Giuseppe La Torre 

 

La spiritualità oggi: dov’è?

 

Un’eloquente testimonianza personale sulla ricerca di Dio e sull’incontro con il mondo cristiano-orientale da parte di un cristiano non ortodosso. Tale testo si rinviene in “Riforma” n. 1 del 14/1/2005, p. 3.

 

 

Il monachesimo cristiano è espressione della spiritualità cristiana, e il monachesimo odierno non è altro che un ramo tardivo di quell’albero secolare piantato un tempo dai padri in Egitto nel III secolo il cui seme risale all’era apostolica, a coloro che (come Paolo vive e consiglia in I Cor 7, 32-34) “si facevano eunuchi in vista del regno dei cieli” (Mt 19, 12).

Il Nuovo Testamento ci testimonia come già nell’era apostolica convivevano nel cristianesimo una corrente di itineranti celibi dediti alla preghiera e alla predicazione e, all’interno della comunità locale, donne e uomini dediti a un impegno spirituale più radicale. Il contesto era quello di vivere gli ultimi tempi e quindi dare poca considerazione ai beni di questo mondo, perché stava per finire. Senza l’attesa del ritorno del Signore non c’è ricerca appassionata, perché manca la motivazione che rende ogni cosa terrena provvisoria e la stessa vita come un viaggio verso casa. Immaginiamo un detenuto a cui inaspettatamente è annunciata la scarcerazione per il giorno dopo: ebbene, la sua libertà non comincerà “domani”. Vivrà e sopporterà il carcere ancora “qualche ora” perché oramai tutto è provvisorio: il cibo scadente, lo spazio asfissiante, la compagnia pesante, le restrizioni insopportabili. Ciò che riempie la sua vita è molto più grande di ciò che la svuota. Fu la tensione escatologica, il desiderio per il Signore, che diede forza ai martiri e a coloro che, all’interno della comunità, vollero vivere in modo più intenso la realtà di questo annuncio inaspettato: sei libero!

Non desidero parlare comunque del monachesimo ma di quella spiritualità profonda e calda che fa parte del cammino della chiesa. Di quella ricerca appassionata di Dio che non sappiamo più comunicare perché non la viviamo (costringendo gli assetati a dissetarsi altrove, fuori non solo dalle nostre chiese, ma dalla chiesa stessa). Non ho dubbi che la riflessione che mi accingo a proporvi si collochi all’interno della mia esperienza personale. Da giovane infatti ero un seminarista cattolico (volevo diventare prete) e ho vissuto un periodo molto intenso di vita comunitaria che mi ha disciplinato alla preghiera, al silenzio, alle regole di vita comunitaria e “all’esercizio dello spirito”.

Divenuto protestante ho gettato “l’acqua sporca con tutto il bambino”, come dice il vecchio detto. Nella foga di ricerca della mia nuova identità cristiana, la critica ha prevalso su tutto. Fu come una frana, lenta e inesorabile, che in pochi mesi aveva coperto il villaggio che sorgeva sulla mia fanciullezza e la mia adolescenza, sulle tradizioni dei miei padri e la religiosità di mia madre. Straziato nell’anima, ma risoluto nel mio cammino di fede che mi aveva portato a lasciare la Chiesa cattolica, mi sentivo come chi, davanti al proprio padre, si spogliava de vecchi abiti, per proseguire nudo e infreddolito lungo la sua nuova scelta di vita e di fede.

Coperto solo del mio entusiasmo di neofita e della mia amarezza repressa, nudo del mio passato e del mio futuro, mi avviai per sentieri inesplorati di una predicazione per me illuminante e liberante. Non mi sono mai voltato a guardare indietro. Sentivo imperiosa in me la chiamata a percorrere nuove vie, ad attraversare nuovi ponti. La Chiesa pentecostale prima, che mi accolse come appassionata amante, e la Chiesa valdese poi, che mi curò come una tenera madre, mi avviarono alla decisione di studiare teologia e rinnovare la mia vocazione al servizio dei fratelli nel ministero della Parola. Il mio lungo cammino tra gli ardui pendii della teologia e i faticosi sentieri della razionalità mi nutrivano, ma non abbastanza da saziarmi... Che cosa mi mancava? Non riuscivo a saperlo ma ora lo so...

Ora ripenso alla mia storia personale e a ciò che ho dovuto un tempo lasciare. Ora frugo nella ricchezza del mio passato come “uno scriba ammaestrato per il Regno dei cieli che trae fuori dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove” (Mt 13, 52). Ripensando alle mie fughe notturne del seminario verso la cappella, avviluppato per ore in preghiera nel mio lungo e pesante mantello nero dietro l’altare, per non essere scoperto, ho ripescato l’amore per la preghiera solitaria e personale, la disciplina spirituale, la fuga verso Qualcosa o Qualcuno che mi traeva fuori da qualcosa o da qualcuno che tentava e tenta di sporcarmi o di spezzare le mie ali.

Questo sguardo a quel tratto di sentiero oscurato dal tempo, ma che riposava quieto dentro la mia anima, mi è stato illuminato nel deserto d’Egitto, al monastero di Sant’Antonio in cui mi ero ritirato per un breve tempo durante un viaggio di studio con altri pastori di diverse comunità svizzere. Il deserto fisico, il deserto vero, il deserto cristiano fu per me un’esperienza indimenticabile. Ripensando a quei giorni, li sento come l’inizio di qualcosa che ancora oggi, a distanza di anni, continua in un crescendo di vita spirituale che non mi è concesso tenere tutta per me. Lì incontrai un anziano monaco dalla lunga barba bianca e dallo sguardo profondo di chi conosce la quiete dell’anima. A lui aprii il mio cuore, raccontando il mio percorso di vita. Computo e attento ascoltava le mie parole e raccoglieva teneramente le mie lacrime.

Erano lacrime che non riuscivo a frenare e delle quali sono imbarazzato a scriverne. Ancora oggi non so perché piangevo, ma esse sgorgavano insieme alle parole come un tutt’uno. Ero andato nel deserto per studiare le radici del monachesimo non per piangere né per parlare di me, né tanto meno per rimettermi in discussione. Quando fu l’anziano monaco a parlare, mi incoraggiò a proseguire il mio cammino di vita e di fede e mi parlò con parole che venivano da un cuore intriso di dolcezza, parole che non provenivano direttamente dalla sua mente e non erano indirizzate alla mia mente, parole che parlavano al cuore (come scrive il profeta: “Ecco, io l’attrarrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”, Os 2, 14). La razionalità, nel deserto, è una delle tante piante che non vi crescono.

Non è stato tardi per me riconsiderare la preghiera e il cammino di santificazione non in antitesi né in alternativa a una fede impegnata e coinvolta nel servizio e nella testimonianza in mezzo alla società, che anzi di questo servizio ne sono il profondo sostegno senza il quale ogni cosa rischia di inaridirsi. Un aneddoto dei Padri del Deserto narra che un tale interrogò abbà Antonio chiedendo: “Che cosa devo fare per piacere a Dio?”. In risposta il vegliardo disse: “Questo ti consiglio di fare: dovunque vai abbi sempre innanzi agli occhi Dio, qualsiasi cosa fai segui sempre la testimonianza delle Sacre Scritture, in qualunque luogo ti trovi... non andartene in fretta. Fa’ queste cose e piacerai a Dio”.

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/LaTorre.htm

 

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