Philip Sherrard

Dalla teologia alla filosofia
nell’Occidente latino

 

Da: The Greek East and the Latin West – A Study in the Christian Tradition,

Oxford Univ. Press 1959, Denise Harvey 1992.

 

Philip Sherrard è stato l’autore di Christianity: lineaments of a Sacred Tradition e di oltre venti libri. I temi trattati riguardano la teologia ortodossa e la sua spiritualità, la crisi ecologica, la poesia e le traduzioni in greco moderno di alcune poesie nonché la storia delle idee. Divenne ortodosso nel 1950 e fu un punto di riferimento per diverse generazioni di giovani che cercavano la pienezza della fede. Morì nel 1995. Di quest’autore, che l’Italia non conosce, pubblichiamo un articolo impegnativo ma illuminante. È una chiarezza della quale il mondo ha sempre più bisogno. L’articolo dimostra come, partendo da presupposti e preoccupazioni unicamente filosofiche, le prevalenti correnti teologiche del mondo occidentale abbiano introdotto l’uomo nella prigionia di astratte questioni e quest’ultime abbiano determintato, di fatto, la credenza di un vero e proprio isolamento tra l’uomo e Dio. È così spiegabile sia il permanente sospetto verso le forme mistiche sia l’estromissione della spiritualità dalla teologia riducendola alla triplice forma di opinione soggettiva, sentimento e impegno sociale.

 

Abbiamo parlato d’una certa regressione nel pensiero cristiano durante l’ultima parte del Medioevo. Tale regressione ha coinvolto la teologia del mondo latino e greco. Abbiamo contemporaneamente notato che, nell’Occidente latino, questa regressione si è delineata molto chiaramente visto che, come abbiamo esposto nei capitoli precedenti, l’aggiunta del Filioque nel Credo cristiano gli è strettamente dipendente e, unito a ciò, corrisponde un cambiamento nell’organizzazione ecclesiastica dell’Occidente latino. Quello che non abbiamo evidenziato è come questa stessa regressione, comunque inevitabile, abbia preparato il terreno alla penetrazione dello spirito secolare in un grado tale da dare origine ad una rivoluzione nel pensiero europeo che ha condotto, in modo molto maggiore di quello immaginato da Pletone, alla formazione d’una nuova mentalità materialista a-religiosa e di una sua corrispondente cultura e società.

Come avvenne questo fatto e come la natura di tale realtà sia sgorgata nella rivoluzione del pensiero europeo che ha dato i natali all’Occidente moderno, diverrà forse più chiaro se richiamiamo nuovamente e brevemente determinati aspetti della tradizione cristiana dai quali si staccò tale rivoluzione. Dal punto di vista cristiano lo scopo della vita umana consiste nell’ “essere perfetti”. Questa perfezione è raggiunta attraverso un processo di “deificazione” nel quale l’uomo supera i poteri dell’ignoranza e dell’oscurità, della vanità e dell’illusione e diviene consapevole di quel principio spirituale presente in se stesso ma oscurato dalla “caduta”. L’uomo stesso viene concepito come un’unità psicofisica; l’anima e il corpo si richiamano reciprocamente, entrambe giungono simultaneamente all’esistenza e divengono mutuamente interdipendenti. Allo stesso tempo, l’uomo non è solo anima e corpo, perché è dotato anche d’una terza facoltà o potere che è l’immagine di Dio, o il principio spirituale in se stesso, il centro “increato” della sua natura creata. Questo centro è posseduto dall’uomo “dall’inizio”, come ogni forma finita, attraverso il semplice fatto d’essere stato creato dal nulla e rimane permanentemente in lui. Può essere oscurato, attraverso i cambiamenti umani nel tempo[1]. L’incarnazione dell’eterno Logos in Cristo non è un’eccezione ma una conferma di cos’è l’uomo[2]. Identica affermazione può essere fatta riguardo alla Risurrezione, perciò è solo nell’effettiva “realizzazione” del proprio increato logos che l’uomo arriva alla sua deificazione e, attraverso esso, alla liberazione (dalla morte e dalla corruzione della sua esistenza temporale) attraverso la quale si compie il suo scopo.

La realizzazione di se stesso, attraverso il proprio increato e inabitante logos, è oltre la portata d’ogni potere naturale dell’anima e del corpo, della ragione e del senso.

È veramente impossibile essere uniti a Dio senza purificare se stessi, in modo da essere fuori o, piuttosto, al di sopra di se, abbandonando tutto ciò che appartiene al mondo sensibile e soprattutto le idee, i ragionamenti e, parimenti, ogni conoscenza appoggiata su un ragionamento, rimanendo interamente sotto l’influenza del senso intellettuale e avendo raggiunto quell’ignoranza che è sopra la conoscenza e (ciò che è lo stesso) al di sopra d’ogni genere di filosofia[3].

Questo “senso intellettuale” (aisthesis noera) non è, perciò, la conseguenza di qualche teoretica ed astratta speculazione; è, al contrario, la conseguenza di un lungo processo di purificazione e di preghiera con il quale Dio si rivela nel cuore. L’intelletto (nous) non è, in questo contesto, l’equivalente della mente o di una facoltà mentale o razionale; è un altro ordine di realtà essendo, propriamente e precisamente, l’immagine spirituale di Dio naturalmente deiforme nell’uomo. L’intelletto non ha la sua sede nella mente ma nel cuore. È il cuore che è intellettuale, o spirituale, centro dell’intera natura psicofisica dell’uomo, quel senso intellettuale a cui si ha appena accennato. Il discernimento spirituale e l’illuminazione passano attraverso esso e possono essere raggiunti solo quando la mente è portata nel cuore perché è solo in questo “tesoro del pensiero”[4] che l’intelletto “purificato e illuminato ed essendosi manifestato entra in possesso della grazia di Dio e la percepisce... non contempla solo la propria immagine ma la chiarezza formata nell’immagine dalla grazia di Dio... che compie l’unione incomprensibile col Supremo, attraverso il quale l’intelletto, sorpassando le capacità umane, vede Dio nello Spirito”. Allora “divenendo lui stesso luce, vede la luce con la luce; se guarda se stesso vede la luce e se guarda l’oggetto della sua visione, trova nuovamente la luce e i mezzi impiegati per questa ricerca sono pure luce. L’unione consiste di questo ma tutto questo è una cosa sola”[5]. Su tale unione, l’uomo non contempla soltanto quello che è fuori e oltre lui; diviene lui stesso colui che contempla, il terreno del proprio increato, il proprio essere nel quale partecipano interamente corpo ed anima e, attraverso il quale, viene deificato “non con un modo di ascendere attraverso la ragione o attraverso il mondo visibile mediante supposizioni analogiche” ma attraverso l’unione “ineffabile con la luce che è sopra e al di là dei sensi” per vedere “Dio stesso come in uno specchio”[6].

Quello che presuppone una tale realizzazione è, naturalmente, il riconoscimento della sua possibilità. Ciò significa ammettere che Dio è immanente quale causa spirituale dell’essere dell’uomo e che l’uomo possiede alcune facoltà superiori alla ragione e altre facoltà naturali e create, attraverso le quali può “conoscere” la propria causa spirituale sperimentandola. Tale esperienza rende insignificante la stessa idea di deificazione. Per questo la deificazione proviene da Dio e dalla diretta intuizione umana della Sua trasfigurante luce. L’uomo conosce in senso assoluto sia la propria causa divina sia le energie che hanno causato tutte le cose. Tuttavia allorquando l’immanenza di Dio nell’uomo o il possesso nell’uomo della facoltà sopra indicata è negata o la realizzazione in questione viene ritenuta impossibile; l’effetto sarà quello di spostare l’attenzione da essa sostituendola con l’idea che lo scopo della vita umana, la natura della conoscenza e la possibilità di possedere Dio e le altre realtà create, siano condizionate e procedano attraverso le relative facoltà naturali a sua disposizione, sia mentali che sensoriali.

La possibilità di questa realizzazione è, se non negata, almeno oscurata dai principali concetti sui quali si muove la teologia latina, particolarmente nella sua forma agostiniana e tomista. Abbiamo visto che in questa teologia ciò che assume un posto centrale è una nozione di Dio essenzialmente identica a quella di Essere assoluto e perfetto. Qui l’essenza di Dio e il Suo Essere sono una stessa e identica cosa[7]. Ciò non significa, si ripete, che Dio non possa essere detto essere infinito; quanto, piuttosto, che la Sua infinità è come totalmente assorbita dalla Sua ontologica natura[8] in modo tale che non può essere ammessa in Lui altra potenzialità[9]. D’altra parte, ciò non significa neppure che i teologi latini tendano ad applicare all’Essere di Dio quei “nomi” (semplicità, indivisibilità, ecc.) che i Padri riservavano alla Sua pre-ontologica natura. Per questo Dio è essenzialmente identico con l’assoluto e perfetto Essere e in Esso non può essere rinvenuta alcuna distinzione al punto che ciò che è distinto in lui è necessariamente qualcos’altro o qualcosa di meno d’un Essere assoluto e perfetto. Ma Dio non può essere meno di se stesso. L’Essere di Dio è, perciò, d’una semplicità e indivisibilità assoluta e ogni qualità o proprietà attribuita a Dio, come quelle che Sant’Agostino qualifica come le ‘principali forme, o le stabili e immutabili essenze delle cose”[10] e che i Padri indicano come i Suoi increati poteri ed energie, devono essere indistinguibilmente identificati con il Suo Essere[11]. Ma se fosse così – ed è qui che ci avviciniamo alla maniera in cui la realizzazione sopra esposta viene oscurata dalle concezioni principali della teologia latina – e se non fosse riconosciuta la distinzione in Dio fatta dai Padri tra la semplicità assoluta, l’indivisibilità dell’Essenza pre-ontologica divina e la molteplicità e divisibilità dei Suoi poteri ed energie ontologiche, quale relazione potrebbe esserci tra Dio e il mondo? Oppure quale conoscenza potrebbe esistere tra l’uomo e Dio, di se stessi, o di altre cose create?

Proprio per cercare di rispondere a domande come queste Sant’Agostino è stato condotto a concepire l’idea di un’anima che, in relazione al corpo, non è solo superiore a questo ma completamente indipendente da esso[12]. L’uomo è un’anima razionale che utilizza un corpo: ‘‘Homo igitur, ut homini apparet, anima rationalis est mortali atque terreno utens corpore”[13]. Ma quest’anima, benché qualificata come razionale, ha una facoltà superiore alla ragione, che Agostino qualche volta denomina intelligenza e qualche altra volta intelletto. È importante sottolineare che qui l’intelligenza o l’intelletto agostiniani non possono essere corrispondenti all’intelletto spirituale, il nous deiforme sopra menzionato. Questo secondo è, come abbiamo visto, centrato nel cuore ed è d’un ordine essenzialmente diverso, superiore all’insieme psicofisico di tutto l’uomo mentre l’intelletto o l’intelligenza agostiniana è una superiore facoltà mentale dell’anima stessa. Secondo Agostino, quest’anima intellettuale scopre e conosce tutte le cose nella loro eterna essenza che è l’immutabile verità con la quale sono in Dio. Ma esattamente qui si viene incontro a determinate difficoltà.

Se le essenze eterne delle cose – le loro creative ma increate energie – sono concepite nel modo agostiniano, ossia riunite nella mente immutabile di Dio e formanti una cosa sola con la Sua non partecipabile e inconoscibile natura, in quale senso l’anima intellettuale può scoprire e conoscere tutte le cose in loro stesse? La distinzione patristica tra l’Essenza e le energie increate ha provveduto a dare una risposta soddisfacente ed adeguata a questa domanda: l’intelletto spirituale può conoscere le cose attraverso la partecipazione alle loro paradigmatiche e creative energie. Una pietra diviene tale attraverso la partecipazione all’energia increata che la riguarda; l’intelletto conoscerebbe la pietra attraverso la partecipazione a quella stessa energia causale. Ma Agostino non poteva ammettere tale risposta, per la sua visione sulle cause eterne o essenze, e non poteva ammettere, almeno durante la vita terrena, alcuna diretta partecipazione o intuizione di quell’Essenza nell’anima intellettuale. L’anima stessa se, per Agostino, è indipendente e superiore al corpo, rimane pur sempre una facoltà creata. Non può dunque esserci alcuna diretta relazione tra quant’è creato e l’Essenza che implicherebbe un’essenziale identità tra i due, cosa ritenuta impossibile. Tutto ciò si realizza, dal punto di vista agostiniano, quando l’anima intellettuale illuminata, può parlare sopra e in questa luce che tuttavia resta separata e fuori di se dal momento che in nessun modo diviene parte della propria natura pur facendo percepire la correttezza o l’erroneità delle proprie conclusioni razionali.

Queste conclusioni razionali non sono, comunque, astrazioni in senso aristotelico. L’astrazione aristotelica è dedotta, per definizione, dal mondo sensibile e questo implica che esiste un modo attraverso il quale le cose sensibili possono avere un certo effetto nell’anima con il quale è possibile rappresentare l’astrazione stessa. L’anima razionale di Aristotele, fintanto che è tale, non è superiore al corpo razionale, fintanto che è tale, ed è per questa ragione che ci può essere una relazione tra uno e l’altra che permette agli oggetti sensibili di agire sull’anima permettendo a quest’ultima di estrarne la conoscenza. Un tale processo, secondo il pensiero agostiniano, è impossibile. L’anima è assolutamente trascendente nei riguardi del corpo e non ci può essere alcuna relazione tra i due come quella immaginata da Aristotele. L’oggetto sensibile non può, per ciò che è, agire sull’anima o modificarla attraverso le sensazioni del corpo. Con tali presupposti Agostino è condotto a concepire l’anima come una realtà che possiede una sua propria sensazione – est enim sensus mentis[14] – distinta e inaccessibile al corpo. Questa visione delle cose è essenziale ad Agostino perché egli considera impossibile ogni diretta partecipazione delle cose create con quelle increate. Così egli è costretto a concepire l’anima non solo semplicemente come creata e immortale (altrimenti non può in nessun modo possedere l’immortalità) ma pure senz’alcuna dipendenza o relazione reciproca col corpo o con altre realtà sensibili, essendo tali cose corruttibili e mortali mentre l’anima, naturalmente, è incorruttibile ed immortale.

Per Agostino, allora, l’uomo non è capace di conoscere le cose, se stesso compreso, attraverso la partecipazione alle loro essenze spirituali o cause; non è capace di ricevere conoscenza dalle cose sensibili. Che genere di conoscenza egli ha o può acquisire tale che possa rimanere in lui? L’uomo, per Agostino, è essenzialmente il pensiero della sua mente[15]. Questa mente, in se stessa a priori, contiene un riflesso, copia creata, delle essenze spirituali immutabili con le quali è fatta essa stessa e ogni realtà creata. E, benché l’uomo possa scegliere tra la sua ragione più bassa – la ratio – che si ferma ad un genere di rapporti illeciti e voluttuosi con forme naturali, o la sua ragione più alta – l’intelligentia – che si muove nella contemplazione di quelle copie delle cose eterne pre-esistenti nella mente (la mente contempla i propri innati e creati contenuti[16]), egli non può trasformare né quanto sta nella sua stessa mente né, a fortiori, l’insieme di sé, anima e corpo, attraverso la realizzazione del proprio increato principio spirituale. C’è, infatti, una differenza molto piccola ma fondamentale tra l’uomo immaginato da Agostino e l’uomo immaginato da Descartes con il suo cogito ergo sum che non solo implica il primato del pensiero sopra quanto riguarda l’uomo, ma comporta pure una natura che, se non è ancora stabilita come autosufficiente, almeno è conseguente alle condizioni poste da Sant’Agostino con le quali viene governata la vita dell’uomo e le sue relazioni con se stesso, il mondo e Dio[17].

San Tommaso d’Acquino, benché inizi il suo discorso come Sant’Agostino dal presupposto di un Dio essenzialmente Essere perfetto[18], è condotto a cercare di rispondere alla domanda di come l’uomo possa conoscere e arriva a conclusioni, in un certo senso, contrarie a quelle di Sant’Agostino. Contrariamente alla definizione dell’anima come di una forma non suscettibile di una mescolanza con la materia[19], l’Aquinate non segue minimamente Aristotele nel negare che la forma, come tale (eccettuate quelle indistinguibili contenute nella natura trascendente ed essenziale di Dio) può essere sostenuta separatamente dalla materia[20]. È perciò impossibile per l’Aquinate ammettere la nozione agostiniana che l’anima, o intelletto, possiede in se stesso a priori delle copie create delle principali ed eterne essenze e possa dedurre la sua conoscenza da esse[21]. L’intelletto è, inizialmente, tabula rasa. Ma in quel caso, da dove, e attraverso quali mezzi, l’intelletto può ottenere una conoscenza?

Quello che dev’essere sottolineato in questo parallelo è che, per l’Aquinate come per Agostino, l’intelletto non può dedurre la sua conoscenza da un’intuizione diretta delle forme, o essenze, delle cose come esistono in Dio. Dio è essenzialmente Essere puro. Ma se Dio è essenzialmente Essere puro, è anche essenzialmente Atto puro. Inoltre, dal momento che Dio è sempre, non può non essere e, dal momento che non può non essere, segue che non esiste nulla in Lui che sia potenzialità. Qualunque cosa sia potenzialità può essere o non essere e, nella proporzione in cui Dio contenesse in se alcuni poteri passivi, potrebbe sia essere che non essere. Di conseguenza, non esiste nulla in Dio che sia solo potenzialità e questo significa che egli è esclusivamente Atto puro[22]. Così, tutte le principali forme, le divine e increate cause delle cose, degli esseri com’essi sono, indistinguibilmente contenuti nella natura essenziale di Dio, sono anche puramente in atto[23]. L’uomo, d’altro canto, possiede un corpo e così condivide la pura potenzialità della materia. Così non può apprendere o intuire le realtà spirituali o soprannaturali in se stesse poiché quest’ultime sono appartenenti alla pura attiva natura divina e non ci può essere alcuna immanenza in Dio, o di Dio, che possa essere condivisa in potenzialità. Perciò l’apprendimento diretto o l’intuizione di queste realtà, dal momento che implicherebbero precisamente una tale immanenza, è completamente al di là delle possibilità umane[24]. Essa potrebbe essere raggiunta dall’uomo se egli non possedesse quanto invece ha, un corpo, e quindi, di conseguenza, se fosse un angelo[25].

Con nessuna conoscenza innata e incapace di giungere ad una conoscenza attraverso una diretta intuizione del Divino, l’uomo può, di fatto secondo l’Aquinate, solo conoscere qualche cosa con un processo di astrazione dalle realtà sensibili. Questo porta l’Aquinate a definire il concetto di intelletto attivo e di intelletto passivo.

Le forme intelligibili degli oggetti sensibili, che possono essere conosciute, non esistono a se stanti e non possono, allo stesso momento, essere definite come residenti nella materia; quello che è intelligibile è immateriale e non può essere partecipato a quanto è materiale. Non esiste alcuna natura intelligibile della creatura. Così, queste forme possono solo essere dette come residenti in potenzialità in oggetti sensibili e, in tale stato, sono inintelligibili e non possono essere note. Possono comunque divenire intelligibili e, da ora conoscibili se, attraverso qualche cosa che in se stessa è in atto, sono anch’esse portate in atto, e estratte dai loro oggetti sensibili. Così l’anima, se sta conoscendo qualche cosa, deve possedere una virtù attiva che le da una forma intelligibile, contenuta potenzialmente, non attualmente, nell’oggetto sensibile, attualmente intelligibile; e questa virtù è l’ intellectus agens o l’intelletto attivo[26].

Allo stesso tempo, quando quest’intelletto attivo, non possiede conoscenza innata? Se esso stesso manca d’ogni determinazione ed è, come abbiamo detto, tabula rasa, è una luce con la quale è possibile vedere, ma nella quale non c’è nulla da vedere dal momento che richiede oggetti sensibili dai quali dedurre qualche cosa da vedere, e così alcune determinazioni senza le quali morirebbe nell’inazione. Ma è possibile dedurre solo da questa determinazione di oggetti sensibili che esiste anche nell’anima una virtù passiva sulla quale gli oggetti sensibili, direttamente o indirettamente, possono reagire. Questa virtù è l’intelletto passivo. L’anima è intelligibilità in atto, ma manca di determinazione; gli oggetti sensibili hanno determinazioni in atto, ma mancano di intelligibilità. L’anima, perciò, conferisce intelligibilità agli oggetti sensibili e, in quest’aspetto, è un intelletto attivo; in questo movimento riceve determinazione dagli oggetti sensibili e, in quest’aspetto, è un intelletto passivo.

Il reale processo attraverso il quale avviene questo ‘scambio’ tra l’anima e gli oggetti sensibili è di seguito descritto. L’oggetto sensibile imprime inizialmente la sua immagine (fantasma) sui sensi umani (è per questa ragione che l’anima è data ed è unita a un corpo. È solo attraverso i sensi fisici che può venire in contatto con gli oggetti sensibili e ottenere così una conoscenza su tutto)[27]. Tale immagine che s’imprime nei sensi umani è l’immagine di una cosa particolare – similitudo rei particulari[28] – impressa e preservata negli organi fisici – similitudines individuorum existentes in organis corporeis[29]. Perciò è ancora, dal punto di vista di entrambi, soggetto e oggetto, nella sfera del sensibile e, come tale, ancora particolare e inintelligibile non ‘universale’ e intelligibile. L’operazione dell’intelletto attivo è, allora, di astrazione per separare la forma, o la determinata specie di ciascun oggetto sensibile particolare, da ogni individuale caratteristica sensibile, pure da quelle ancora presenti nell’immagine dell’oggetto. Da questo punto di vista, la sua attività non è soltanto quella di separare l’intelligibile dall’inintelligibile, l’ ‘universale’ dal particolare, ma anche di produrre l’intelligibile e l’ ‘universale’. Per le specie sensibili divenire intelligibile forma dell’intelletto comporta un tipo di trasformazione con il quale l’intelletto attivo è volto alle immagini sensibili impresse e conservate negli organi fisici, al fine di “illuminarli”, ed è in quest’illuminazione che l’astrazione può essere detta propriamente esistente. Attraverso essa qualunque elemento intelligibile sia contenuto nell’oggetto sensibile viene astratto da esso, e questo produce nell’intelletto passivo e da adesso lo determina, la conoscenza di cosa le immagini rappresentano quando, considerandole in loro stesse, sono solo ‘universali’ e sono piuttosto separate da qualche particolare o materiale caratteristica[30]. Tale conoscenza è conservata nella memoria dell’intelletto attivo, una facoltà che l’Aquinate ha posto per rendere conto del fatto che l’uomo può avere questa conoscenza dopo la sua osservazione immediata delle cose sensibili giunta alla fine. La condizione di quest’intero processo è, naturalmente, che l’astrazione dell’intelletto attivo che determina l’intelletto passivo è preceduta dall’impressione dell’oggetto sensibile nei sensi umani. Alla base di tutta la conoscenza accessibile all’uomo sta il mondo sensibile ed egli non può possedere alcuna conoscenza che non derivi da esso.

Da ciò discendono due cose. La prima è che la natura e la sua funzione, che l’Aquinate definisce come la suprema facoltà umana, il suo intelletto, non è, come l’agostiniano intelletto, equivalente alla natura e alla funzione dell’intelletto spirituale, o cuore, dei Padri cristiani; e, di conseguenza, come nel caso di Agostino, è chiaro che quanto riguarda lo scopo supremo dell’uomo dipende da quanto considerato nelle sue possibilità e, corrispondentemente, differisce da quanto indicato dai Padri. In effetti, l’intelletto, immaginato dall’Aquinate, non è altro che un genere d’estensione della ragione discorsiva: l’intelletto e la ragione descrivono l’unico e identico potere[31]. Non esiste alcun potere intellettuale nell’uomo distinto dalla sua ragione per cui è modo di conoscenza proprio dell’uomo fornire una conoscenza ragionata o discorsiva. L’uomo è un essere ragionante per definizione: la forma dell’uomo è la sua anima razionale ed ogni atto in conformità alla ragione è buono, mentre ogni atto contrario ad essa è cattivo[32].

L’intelletto è niente ma la ragione, come riesce, partecipa alla semplicità della conoscenza raggiungendola attraverso un processo cognitivo che passa da un oggetto di conoscenza ad un altro, da un’astrazione ad un’altra: “nude et potentia discurrens et veritatem accipiens non erunt diversae sed una… ; ipsa ratio intellectus dicitur quod participat de intellectuali simplicitate, ex quo est principium et terminus in ejus propria operatione”[33].

La seconda cosa che segue apparentemente dalla prima, è che il tipo di conoscenza al quale l’Aquinate si riferisce ritenendola la più alta accessibile all’uomo, è d’un ordine completamente diverso da quello della gnosis dei Padri cristiani. Come abbiamo visto, l’Aquinate si riferisce alla diretta intuizione delle essenze divine come di qualcosa oltre dalla portata umana[34]; l’intelletto umano, nelle operazioni di questa vita terrena, può conoscere solo rivolgendosi alle cose materiali e sensibili[35]: “Cognitio Dei quae ex mente humana accipi potest, non excedit illud genus cognitionis quod ex sensibilibus sumitur, cum et ipsa de seipsa cognoscat quid est, per hoc quod naturas sensibilium intelligit”[36].

Che la conoscenza avuta dall’uomo sia estratta dal mondo sensibile, e che questa sia creata, umana, intelligibile, che sembri increata e divina solo in comparazione con l’intelletto dell’uomo, la più alta facoltà che egli possegga o possa possedere, è, per l’Aquinate, fisica e creata, e non può esserci alcuna diretta intuizione di ciò che sia metafisico e increato. Tutto quello che l’uomo può conoscere, il limite della sua conoscenza del Divino, di sé e di altre cose sensibili, giunge, dopo che ha riunito e meditato sulle astrazioni dedotte da queste cose, ad una raccolta di concetti che donano una somiglianza analogica con il Divino, ma nulla più. E se il fine supremo dell’uomo è la beatitudine (non ci può essere spazio per una deificazione com’è stata illustrata dai Padri), questa beatitudine è pure, per chi ne è interessato, creata e umana[37] e, in ogni caso, può essere raggiunta dall’uomo solo dopo la sua morte. Tutto quello che è accessibile all’uomo sulla terra è una beatitudine imperfetta e secondaria che consiste nello studio delle scienze speculative, il cui oggetto proprio è il mondo sensibile. Proprio come delle forme naturali sono analoghe a forme soprannaturali, così lo studio delle scienze speculative ha un sorta di somiglianza analogica alla perfetta beatitudine[38]. Che questa sia una limitazione dell’ampia prospettiva del pensiero cristiano non c’è bisogno di rilevarlo.

Comunque, quando l’Aquinate si riferisce alla conoscenza estratta dalla ragione dal mondo sensibile come alla sola conoscenza umana accessibile, considerando tale acquisizione conoscitiva come lo scopo più alto adempiuto nella vita mortale, non significa che egli rigetti la verità soprarazionale della Rivelazione cristiana. Al contrario, egli ha avuto molta cura di riconoscerla e, parimenti, di proteggerla dalla sfera della ragione. La verità della Rivelazione non viene rigettata però, ora, l’atteggiamento nel comprendere tale verità subisce un cambiamento. Nell’autentico e patristico pensiero cristiano, la verità della Rivelazione, benché manifestata propriamente nella vita storica di Cristo, corrisponde a un dono dell’eterna realtà divina; è una rivelazione della vera natura delle cose e, sebbene l’uomo non possa comprenderla, non è in alcun modo eccezionale ma, al contrario, assolutamente normale. Benché siano verità rivelate sono, da un altro punto di vista, verità che celano realtà sempre presenti, realtà che l’uomo, attraverso il percorso datogli dall’incarnazione dell’eterno Logos nella vita e nelle azioni di Cristo, realizza e vive. Da questo punto di vista, allora, esse provvedono a fornire le basi teoriche di una conoscenza con la quale l’uomo, attraverso progressivi stadi di realizzazione nella vita mistagogica [sacramentale], dovrebbe rendere attuali ed effettive in se stesso.

Così, in questa prospettiva, non esiste alcun “problema” della relazione tra le verità della Rivelazione e quelle della ragione. Le prime sono accolte come realtà base teoretiche, se possono essere così definite, di una conoscenza sopra-razionale compresa gradualmente attraverso una penetrazione e una partecipazione alla realtà spirituale e ai Misteri [sacramenti] cristiani. I Misteri cristiani e la partecipazione ad essi, testimonia e protegge, la vivente e continua operazione e incarnazione delle verità della Rivelazione. Così le verità della Rivelazione non possono essere comprese senz’alcuna iniziazione ad esse e solo da loro dipende ogni vera conoscenza che l’uomo possa possedere. Le conclusioni della ragione in se stessa non costituiscono una conoscenza genuina. Le conclusioni della ragione possono costituire una conoscenza genuina, e questo in forma relativa, solo quando la ragione conforma se stessa ad un ordine di verità sopra-razionali.

C’è, come abbiamo evidenziato, un’assoluta, non solo relativa, distinzione tra l’intelletto spirituale in senso pieno e la ragione; la funzione della prima comporta l’intuizione diretta e l’esperienza delle verità di un ordine soprarazionale, la funzione della seconda deriva dall’intuizione e dall’esperienza del contenuto conoscitivo necessario per trattare gli affari pratici della vita umana e sociale. Non esiste l’idea che la ragione in se stessa possa giungere a qualche cosa di più di un genere molto relativo di conoscenza. Non è neppure vera l’idea che la ragione possa operare indipendenteménte dalle verità della Rivelazione o della fede, come se le conclusioni della prima siano valide per loro stesse e le verità della Rivelazione siano valide indipendentemente dalle prime. Se la ragione prima non si conforma alle conclusioni delle verità di un ordine sopra-razionale e non si trasforma, partecipando alla conoscenza spirituale dell’intelletto, rimane ancora, come il resto dell’uomo, prigioniera dei poteri dell’ignoranza e dell’illusione. Le sue conclusioni devono essere considerate tendendo conto di ciò.

Comunque, una volta che si accetta che l’uomo non può avere alcuna conoscenza diretta delle realtà di un ordine soprarazionale e una volta che la distinzione, centrale nell’antropologia cristiana, tra l’intelletto spirituale e la ragione sia persa di vista perché si vede l’intelletto come una semplice estensione naturale della ragione, la comprensione della relazione tra le verità della Rivelazione e le conclusioni della ragione non può più essere mantenuta. Ora per l’uomo, da una parte, le verità della Rivelazione sono qualcosa che va oltre la capacità umana di comprendere in maniera diretta e, dall’altra, dal momento che la ragione prende il posto dell’intelletto spirituale come se fosse la suprema facoltà umana, le sue conclusioni per se stesse, rappresenteranno la conoscenza più completa del Divino accessibile all’uomo durante la sua vita terrena. Una facoltà puramente naturale – la ragione – che non è trasformata attraverso la partecipazione alla conoscenza spirituale dell’intelletto, rimane necessariamente soggetta all’attività diabolica. Tale ingannabile facoltà ora viene rappresentata come lo strumento della beatitudine umana.

Questa curiosa inversione d’atteggiamento ha dato origine a problemi che hanno occupato l’attenzione di generazioni di pensatori occidentali. Dal momento che ora era inevitabile, le verità della Rivelazione hanno dovuto essere frequentemente ribadite per contrastare le conclusioni d’una ragione non santificata. Quanto è rivelato da Dio probabilmente non si accorda con quanto simula il Diavolo! Avere comunque permesso, nel modo che abbiamo visto sopra, un approccio razionale a tali realtà, ha oscurato determinati aspetti fondamentali dell’integra dottrina cristiana. Questi pensatori occidentali sono stati dunque determinati a concedere alla ragione il ruolo di uno strumento valido per la scoperta, non solo, d’una verità naturale e relativa, ma, parimenti, d’una verità divina e assoluta. Sono stati costretti dalle loro premesse filosofiche a cercare una giustificazione adeguata sia per le conclusioni della ragione che per le verità della Rivelazione, anche se le prime sembravano contraddire le seconde, ponendo alcune giustificazioni per credere che la loro ragione non poteva essere necessariamente tale. Ma questo è l’unico modo per dividere la sfera della Rivelazione da quella della ragione, per dividere la fede dalla filosofia. L’Aquinate, seguendo l’ebreo Maimonides e filosofi come Alessandro di Hales, Bonaventura e Alberto il Grande, indica chiaramente tale distinzione[39]: da una parte c’è la fede, che è l’assenso a qualche verità in quanto rivelata da Dio; dall’altra c’è la scienza, che è l’assenso a qualche altra verità perché è percepita vera alla luce naturale della ragione umana. Questi due reparti sono separati, le verità di una sono valide nella sua sfera, le verità dell’altra nell’altra sfera. L’uomo non può credere quello che verifica; egli crede a qualche cosa che non può verificare perché Dio l’ha detto. Quello che Dio ha detto e che può essere visto non è una materia di fede. La Fede è l’assenso della ragione a quello che la ragione o l’intelletto (i due sono identificati dall’Aquinate), non vede e non può verificare, è l’assenso ai primi principi o a una delle loro necessarie conclusioni. La funzione della ragione è acquisire, attraverso la sua specifica attività, quella conoscenza che può derivare dall’astrazione delle cose sensibili e, sebbene questa conoscenza non abbia alcuna connessione necessaria con le realtà della fede è, ciononostante, la più alta alla quale l’uomo può pervenire.

Così, le verità della Rivelazione, benché siano ancora considerate assolute (visto che Dio le ha rivelate all’uomo in un particolare tempo nella vita storica di Cristo), sono pure considerate oltre la capacità conoscitiva umana; non sono pensate come realtà continuamente rivelate nella vita mistagogica nello sviluppo delle persone cristiane, ma rimangono come furono “in cielo”, oggetti di angelica, non umana, conoscenza. Le cose della fede, che devono essere credute da tutti, sono ugualmente ignote a tutti e non ci può essere conoscenza di esse. Allo stesso tempo, ed in un modo che appare contraddittorio, vengono richieste prove razionali per tali realtà e pure per Dio stesso. Una tale prova è radicata nella storia – sono i miracoli di Dio, la vita e la crescita della Chiesa –, come nell’esistenza umana. Questo è, in effetti, invertire il punto di vista patristico o, generalmente parlando, la pienezza della tradizione cristiana secondo la quale la conoscenza umana procede dall’intuizione diretta del Divino e delle Sue qualità. Le conclusioni sulla propria natura e su quella di altre realtà create, vengono dedotte, perciò, da quest’intuizione primaria di ciò che è soprarazionale e soprannaturale. Per San Tommaso come per altri Scolastici, l’esistenza di Dio e le Sue qualità devono essere inferite, direttamente o indirettamente, dalla conoscenza umana razionale e naturale delle cose sensibili e dai fatti empirici[40].

Quest’atteggiamento quasi ‘idolatra’ verso la creazione e verso la storia umana e naturale è determinato dalle premesse che abbiamo esposto: ritenere che l’eterna ed extra temporale natura della verità della rivelazione sia interamente oltre l’intuizione umana e che la sola conoscenza alla quale l’uomo può pervenire è la conoscenza analogica e concettuale dedotta dalla ragione e proveniente dai dati del mondo sensibile. Questo avrà automaticamente l’effetto di far scivolare l’attenzione dalla contemplazione di queste verità al mondo sensibile, dal soprannaturale al naturale, dalla visione all’osservazione. Da questo momento il mondo sensibile e quello naturale, la storia nel suo insieme come una parte di essa, acquisteranno un interesse piuttosto sproporzionato rispetto a quello loro dato in tempi normali. I ‘fatti’ della natura, proprio come i ‘fatti’ della storia, sono il punto iniziale di quel processo di astrazione attraverso il quale l’intelletto riceve la sua determinazione ed è portato per potenza ad agire e, così, per estensione, a fornire una possibile ‘conoscenza’ di Dio e a raggiungere la beatitudine. Nel caso sia della natura sia della storia quello che è ricercato è la razionale prova del divino. L’intuizione diretta e la partecipazione a quanto è sopra-razionale sono ora ritenute impossibili. Ma non credere che le prove razionali siano valide equivarrebbe condannare l’uomo ad uno stato d’ignoranza insormontabile riguardo alla sua vita e al suo destino e aprire la porta ad ogni forma di dubbio. Era proprio per frustrare un tale sviluppo che è stato necessario insistere, in modo nuovo, sulla validità delle prove razionali per realtà come l’esistenza di Dio e dei Suoi attributi essenziali, l’esistenza dell’anima umana e della sua immortalità. Più tardi, per lo stesso motivo, la Sede Romana lanciò un anatema ufficiale contro tutti “coloro che diranno che l’Unico vero Dio, il nostro Creatore e Signore, non può essere certamente noto con la luce naturale della ragione umana attraverso le cose create”. In questo trattato sulla conoscenza relativa, che Platone chiamerebbe opinione, come se fosse assoluta, non solo si considera una facoltà puramente naturale ed individuale ma, nonostante che, come il resto dell’uomo “naturale”, sia soggetta al “principe di questo mondo”, essa viene vista come capace per proprio diritto di dimostrare l’esistenza del Divino. Così anche il Divino stesso pare considerato subalterno rispetto a certe categorie razionali e naturali.

Questo divorzio tra Rivelazione e ragione, metafisica e scienza, implicito nella filosofia di Sant’Agostino e pienamente riconosciuto in quella degli scolastici, indica che la diffusione delle basi teoretiche della realizzazione cristiana si erano molto indebolite nell’Occidente per la natura stessa di molte teologie occidentali medioevali. Inoltre, tale divorzio indica anche la conseguente preparazione del terreno per la rivoluzione di tutto il pensiero che cambiò la società e la cultura occidentale. In effetti, già nel lavoro dell’Aquinate c’è la completa riaffermazione dell’aristotelica teoria sulla conoscenza. Quando ciò si è stabilito, la concezione dell’osservazione del mondo sensibile, che per natura possiede una struttura logica in se e per se, ha condotto – ed era l’unico modo con il quale lo si poteva fare – all’acquisizione umana d’una nozione delle realtà divine indicanti l’ordine logico del mondo creato. Dio è interamente semplice, eminente e trascendente; come tale è nell’ordine ontologico. Supera l’intero mondo creato e, di conseguenza, l’ordine logico delle cose; e, siccome per la conoscenza umana è limitato nell’ordine logico, Egli supera interamente la nostra conoscenza ed è incomprensibile. Allo stesso tempo, benché la partecipante e intuitiva conoscenza di Dio è oltre il nostro scopo, possiamo conoscereLo ugualmente nell’ordine logico nell’unico modo per cui la nostra conoscenza lo apprende: per analogia. Le cause sono in una certa maniera riflesse nei loro effetti; perciò, dal momento che Dio è la causa del mondo creato, dell’ordine logico, possiamo in una certa maniera conoscerLo in ciò. Quelle caratteristiche logiche che possiamo discernere nella natura, come la misura, la forma e l’ordine (modus, species, ordo)[41], riflettono quello che la nostra ragione dice debbano essere necessariamente le perfezioni ontologiche di un Dio che è Essere perfetto. Esse ci daranno una conoscenza analogica di Dio. Possiamo conoscere l’analogia, la caratteristica logica dell’effetto creato, senza conoscerne la causa, la perfezione ontologica del Dio trascendente. L’analogia è un mezzo attraverso la quale si indica una cosa; ciò che è indicato è in se stesso inconoscibile.

L’assunzione di queste idee, per le quali non possiamo avere alcuna partecipazione intuitiva nella conoscenza di Dio e per cui, conseguentemente, la nostra sola possibile conoscenza di Lui è una conoscenza analogica derivata dal mondo sensibile, ebbero l’effetto, come noi sottolineiamo, di spostare l’attenzione dalla visione all’osservazione, dalla presenza interna al dono esterno. Ciò viene esposto, tra l’altro, dal filosofo Adelardo di Bath: “Non distolgo da Dio, tutto ciò che è e proviene da Lui perché appartenente a Lui. Ma [la natura] non è una realtà confusa e senza sistema, per cui dovrebbe essere dato ascolto alla scienza umana in quei punti che essa può trattare”[42]. La questione metafisica sul perché accadono le cose, ha gradualmente lasciato spazio a interrogativi “fisici” su come esse accadono e la risposta è stata determinata dalla correlazione dei fatti attraverso convenienti mezzi logici o matematici. Ciò che ora è propriamente divenuto importante è precisamente una teoria sistematica secondo la quale il mondo sensibile può essere osservato e, attraverso la quale, può essere dimostrata la validità delle conclusioni dedotte da tale osservazione. D’altronde in Occidente questo fu raggiunto nel Medioevo unendo l’abitudine sperimentale delle arti pratiche col razionalismo della filosofia scolastica. Prima della fine del Medioevo e dell’inizio del XIV secolo, le correnti di pensiero che abbiamo osservato hanno reso possibile la formazione d’una teoria sistematica della scienza sperimentale, compresa e praticata da diversi filosofi nel loro lavoro, in grado di produrre la rivoluzione metodologica alla quale la scienza moderna deve la sua origine[43].

Non fu un grande passo per Descartes e per i buccinatores novi temporis del sedicesimo secolo quando, aggiungendo nuova confusione a vecchi malintesi posero la nuova scienza fuori dal quadro puramente teoretico ed astratto della metafisica cristiana e invertirono la situazione mettendo la ‘metafisica’ nella struttura della scienza stessa. Descartes può essere chiamato il padre della nuova scienza secolaristica e deve tale titolo al fatto che le tendenze presenti in Occidente, che già avevano prodotto manifestazioni della loro presenza con i sviluppi filosofici sui quali abbiamo parlato, trovarono in lui la loro piena espressione. Visto nella prospettiva di questi sviluppi, il principale passo intrapreso da Descartes è consistito principalmente nel formale accordo dell’indipendenza della mente dal Divino e, secondariamente ma con conseguenze più importanti, attribuendo alle sue norme una prerogativa assoluta nella materia della verità e della conoscenza. Esiste veramente una curiosa intima dialettica che congiunge il pensiero di Agostino, Tommaso d’Acquino e Descartes. Agostino aveva asserito l’indipendenza della mente in relazione alle cose sensibili, vedendo le conoscenze di queste come innate, ma aveva insistito che era solo nella luce delle loro essenze eterne che sarebbe stato possibile percepire la correttezza o l’errore del raziocinare. L’Aquinate, d’altra parte, aveva asserito l’indipendenza della sfera della conoscenza umana da quella definita come conoscenza angelica, ma aveva insistito che, mentre la seconda è interamente trascendente in relazione alla precedente, la conoscenza umana è essa stessa dipendente dagli oggetti sensibili e non può esistere senza di loro. Alla fine, Descartes non ha solo riaffermato la teoria di Agostino che la mente e la sua conoscenza è indipendente dalle cose sensibili, ma l’ha anche portata a quella estrema indipendenza che l’Aquinate attribuisce alla conoscenza umana in paragone alla conoscenza angelica per sciogliere la seconda e attribuire le caratteristiche della conoscenza angelica, quelle dell’intelletto spirituale, alla ragione umana stessa.

Quest’ultimo passo ha bisogno, forse, d’essere chiarito, particolarmente il suo collegamento con l’intero cambiamento prodotto in Occidente, cambiamento che risulta dai sviluppi considerati. Abbiamo visto che, secondo la tradizione cristiana, la conoscenza dell’intelletto spirituale è intuitiva, innata, fondamentale ed indipendente dalle cose esterne. È una conoscenza che comprende le cose in un senso veramente universale, non attraverso la conoscenza delle loro astrazioni che costituisce l’universalità per Aristotele e l’Aquinate, ma attraverso la loro conoscenza com’era a priori dalla conoscenza dei loro principi divini. E questa non è un’astrazione o un modo concettuale, ma procede per partecipazione. Questi divini principi, alla luce dei quali l’intelletto conosce gli oggetti esterni, sono energie creative o operative, che determinano le cose create. Ciò che viene osservato in tale causa non è una certa rappresentazione da oggetti esterni trasportata nella mente intelligente, ma è lo Spirito creativo stesso con il quale le cose sono mantenute, sostenute ed esistenti. Tale conoscenza è interamente sopra-razionale e, ciò che è lo stesso, sopra-individuale. Qui i termini ‘naturale’, razionale e individuale riguardano quell’uomo il cui principio spirituale è oscurato ed è perciò soggetto all’oscurità e all’illusione. L’acquisizione di tale conoscenza presuppone il ‘risveglio’ attraverso la lotta, la purificazione e la preghiera del principio spirituale che dipende dalla grazia di Dio. La conoscenza razionale e naturale, della quale l’uomo è capace senza la grazia spirituale, non è soltanto un genere di conoscenza basso e relativo; ma è una conoscenza non rigenerata perché riflette l’influenza dei poteri delle tenebre e dell’illusione ai quali l’uomo non rigenerato è soggetto. Quando, per le ragioni che abbiamo visto, è stata ritenuta teoreticamente impossibile l’acquisizione umana di una conoscenza spirituale elevata, ci fu l’inevitabile e immediata conseguenza che la sola conoscenza accessibile fosse precisamente quella d’ordine razionale e naturale; e che la mens, o mente, considerata come una facoltà razionale e causa di tale conoscenza, fosse l’unico principale organo conoscitivo umano. Questo discorso può essere spiegato anche come segue. Dal punto di vista della metafisica cristiana, l’uomo è come una trinità di spirito, anima e corpo. Gli ultimi due elementi sono d’ordine creato mentre il primo appartiene all’ordine divino e increato. Tuttavia, per le filosofie occidentali medioevali, l’uomo è solamente una dualità di anima e corpo, dove l’anima è creata ed è naturalmente immortale mentre il corpo è mortale. A volte l’anima è contraria al corpo; qualche volta il pensiero è indipendente dal corpo stesso, pur essendo congiunto a lui durante la vita mortale; qualche altra volta è superiore ad esso anche se lo utilizza per i propri scopi. Inoltre, quest’anima è descritta come razionale, come l’equivalente della mente. Se la terza facoltà attribuita all’uomo è denominata intelletto, non è un intelletto spirituale d’ordine sopra-razionale e increato, ma soltanto un aspetto più alto dell’anima razionale stessa, qualche cosa che è anch’essa creata e che opera solo nell’ordine logico e naturale. In altre parole, ciò significa che l’uomo non possiede un intelletto spirituale e che il modo e il tipo di conoscenza proprio a tale intelletto – intuitivo, innato, principale e indipendente da oggetti esterni – non viene comunque raggiunto. Per questo il suo raggiungimento è limitato solo all’ordine logico e razionale. Per l’Aquinate questo tipo e modo conoscitivo soprarazionale è attribuito agli angeli e l’uomo non ha e non può possedere un intelletto angelico.

Conseguentemente ciò spiega come Descartes abbia visto insite nella stessa ragione umana le caratteristiche dell’intelletto angelico. Così egli ha ritenuto che la ragione avesse un modo e tipo di conoscenza intuitiva, innata, principale e indipendente da oggetti esterni. Egli, da una parte, non ha riconosciuto che la condizione per una vera conoscenza, che sia pure d’ordine razionale e logico, comporta la conformità della mente alle verità d’un ordine soprarazionale; dall’altra, non ha richiesto che l’oggetto esterno imponga alla mente la sua presenza prima che la mente ne conosca la realtà. Al contrario ha considerato le proposizioni razionali, le idee chiare afferrate dalla ragione attraverso i propri innati poteri, per loro stessi assiomatici. È questo che, per lui, forma i principi delle spiegazioni scientifiche che da la misura e le regole del mondo esterno. L’oggetto afferrato dal concetto è quello reale, indipendente sia dal mondo divino sia dal mondo sensibile; la realtà viene ridotta in una predestinata scala di chiarimenti scientifici concettuali. Così il pensiero si stacca da ogni cosa e si chiude in un mondo a se stante nel quale non ha contatto con nulla tranne che con se stesso. E se i suoi concetti, immagini opache interposte tra la mente e le cose sensibili e divine, sono ancora per Descartes rappresentazioni di un mondo reale, in realtà attraverso di essi essa viene tratta in inganno e, alla fine, non ha altra capacità che applicarsi nella sfera pratica e materiale. La rivoluzione nella vita intellettuale occidentale, vista nei suoi termini generali, si è ora completata. Essa ha consistito proprio nell’aver rimpiazzato le valutazioni della tradizione cristiana con quelle di una mentalità puramente secolare.

Sarebbe fuori da questo contesto cercare d’indicare tutte le molteplici conseguenze dovute alla formazione di questa mentalità scientifica e secolare. Proprio da esse, comunque, può essere interessante osservare due cose. La prima, che appare immediatamente, è la crescita dell’individualismo. È ancora riferendosi al pensiero tomista che questo processo può essere ben percepito. Per l’Aquinate il principio attivo dell’individualità è la forma e questa, per quanto riguarda l’uomo, è l’anima individuale.

È la continua rinnovata successione delle anime individuali umane che assicura la continuità della specie e la rende possibile per il grado di perfezione corrispondente all’uomo d’essere continuamente rappresentato nell’universo. La materia è il principio passivo di individuazione e, dal momento che esiste solo in vista della forma e non ha reale esistenza al di fuori di essa, senza la materia non potrebbero esistere neppure la molteplicità delle forme. Così, l’individuo è unico per definizione. Nel caso in cui riguardi l’uomo, ciascun’anima umana è unica. Ciò significa che l’intelletto, che l’Aquinate identifica con la ragione e l’anima, è particolare a ciascun uomo: non c’è, per esempio, alcun singolo intelletto attivo comune a tutti gli uomini. Allo stesso tempo, l’intelletto tomista può essere soltanto una dilatazione della ragione discorsiva e non corrisponde all’intelletto spirituale, o cuore; non può partecipare a quello che Eraclito chiama il Logos comune a tutto; non può superare la sua particolarità ed individualità attraverso l’intuizione e la realizzazione delle realtà d’un ordine soprarazionale e sopraindividuale, di un ordine metafisico ed increato e, perciò, divenire universale. Rimane confinato alla sua particolarità ed individualità, e può raggiungere tale ‘universalità’ deducendola, com’è stato già osservato, dalle astrazioni che fa dal mondo sensibile. In altre parole, l’individualità del soggetto intelligente non è trascesa attraverso la realizzazione di una realtà sopra-individuale, ma è limitata dalla sua dipendenza nel mondo sensibile per una conoscenza che può acquisire: una condizione del suo intelligere qualche cosa è il rimanere aperta agli oggetti esterni e permettere ad essi di comunicare a se le loro immagini. Così, per l’Aquinate, non esiste la questione di superare l’individualità da sopra (per così dire), c’è la necessità di restringerla da sotto. La mente umana individuale, se si chiude in se stessa morirà di inattività, dal momento che una condizione propria alla sua determinazione è la sua capacità di ricevere delle impressioni dal mondo esterno che provengono dalla sfera materiale sulla quale agiscono e le permettono di fare quelle astrazioni che la determinano. Comunque, quando con Descartes la mente umana è stata dichiarata indipendente dagli oggetti esterni per la sua conoscenza, è stata rimossa pure questa restrizione da sotto nell’individualità. La mente umana individuale è ora vista non solo come l’arbitro della propria conoscenza, ma anche come interamente autosufficiente; possiede le sue conclusioni in se, e sono queste che non solo determinano la sua realtà ma anche quella di ogni altra. Non esiste un principio di verità o un giudizio più alto dell’intera soggettiva e autosufficiente ragione individuale umana. Quello che questa ragione afferra molto facilmente e molto chiaramente è vero. Quello che noi, come esseri individuali razionali umani, capiamo è valido. E qui è fondato l’asserto sul quale sono basate molte realtà tra cui il Protestantesimo, il movimento illuminista, la democrazia moderna, ecc.

Le seconda conseguenza di questa nuova mentalità, attinente al nostro contesto, è complementare alla prima: la crescita dello spirito quantitativo collettivo, principalmente in una forma nazionale e, più recentemente, internazionale. Può essere osservato come, originalmente, i principi del Cristianesimo sono piuttosto incompatibili con tale spirito, non essendo né nazionali né internazionali ma, ed è un ordine completamente diverso, universali. La dottrina cristiana è radicata in realtà indipendenti da un’organizzazione quantitativa collettiva nella sfera temporale e, benché la sua realizzazione dal punto di vista umano può essere solo in un luogo e un tempo particolare – ogni qualvolta e dovunque lo Spirito è efficacemente presente in esseri reali –, tale realizzazione non ha nulla a che fare con categorie di carattere sociale, etnico, razziale, internazionale o altre simili. Detto diversamente: il luogo in cui viene realizzato il fine dell’esistenza è la Chiesa nella quale avviene la partecipazione al Divino localmente manifestato nella vita mistagogica ecclesiale e ciò ha natura essenzialmente spirituale, per cui non si può sostituire tale realtà, o subordinarla a scopi di natura collettiva nel senso sopra indicato. Le tendenze centrifughe auto-rivendicative dei poteri locali temporali saranno tenute sotto controllo e neutralizzate attraverso il riconoscimento comune di principi e valori d’ordine spirituale e qualitativo e l’unità che consegue da ciò non discenderà da interessi materiali, come se si fosse davanti ad una proprietà, ma dal condividere una struttura comune di valori spirituali. Era un tale senso di condivisione in una struttura comune di valori spirituali, in questo caso incarnata nella tradizione cristiana, che donò alla Cristianità medievale la sua unità, il cui significato e natura abbiamo sopra enucleato. La razionalità in se stessa, d’altra parte, è piuttosto incapace di comprendere un principio di unità attraverso la comunione intima ad un ordine spirituale per la ragione semplice che, come abbiamo visto, non può superare l’ordine naturale e logico. È perciò costretta a sostituire questo principio interiore con un principio esterno di unità che altro non è se non un’astratta rappresentazione del primo. Tali astrazioni non sono solo rappresentazioni di natura soggettiva, e la ragione che le produce è una facoltà puramente individuale, ma pure non possono avere alcuna differenza spirituale o qualitativa tra loro. Ora, ciò che determinerà l’accettazione di una o di un’altra rappresentazione sul piano storico, sarà solo la sua natura temporale e quantitativa. Da un certo punto di vista, l’assunzione del potere temporale da parte del papato medievale in modo che l’organizzazione dell’episcopato occidentale assumesse profili quasi secolari in un sistema di governo, in una posizione centrale diretta e controllata, era finalizzato a conservare l’unità della Cristianità. Ciò è già, d’altra parte, una manifestazione di tale mentalità che cerca un principio di unità, non attraverso l’intima comunione, ma in una rappresentazione di unità esterna ed astratta e, come tale, ha dato origine, con il tempo, ad altre manifestazioni della stessa natura. Per il fatto che il papato era divenuto la rappresentazione del principio di unità nella sfera temporale e che quanto pareva essere principio di unità era una società temporale cristiana, significa che le sue rivendicazioni avrebbero potuto essere annullate da altre simili rappresentazioni che rivendicavano l’unità sotto il loro controllo di altre simili collettività temporali; e queste seconde rivendicazioni possono essere considerate piuttosto valide o nulle come quelle del Papato, entrambe dal solo punto di vista esteriore accessibile alla mentalità razionale, essendo soltanto temporali e perciò di natura quantitativa. Così, la rivolta di vari regni temporali nel tardo Medioevo contro il papato non era tanto contro il potere spirituale quanto contro la conseguenza del fatto che il Papato aveva presunto un potere temporale che, come tale, invadeva la sfera di altri poteri temporali e rivendicava il dominio, in nome proprio, di una collettività più grande, più generale, rispetto alle loro collettività più piccole. Tale rivolta a sua volta, ne introdusse altre anticipando da ben lontano la mentalità individualistica e razionalistica, essenzialmente centrifuga e auto-rivendicativa.

Perciò in Occidente la perdita di un’unità universale e qualitativa discendente dalla partecipazione ad una struttura comune di valori spirituali fu il risultato finale della sostituzione di una moltitudine d’unità astratte e quantitative. Ciascuna unità era di un carattere diverso e concorrente, dal momento che ciascuna era basata su varie e reciproche idee esclusive non solo su ciò che rappresentava il principio di unità, ma anche su come veniva raggiunta l’unità. Questa seconda potrebbe essere, per esempio, il consolidamento sotto un’unica regola per tutte le chiese, o popoli abitanti una particolare area geografica, o possedenti una lingua comune, oppure soltanto condividenti comuni interessi culturali, politici, economici.

Ciò che ora venivano osservati erano questi concetti quantitativi ed essi riflettevano sempre più interessi totalmente individuali, egoisti e materiali, nonostante essi avessero potuto presumere qualche ideale. Individualismo e collettivismo sono lati opposti della stessa moneta e la loro crescita in Occidente può essere dedotta dallo stesso razionalismo secolaristico che ha condotto a rompere con l’ethos medievale cristiano formando la moderna società e cultura occidentale. E se tale crescita è stata marcata in Occidente da una progressiva alienazione dal Papato, alla fine una delle ragioni di questo è che il Papato è la sola autorità occidentale che, in nome di principi sopraindividuali e di natura sopracollettiva, ha la possibilità di assorbire tutte le piccole tendenze individuali sotto il regno ‘impersonale’ di un singolo individuo, le più piccole collettività in un unico insieme collettivo che abbraccia tutto.


Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Scherrard.htm

 

[1] San Massimo il Confessore, Ambigua, P.G. 91,1340 A.

[2] Ibid.,1341 AB.

[3] San Gregorio Palamas, in Gregory Palamas, Twenty-two Homilies, pp. 169-70.

[4] San Gregorio Palamas, P.G. 150, 1108 A.

[5] San Gregorio Palamas, citato pp. 202-3 da J. Mayendorff, Le Thème du "retour en soi" dans la doctrine palamite du XIVe siécle, in Revue de l’Histoire des Religions, l. 145, 1954, pp.183-206.

[6] San Gregorio Palamas, in Gregory Palamas, twenty-two Homilies, pp. 170-1.

[7] Comunque sono consapevole dei pericoli di evitare, come faccio in ciò che segue. Certo esistono aspetti filosofici più puri nel pensiero agostiniano e tomista, ciononostante questo rende possibile indicare che tali aspetti sono interconnessi inestricabilmente con le fondamentali opinioni di Sant’Agostino e di Tommaso e con l’insieme del passaggio dal pensiero teologico alla filosofia secolare, tema del presente articolo.

[8] Cf. San Tommaso d’Acquino, Summa Theol.i. 11. 4.

[9] Ibid., i. 7. 1.

[10] Ibid., i. 25. 1 ad 3.

[11] Sant’Agostino, De diversis quaestionibus, 83, qu. 46. 1-2.

[12] Cf. Sant’Agostino, De Civitate Dei, ii. 10.

[13] Vedi E. Gilson, Introduction à l’ étude de Saint Augustin (Paris, 1931), pp. 56, 67.

[14] Sant’Agostino, De Moribus ecclesiae, i. 27. 52.

[15] Sant’Agostino, Retractationes, 1, c. 1, no. 2.

[16] Sant’Agostino, De Trinitate xii. 1 and 2.

[17] Ibid., xii. 8. 13; 10. 15.

[18] Vedi Sant’Agostino, Soliloquies, ii. 1. 1; I. Gilson, op. cit., pp. 50-51.

[19] San Tommaso d’Acquino, Summa Theol. i. 3. 4.

[20] Vedi Gilson, The Philosophy of St.Thomas Aquinas (Cambridge, 1924), p. 160.

[21] Ibid., p. 191.

[22] San Tommaso d’Acquino, Summa Theol. i. 88, 3 ad Resp.

[23] San Tommaso d’Acquino, Contra Gentiles, i. 16.

[24] Ibid.

[25] San Tommaso d’Acquino, Summa Theol. i.88.3 ad Resp.

[26] San Tommaso d’Acquino, Contra Gentiles, i.16.

[27] San Tommaso d’Acquino, De Anima, qu. un. art. 4 ad Resp.; Summa Theol. i. 79. 3 ad Resp.

[28] San Tommaso d’Acquino, Summa Theol. i. 89. 1 ad Resp.; i. 55. 2 ad Resp.

[29] Ibid., i 84. 7 ad 2.

[30] Ibid., i. 85. 1 ad 3.

[31] Ibid., i. 85. 1 ad Resp.

[32] Ibid., i 79. 8 ad Resp.

[33] Ibid., ii. 18. 5 Resp.; Contra Gentiles, iii. 9.

[34] San Tommaso d’Acquino, De Veritate, qu. 15, art. 1 ad Resp.

[35] San Tommaso d’Acquino, Summa Theol. i 88. 3 ad Resp.

[36] Ibid., i. 87. ad Resp.

[37] San Tommaso d’Acquino, Contra Gentiles, iii. 47.

[38] San Tommaso d’Acquino, Summa Theol. i 26. 3 ad Resp.

[39] Ibid., ii. 3.5 ad Resp.; and 3. 6 ad Resp.

[40] Vedi E.Gilson, Reason and Revelation in the Middle Ages (New York, 1939), pp. 74-75.

[41] San Tommaso d’Acquino, Contra Gentiles, iii. 1.

[42] Sant’Agostino, De natura boni, iii.

[43] Abelardo di Bath, Quaestiones Naturales, c. 4.

 

 

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