri della Chiesa, la biblica disobbedienza adamitica ha determinato la creazione del tempo e, con esso, le difficoltà e le sofferenze alle quali soggiace quotidianamente l’uomo. La realtà umana è così divenuta un composto di luci e di ombre, di gioie e di sofferenze, di grazia e di peccato. I santi della Chiesa, fintanto che vivevano, non hanno mai smesso di dichiararsi peccatori perché, pur non praticando il peccato, ne sentivano lo stimolo. Quest’insieme di cose dovrebbe porre all’idealista il cuore in pace: è inutile pensare di poter avere o raggiungere uno stato privo di tensioni o di prove. La vita stessa si prospetta come una successione di momenti diversi tra loro, come un’alternanza tra vari stati d’animo. La perennità d’un medesimo stato si tradurrebbe in entropia. L’entropia, poi, non è altro che la mancanza di vita.

A questa legge generale soggiacciono tutte le realtà che appartengono al secolo. Vi soggiace pure la Chiesa al punto che è impossibile trovare un’epoca nella quale non si rinvengano difficoltà e tensioni. Possiamo approssimativamente porre le “difficoltà” della Chiesa su due piani: il piano istituzionale e il piano personale nella prassi cristiana del fedele. L’Ortodossia è profondamente convinta che i due piani sono interdipendenti. L’istituzione ha il suo unico senso nel servire il singolo affinché quest’ultimo entri in comunione meglio con Cristo e lo scopra nella propria vita. È vero che essere cristiani (nel miglior senso del termine) è prodotto unicamente da Dio. Ma è altrettanto vero che se l’uomo non viene educato ad accogliere convenientemente la presenza di Dio e a saperla riconoscere, sarà sempre un cristiano di nome e non di fatto. A tal proposito, nella Scrittura si legge che “Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili” (Cfr. I Pt, 5,5). Tutto ciò rimane lettera morta se ogni cristiano non viene accompagnato e aiutato a divenire umile da una Chiesa umile nella quale, grazie all’umiltà, si capisce cos’è la Grazia di Dio.

Quando manca l’umiltà l’istituzione si gonfia e il singolo può inevitabilmente emularla. L’organismo spirituale (parte misteriosa ma reale dell’uomo) non riesce più a maturare ed è perso il rapporto fresco e vivo con il Dio vivente. Perso questo, non si capisce più il concetto di sacro e di peccato. Così lo stile dell’istituzione si rinfrange sul singolo e quello del singolo ritorna e rinforza quello dell’istituzione.

Questi fenomeni sono conosciuti universalmente e non esiste ambito dove non possano verificarsi. Nei casi migliori i problemi che nascono da questo rapporto esistono almeno potenzialmente. Per evitare tali fenomeni o smorzarli il più possibile, l’Ortodossia parla continuamente di ascesi: l’ortoprassi fa l’ortodossia e l’ortodossia fa l’ortoprassi.

Quando non si pone attenzione al fatto ascetico e lo si relega nella “riserva indiana” delle “spiritualità” si hanno altri effetti. Vediamo, allora, vescovi e patriarchi agitarsi per mostrare e dimostrare il loro “potere”. Questo potere si maschera evangelicamente ma, in realtà, ha tutte le logiche di questo mondo. Davanti a situazioni analoghe sono nate nella Chiesa, già nei primi secoli, delle reazioni. Una tra le prime è stata, senza dubbio, la nascita del monachesimo.

Davanti alla Chiesa adattata e accomodata nella compagine imperiale, la principale reazione del monaco non è stata quella di sconfessare i propri vescovi o di creare gerarchie parallele ma di vivere evangelicamente e di seppellirsi davanti a questo mondo. Tutto ciò non era altro che applicare la parabola evangelica del seme caduto nel buon terreno il quale “dorma o vegli, di notte o di giorno, germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,27). Il cristianesimo ha veramente delle logiche capovolte, rispetto a quelle mondane! È così che la “rivolta” monastica ha stabilito nella Chiesa una perenne fertilità evangelica e ha obbligato la gerarchia stessa a non trasformarsi da servitore a padrone (1). Se, alle volte, il monachesimo è divenuto critico verso vescovi e patriarchi è perché questi ultimi hanno tentato di fare entrare nella Chiesa un modo di pensare e di vivere che svuotava il Cristianesimo lasciando apparentemente le forme esteriori intatte. Ma la critica monastica era tutt’altro che intenzionata a spaccare la Cristianità.

Da quanto detto possiamo dunque dedurre almeno due tipi di “incoerenze”:

1) un’incoerenza semplicemente “morale”: “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7,19).

2) un’incoerenza ecclesiale dogmatica che si rinfrange, poi, nell’impossibilità del singolo d’incontrare Dio. È il caso in cui, pur confessando a parole che la Chiesa è retta da Dio, si finisce per creare istituzioni solamente umane nelle quali ascesi e preghiera cadono all’ultimo posto quand’anche non nell’oblio.

Il cristiano praticante deve combattere sempre l’incoerenza “morale” in se stesso. Questo è il suo principale e irrinunciabile compito. Naturalmente la moralità non è un fine della vita cristiana ma solo un mezzo. La Chiesa, infatti, non ha la funzione di moralizzare ma di testimoniare una realtà oltre la fine e la morte di questo mondo! Così il cristiano non deve accusare ed addittare il fratello o il resto dell’umanità. Deve correggere e lavorare solo su se stesso, dal momento che la Redenzione è un fatto esclusivamente personale.

L’incoerenza ecclesiale d’un vescovo, d’un patriarca o d’una Chiesa intera e la loro eventuale eterodossia, si situano su un piano diverso. Non possono essere condannate ipso facto dai singoli. Nella Chiesa ortodossa esiste la possibilità di parlare e di discutere su questi temi con una libertà che non è data altrove. Ma altro è parlare e chiedere ai propri vescovi e patriarchi le ragioni di certi comportamenti, altro è condannarli. Soprattutto davanti ai casi più difficili è necessario avere molta pazienza e prudenza. Le difficoltà nelle quali si trova la Chiesa ortodossa oggi non sono minori rispetto a quelle passate. Davanti ad esse si possono trovare diversi atteggiamenti che possono essere ricondotti, grosso modo, a tre:

a) Indifferenza: non ci si lascia toccare da nulla.

b) Ribellione: si cerca di creare realtà “pure” non contaminate dalle mode secolaristiche e dalle sue tentazioni.

c) Accettazione iuxta modum: si accolgono solo alcune nuove proposte per non privarsi dell’appoggio di persone e ambienti diversi senza, però, inimicarsi la massa dei credenti.

Questi tre atteggiamenti sono riscontrabili davanti al cosiddetto movimento ecumenico, ma non solo. Qualche tempo fa, all’interno della diocesi di Larissa, in Grecia, s’era creata una forte opposizione al nuovo vescovo. I fatti furono abbastanza dolorosi. Alcuni volevano opporsi senza mezze misure al nuovo pastore e brandivano una violenta contestazione. Interpellato su questi avvenimenti, p. Paisios, un santo monaco del Monte Athos, rispose: “Pensate alla vostra Larissa interiore”, ossia, pensate alla vostra ascesi personale.

Certamente il richiamo di questo santo uomo non era volto al disimpegno o all’apatia ma a indicare l’unica vera soluzione ai problemi ecclesiali. Si deve infatti constatare che, molto spesso, i singoli che accusano la Chiesa non lo fanno sempre per disinteresse e, ancor meno, perché hanno una vita santa... Invece i santi, oltre ad essere la vera e unica immagine della Chiesa, risolvono ogni tipo di problema. La soluzione è tutt’altro che indolore e basta leggere qualche agiografia per rendersene conto ma è l’unica cristianamente accettabile, l’unica duratura, l’unica autenticamente “coerente”.

Le difficoltà caratterizzano la peregrinazione temporale della Chiesa. Fortunatamente la coscienza ecclesiale ortodossa ha potuto conservare una chiarezza che, purtroppo, l’Occidente ha oggi perso. Si può incontestabilmente concludere che lo stile con il quale i cristiani pensano di risolvere i problemi della loro Chiesa per cercare di essere coerenti, indica il modo e il livello con il quale praticano il Vangelo al quale dicono di credere.

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/coerenza.htm

 

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