IL BIOS DI SAN BARTOLOMEO DA SIMERI

(BHG 235)

a cura di Gaia Zaccagni

 

IL CODICE 

La Vita di san Bartolomeo è tramandata dal codice Messinese greco n° 29, il secondo volume di un grande menologio, ο Πανυγηρικός, scritto per uso del monastero del S. Salvatore di Messina agli inizi del XIV sec., quando i monaci erano impegnati nel recupero della propria tradizione agiografica, legata strettamente al loro monastero e ancora fiorente[1]. Nel cod. 30, che originariamente costituiva la prima parte, è contenuta, a f. 265r, la sottoscrizione che ci informa sull’anno di copiatura (a.m. 6816, settembre – a. D. 1307) e sull’identità del copista: Daniele Scevofilace, cioè monaco addetto alla custodia degli arredi sacri, che il Mancini definisce «infaticabile calligrafo e mediocre pittore» di scarsa abitudine letteraria[2].

 

LE EDIZONI

Il Bios di S. Barlolomeo fu tradotto in latino nel 1657 dal gesuita Agostino Fiorito. La sua traduzione, molto libera e in vari luoghi imprecisa, fu inserita da Pietro Salerno nell’opera in 2 volumi di Ottavio Gaetani, intitolala Vitae Sanctorum Siculorum[3], che egli completò e pubblicò postuma. I Bollandisti, poi, nel 1762, pubblicarono il Bios nella Appendix ad diem XIX augusti (pp. 810-826), aggiunta al tomo VIII Septembris degli Acta Sanctorum: l’edizione è composta dal testo greco e dalla suddetta traduzione latina di A. Fiorito «alioquot locis correcta»[4]. Il testo greco, come spiegano gli editori nel «Commentarius praevius»[5], è il risultato di una collazione effettuata su due apografi del cod. 29, il secondo dei quali fu fatto da D. Alessandro Villare, «linguae graecae professor ac Bibliothecae huius magni Monasterii sanctissimi Salvatoris in lingua Phari custos», con l’aiuto della traduzione latina. Inevitabile è, ad un esame approfondito, basato direttamente sul codice, constatare la presenza di svariate lacune ed errori, sia nel testo che nella traduzione.

Numerose osservazioni e rettifiche furono proposte nel 1907 da Augusto Mancini[6].

Per la presente edizione ho effettuato una nuova trascrizione, in un primo momento, dal microfilm del codice, che si trova nella Biblioteca Nazionale di Roma, e, in un secondo momento, direttamente dal manoscritto stesso, conservato nella Biblioteca Regionale Universitaria di Messina.

In tale modo, ho avuto la possibilità di individuare gli errori presenti nella precedente edizione e quelli, invece, dovuti al copista, e di constatare la validità della maggior parte delle osservazioni del Mancini.

 

LINGUA, STILE, STRUTTURA COMPOSITIVA

Nel Bios di san Bartolomeo da Simeri, come del resto avviene in genere nelle biografie monastiche, c’è un continuo intersecarsi tra elementi storico-geografici peculiari e il sistema di regole topiche, proprie del genere agiografico nel suo complesso.

Questa serie di regole, consolidatasi attraverso una lunga tradizione, trae la sua origine dal forte influsso che la sofistica esercitò sullo sviluppo della agiografia[7]. Nel trattato Περί επιδεικτικών[8] di Menandro retore, teorico dell’eloquenza d’apparato, vissuto verso la fine del III sec. d.C., è perfettamente descritta la struttura dell’εγκώμιον, in tutte le sue componenti:

1) προοίμιον, cioè il prologo, in cui si espone il motivo che spinge a trattare l’argomento, la difficoltà di farlo, l’importanza del soggetto.

2) πατρίς, πόλις, έθνος, cioè il luogo di origine del personaggio-eroe.

3) γένος, ossia la famiglia o la stirpe da cui discende il personaggio.

4) τα περί της γεννέσεως: le circostanze particolari in cui è avvenuta la nascita (sogni premonitori, segni astrali...).

5) τα περί φύσεως: le qualità naturali, l’indole del personaggio, che solitamente si manifestano sin dalla fanciullezza.

6) ανατροφή, ossia l’educazione con cui il personaggio viene allevato.

7) παιδεία: l’infanzia, le inclinazioni, la straordinarietà del personaggio rispetto ai suoi coetanei.

8) επιτηδεύματα: le occupazioni, il genere di vita che il personaggio conduce.

9) πράξεις: le azioni che il personaggio compie.

10) τα της τύχης: la sua fortuna, la sua fama (di solito dopo la morte).

 

I Padri della Chiesa adottarono per il genere cristiano dei panegirici dei martiri lo schema dei sofisti. Da qui tutta questa serie di τόποι propri del genere encomiastico, è passata al genere agiografico ed è quindi facilmente rintracciabile nella struttura compositiva di tali testi. L’influenza della sofistica è presente anche nello stile: il nostro autore è molto attento a costruire il discorso creando parallelismi o antitesi, unendo i periodi in una ipotassi esuberante, che a volte diventa quasi eccessiva. Continua e costante è la ricerca di simmetrie e di ritmo. La struttura compositiva risente delle regole imposte dall’originale oralità della natura e della destinazione dei racconti agiografici: oltre il vocativo al par. 2, 1, che è frequentissimo nelle Vite dei santi, vanno segnalate le numerosissime formule riassuntive o conclusive che l’autore usa come elemento di sutura tra i vari episodi e gli interventi in prima persona che egli rivolge al suo uditorio per tener desta la sua attenzione o per sottolineare l’importanza di determinati episodi. Questi servono:

1) per sottolineare passi di particolare rilevanza. La caratteristica di questa prima categoria di interventi è l’uso dell’avverbio di ενταύθα = qui, a questo punto, e dei pronomi dimostrativi εκείνο = quello (correlato con il relativo όπερ), τούτο = questo, che mettono in evidenza i luoghi desiderati[9].

2) per riepilogare le cose già dette o per anticipare quelle che dirà, allacciando i vari episodi tra loro. La caratteristica di questo secondo tipo di interventi è l’uso del futuro, nell’anticipare quello che sta per narrare, e del passato, nel riepilogare quello che ha già raccontato. Indicativo è anche l’uso di νύν nelle anticipazioni, e ήδη nelle ricapitolazioni[10].

3) per giustificare le finalità e le modalità della narrazione. La caratteristica fondamentale di questo ultimo tipo di interventi sono gli aggettivi verbali, che presentano sempre la terminazione in -τεος, indicante necessità e dovere: la narrazione segue le sue regole e chi scrive deve necessariamente attenervisi[11].

 

La lingua di uno scrittore fornisce su di lui notizie più importanti di quelle dei suoi dati biografici: denota la sua cultura, la sua sensibilità ritmica e poetica, il suo pragmatismo o la sua astrattezza. L’autore di questo Bios è anonimo. La lingua che usa, al contrario, ha connotati ben definiti. È un organismo complesso, costituito da continue reminiscenze classiche, miste ad usi più tardi; è creatura letteraria che si adegua alle regole del genere agiografico, e nel contempo mantiene forme più vive della lingua parlata; è, soprattutto, molto curata e studiata, barocca nelle ridondanze, classica nelle simmetrie, musicale nell’andamento cadenzato dall’alta percentuale delle clausole ritmiche. La caratteristica principale per connotare lo stile del nostro autore è l’uso dell’aggettivazione: egli sembra non essere mai contento di una sola definizione, di un solo aggettivo; e questo lo spinge a tentare sempre un completamento dell’espressione, che l’arricchisca di sfumature. Si crea così un andamento binario, che procede per tutta la narrazione, servendosi di un’elevata frequenza di coppie sinonimiche di aggettivi, sostantivi o verbi.

Altissima è la frequenza di coppie (più di 30) unite a formare delle endiadi. A differenza delle coppie sinonimiche queste «coppie-endiadi» sono legate tra loro da uno strettissimo nesso logico, che a volte ne chiarisce il significato stesso[12]. Dall’elevata quantità di figure retoriche che compaiono in diversi passi del Bios si può dedurre che il nostro autore conosceva bene le regole della retorica antica ed era abile nell’applicarle. Le figure che ho riscontrato nel testo sono: figura etimologica[13], chiasmo[14], similitudini[15], perifrasi[16], metonimia[17], litote[18], ripetizione[19], hysteron proteron[20], antitesi[21], anafora[22], interrogazione retorica[23], paronomasia[24].

Le forme verbali seguono sostanzialmente le regole del greco classico. I connotati puristici dello stile del nostro autore sono individuabili soprattutto nell’abbondantissimo uso dei tempi futuro e perfetto, anche nel participio (ad esempio, una forma notevole come ρηθησόμενον, ossia forme che ormai erano cadute in disuso nel greco postclassico. Che l’uso del participio sia frequentissimo non è un caso, dato che il fenomeno non è affatto isolato nell’ambito della letteratura agiografica, come Henrik Zilliacus[25] ha osservato, uno degli espedienti adottati da Simeone il Metafraste per elevare il livello stilistico delle antiche Vitae fu quello di sostituire strutture paratattiche con costruzioni participiali. Si tratta soprattutto di participi congiunti, che si susseguono, in alcuni punti, come cascate impetuose, in una paratassi che descrive senza definire, come, ad esempio, nell’incipit dell’ultimo paragrafo (31, 1-10).

Accanto a questo classicismo di fondo, troviamo però anche alcuni esempi di lingua più tarda, come forme perifrastiche, tipiche del greco tardo, sia nell’imperfetto (προσδιατριβών ήν par. 5, 6) che nel futuro (έση... απαγορεύων par. 5, 11-12). Un altro uso, tipico del greco tardo, attestato, anche se limitatamente, nella lingua del Bios è quello di comporre i verbi con due prefissi: ad esempio, προσ-ευ-τρεπίζω, επ-εν-τρυφέω, συν-εισ-φέρω, προσ-δια-τριβώ.

L’abbondante uso di avverbi di formazione varia rende lo stile colorito, direi quasi di gusto barocco: l’avverbio, infatti, dona all’espressione a cui è attribuito una coloritura in più, la denota con più precisione. Si riscontra, anche se non in quantità notevole, l’uso ortografico di gusto arcaizzante: il gruppo -ττ, tipico del dialetto attico.

Le opere di epoca bizantina destinate alla lettura ad alta voce sono caratterizzate dalla presenza di clausole ritmiche, costituite da intervalli di sillabe pari (2, 4, 6) tra le due ultime sillabe accentate, prima della pausa[26]. Nel Bios se ne riscontra una presenza notevole: i tipi preferiti dall’autore sono l’intervallo 2 e l’intervallo 4. Ho notato che nelle endiadi costruite con due aggettivi uniti dalle congiunzioni τε καί si trova di preferenza l’intervallo 4.

 

IL QUADRO STORICO-GEOGRAFICO

All’interno delle caselle precostituite, riconducibili alla strutturazione dei racconti agiografici, possiamo ricostruire con notevole chiarezza gli itinerari geografici su cui si muovono Bartolomeo ed i personaggi storici che egli incontra.

La sua patria è Simeri, villaggio della Calabria meridionale in provincia di Catanzaro, che ancora oggi è considerato paese «senza importanza»[27]. Da lì, Bartolomeo ancora fanciullo si reca presso l’asceterio di Cirillo che nel Bios è detto situato προς τινί χειμάρρω του Μελιτηνού λεγομένω. La localizzazione di questo «eremo» è stata individuata nel territorio di Mileto; ma, consultante un’attuale cartina della Calabria, ho riscontrato l’esistenza, proprio nelle vicinanze di Simeri, di un torrente di nome Melito. Mi sembra più verisimile, anche se sarebbe necessaria una maggiore documentazione topografica, che si tratti di questa zona montuosa vicina a Simeri: infatti 1) la fama di Cirillo era sicuramente più ampia nella zona in cui egli viveva, piuttosto che il zone lontane (come è Mileto rispetto a Simeri); 2) Bartolomeo è ancora un ragazzo quando, fuggendo di nascosto, si reca presso Cirillo: la strada che egli percorre non poteva essere eccessivamente lunga.

Dopo un periodo trascorso presso Cirillo, egli intraprende una «peregrinazione» indefinita (την οικουμένην περιιών) alla ricerca di alcuni «uomini saggi e religiosi». Sappiamo che si tratta di una peregrinazione tra i monti: molto probabilmente egli partì dalla Sila Piccola, che si estende verso nord rispetto a Catanzaro ed è la catena montuosa più prossima a Simeri, dove molti asceti si ritiravano in vita eremitica, e arrivò nei pressi della Sila Greca, situata presso Rossano. In quei boschi rimase nella tanto desiderata solitudine, abitando in una grotta scavata nella roccia: le montagne intorno a Rossano sono piene di tali grotte che gli eremiti sceglievano come abitazione.

Dopo l’apparizione della Vergine e la sua esortazione a fondare una «scuola di anime», Bartolomeo comincia ad edificare il monastero dedicato alla Theotokos Odighitria, che sarà poi detto del Patìr (= del padre), intendendo proprio san Bartolomeo. La fondazione di questo chiama in causa una serie di osservazioni sul momento storico in cui viene intrapresa. Si tratta del periodo culminante della dominazione Normanna nell’Italia Meridionale: la cosiddetta «rinascita del XII secolo»[28]. I Normanni, soprattutto Ruggero I e Ruggero II, furono abili politici e capirono quanto fosse importante per la stabilizzazione del loro regno ottenere i favori della popolazione greca dell’Italia meridionale ancora così numerosa e vivace, nonostante l’ormai definitivo allontanamento da Bisanzio.

Il Bios parla della collaborazione offerta a Bartolomeo dall’Ammiraglio Cristodulo e dalla corte normanna. Sono notizie molto precise e congrue con il clima di generosità calcolata e necessaria esistente nei rapporti tra la corte normanna e le fondazioni monastiche. Le donazioni offerte da Ruggero II furono molto liberali. Ma perché Bartolomeo si rivolse proprio alla corte normanna per ricevere gli aiuti necessari alla sua fondazione? Scaduto[29] sostiene che «il modo di agire di Bartolomeo rivela una tendenza comune a tutto il monachesimo bizantino: evintando il più possibile, di avere a che fare coll’Ordinario del luogo – portato sempre ad invadenze indebite nell’amministrazione interna del monastero – cercando di ottenere in un modo o nell’altro il privilegio di esenzione, e preferendo il patronato di un ricco laico a quello del vescovo». A quell’epoca il vescovo di Rossano era Nicola Maleinos, membro di una potente famiglia bizantina locale. Tra Bartolomeo e Nicola non doveva correre buon sangue, come si deduce dalla sottoscrizione del cod. Vat. gr: 2050, e, per tutelare il suo monastero dalle ingerenze del vescovo, Bartolomeo intraprende la strada per Roma e si reca dal papa Pasquale II per ottenere il privilegio dell’esenzione, che il papa subito gli concede con la Bolla del 1105. A questo, forse, era stato consigliato dalla Corte normanna: infatti, anche altre abbazie latine di fondazione normanna, come Sant’Eufemia a Mileto, si comportarono allo stesso modo.

Bartolomeo poteva finalmente dedicarsi alla cura dei suoi monaci e, da buon egumeno, si diede subito da fare affinché nulla mancasse loro: era essenziale procurarsi un’adeguata biblioteca, per favorire gli studi dei suoi discepoli. Così, non indugia a partire alla volta di Costantinopoli, dove incontra gli imperatori Alessio ed Irene Comneni (1080-1117), che mostrano nei suoi confronti grande benevolenza. Forti furono i contatti che egli ebbe anche con un membro della corte imperiale, Basilio Calimeris. Questi gli affidò la cura del monastero che egli possedeva sull’Athos: in quel periodo, infatti, c’era stato, all’interno dei monasteri atoniti, un generale rilassamento dei costumi, che Chalandon[30] identificò con l’arrivo dei pastori valacchi sull’Athos. Senza entrare nel merito della questione, voglio sottolineare la grande importanza di questo contatto di Bartolomeo con un monastero dell’Athos: egli sicuramente ricavò spunti dall’organizzazione atonita della vita cenobitica. E questo è dimostrato dalla dichiarazione che Luca, primo egumeno del S. Salvatore, che era stato discepolo di Bartolomeo ed aveva improntato le regole per il S. Salvatore a quelle formulate da Bartolomeo nel proprio typicon, fa nell’introduzione al suo Typicon: «ά εξ αρχής συλλεξαμένοι εκ διαφόρων παλαιών τυπικών της Στουδίου μονής, του Αγίου Όρους, των Ιεροσολύμων και ετέρων τινών»[31].

Al suo ritorno in Calabria, Bartolomeo si trovò di fronte all’infamante accusa di eresia da parte di due monaci benedettini dell’abbazia della Trinità di Mileto: lo splendore del nuovo monastero aveva generato in loro invidie e gelosie, che si erano acuite da quando la corte Normanna si era trasferita in Sicilia, abbandonando Mileto. Secondo Lucà[32], «non è del tutto arbitrario ipotizzare che le calunnie rivolte a Bartolomeo tendano a colpire innanzi tutto la sua fede religiosa e ideale, la sua lealtà politica verso Bisanzio, che probabilmente si erano manifestate anche attraverso i viaggi compiuti nella capitale e sul Monte Athos. Bartolomeo fu processato a Messina, ma ne uscì indenne; anzi, la stima che Ruggero II aveva di lui aumentò al punto che gli fu affidato il compito di organizzare la fondazione del S. Salvatore a Messina.

 

L’AUTORE

Alcuni studiosi, il Gaetani, il Matranga e il Rossi[33], ritenevano che Daniele Scevofilace, oltre ad essere il copista del codice, fosse anche l’autore del Bios. Ma l’ipotesi, come già dimostrò il Mancini[34], è del tutto improbabile per motivi ricavabili dal testo stesso:

1 – La accuratezza con cui è composta la narrazione denota una relativa vicinanza di tempo a Barlolomeo. Probabilmente, secondo l’ipotesi del Batiffol[35], l’autore scrisse una cinquantina di anni circa dopo la morte del santo, e cioè verso la Fine del XII sec. Sostenere, invece che l’autore del Bios fu Daniele Scevofilace, significa attribuire alla composizione della Vita una datazione contemporanea a quella del del codice, cioè di ben due secoli posteriore all’epoca in cui visse Bartolomeo. Ma è estremamente inverosimile che una Vita siffatta poesse venir scritta così tardi rispetto alla morte del santo.

2 – Inoltre, nell’ambito della narrazione troviamo due espressioni che ci permettono di localizzare la provenienza dell’autore:

– al par. 8, 11-12 επί τα καθημάς ταύτα όρη, cioè le montagne della Calabria. Il fatto che egli usi il pronome dimostrativo ταύτα, indicante vicinanza di luogo rispetto a chi parla e a chi ascolta, e l’ulteriore specificazione καθημάς, fa pensare che sia l’autore sia il suo uditorio fossero calabresi.

al par. 26, 13-14 έδει αυτόν εκείθεν επανελθείν ως μη… το ενταύθα ποίμνιον... ζημιωθείη. Gli avverbi sono usati dal punto di vista di chi scrive: εκείθεν indica lontananza rispetto a chi parla e a chi ascolta (in questo caso il Monte Athos), ed ενταύθα vicinanza (la comunità monastica della Νέα Οδηγήτρια a Rossano, in Calabria).

 

Nel codice, prima del Bios di Bartolomeo, è contenuto un λόγος εγκωμιαστικός in suo onore, scritto da Filagato da Cerami[36].

Augusto Mancini, nel tentativo di determinare l’origine del Bios[37], volse la sua attenzione ad «un particolare [...] che non è stato convenientemente apprezzato, e cioè che nel titolo dei due componimenti del Codice che si riferiscono al santo, occorrono rasure significantissime». Esaminiamo, dunque, la sua congettura: il titolo della Vita è Βίος και πολιτεία του Αγίου πατρός ημών Βαρθολομαίου του ****, seguito da uno spazio in rasura capace di circa tredici lettere; il titolo dell’encomio è Λόγος εγκωμιαστικός εις τον όσιον π(ατέ)ρα ημών Βαρθολομαίον τον κτίτωρα (sic) της μεγάλης μονής του Σ(ωτή)ρος ακροπόλεως Μεσσήνης. La parte che ho presentato in corsivo è in rasura e, come sostiene il Mancini, «l’antica scrittura occupava precisamente lo stesso spazio». Confrontando i due titoli, egli propone di integrare le rasure con Τριγωνίου oppure con ‘Ρογχωνιάτου, cioè con epiteti riconducibili a fondazioni di monasteri fatte da Bartolomeo in Calabria e suppone che «solo il correttore del manoscritto abbia accentuato l’importanza dei due documenti rispetto al Monastero messinese». L’origine di questi testi, dunque, deve cercarsi a Rossano o a Trigona, monasteri con i quali il S. Salvatore ebbe frequentissimi scambi e rapporti.

Il ricco corpus menologico copiato da Daniele Scevofilace è frutto del tentativo che la grecità del S. Salvatore fece, nel primo decennio del XIV secolo, di offrire «una sua ultima proposta culturale, impegnandosi studiosamente nel recupero di una tradizione agiografica veneranda e organicamente legata al monastero»[38].

L’ipotesi più interessante sull’identità dell’autore del Bios è quella avanzata da T. Minisci e in modo più articolato dal Mancini, e cioè che si tratti di Filagato da Cerami, autore dell’encomio. Mancini, dopo aver confrontalo attentamente i due testi, formula due possibili ipotesi: a) che l’Encomio dipenda dalla Vita, oppure b) che Encomio e Vita siano di una stessa mano. Di questa seconda ipotesi egli si riserva di dimostrare la validità, fornendo a suo tempo «alcune particolarità stilistiche e grammaticali» comuni ad entrambi i testi. Ma la «apposita nota» che aveva promesso non fu mai pubblicata.

A questo punto, ritengo necessario riprendere la strada da lui intrapresa e presentare brevemente i motivi che potrebbero far pensar a Filagato da Cerami (o ad un discepolo della sua «scuola») come autore di questa Vita[39].

Filagato da Cerami è una delle personalità più importanti, sul piano culturale, nell’Italia meridionale del XII secolo. Egli fu monaco al Patìr di Rossano. Poi, ordinato prete, si «consacrò ad un apostolato di insegnamento tramite la predicazione, promosso ed incoraggiato dalle autorità monastiche di Rossano e del S. Salvatore quanto dagli stessi re normanni»[40]. Era soprannominato filosofo per la sua approfondita formazione intellettuale, nutrita, oltre che di cultura sacra, anche della conoscenza di testi classici.

Anche ad una prima lettura appaiono evidenti i punti di contatto con il Λόγος εγκωμιαστικός a lui attribuito ed il Bios di san Bartolomeo. Mi limiterò a segnalarne i principali:

1) και καθάπερ μέλιττα συλλέγων πανταχόθεν το χρήσιμον[41] corrisponde al par. 7, 6: οία τίς φίλεργος μέλιττα συλλέξας το χρήσιμον.

2) Περιενόστει δε φιλόσοφον και ξένην διαγωγήν μετερχόμενος, ήλιπος το πόδε... ζώνη δε σκυτίνη περισφυγγών την οσφύν[42] corrisponde al par. 8, 1-4: Περιενόστει δε, κατά την του δεσπότου Χριστού προς τους μαθητάς εντολήν, τους μεν πόδας ανήλιπος... ζώνη τε σκυτινή περισφιγγών την οσφύν.

3) οι δε, καθάπερ δεσμοίς τοις εκείνου λόγοις εδέδεντο[43] corrisponde allimmagine di par. 13, 20: οι δε το μελιχρώ της διδασκαλίας, οία τισί πέδαις χειρούμενοι.

4) και ήν ιδείν τον μύθον των σειρηνών τρόπον άλλον επαληθεύοντα e più avanti: όπως ο των σειρηνών μύθος ατέχνως εν τοις εκείνου λόγοις αληθεύων εδείκνυντο[44] sembrano quasi spiegare luso del sostantivo σειρήν, riferito alle parole del santo a par. 12, 21-22 η των εκείνου λόγων σειρήν.

Questo mi sembra uno dei più importanti punti di contatto, in quanto la scelta di un vocabolo come σειρήν, usato in senso metaforico per indicare la forza seduttrice delle parole di Bartolomeo, può venir fatta soltanto da qualcuno che conosceva bene il mito della sirene dell’Odissea. Nell’Encomio questo mito è esplicitamente citato e la metafora del Bios è così spiegata.

Concludo, dunque, dicendo che, si tratti o no di Filagato da Cerami, l’autore del Bios doveva avere una cultura ampia, che andava dalla letteratura sacra agli autori classici.

Roma, Gaia ZACCAGNI

 

 

VITA E FATTI DEL NOSTRO SANTO PADRE BARTOLOMEO

 

PROLOGO[45]

1. Davvero grandissimo giovamento e molto guadagno per l’anima procura ai virtuosi la vita degli uomini pii esposta in racconto: infatti risveglia le loro anime ad operare le virtù e persuade a disprezzare ogni fatica e difficoltà e, come quando qualcuno parla di guerre e trofei davanti ai migliori, subito a loro l’anima si scalda e quasi va in cerca di schieramenti e si scaglia nella mischia dei nemici, e quanto più odono discorsi su questi argomenti, più cresce in essi lo slancio e subito aspirano a queste opere, così anche le anime innamorate della virtù, quando vengono a conoscenza da qualche scritto degli agoni e delle corse apostoliche o delle lotte dei martiri, o delle vite di uomini santi e dei combattimenti ascetici contro gli spiriti del male, con molto coraggio[46] anch’esse subito sorgono alla loro imitazione e sono spinte a fare senza pigrizia lo stesso, aspirando ad ottenere, da parte del generoso Dio, le stesse corone e gli stessi premi di quelli.

Dal momento che, dunque, così evidente è il giovamento che si trova nelle narrazioni sugli uomini illustri e il progresso verso il meglio, pensammo che non fosse bene che venisse lasciata sotto silenzio la vita a Dio gradita e giovevole per l’anima del nostro padre e pastore Bartolomeo, che si distinse in così grande virtù e che, come un sole, fece risplendere ovunque, anche lontano, i raggi delle sue imprese, e permettere che le sue azioni virtuose si ottenebrassero negli abissi dell’oblio. E questo, mentre i Greci di un tempo – i pagani – si preoccuparono di scrivere con molta cura le mitiche imprese degli eroi, benché esse non apportassero alcun giovamento alla vita degli uomini e procurassero, piuttosto, un danno enorme a coloro che le ascoltavano, dal momento che narravano empietà e turpi azioni[47]. Non dobbiamo, dunque, tacere i fatti di quest’uomo, né dobbiamo lasciar prive di narrazione opere così venerande; ma dobbiamo, piuttosto, raccontare a tutta forza ciò che lo riguarda e presentare a tutti, come esempio di virtù, la vita di lui[48].

 

LA PATRIA

2. Generò, dunque, questo sant’uomo, come quasi tutti voi presenti sapete, o santa adunanza raccolta da Dio[49], non una delle città grandi e famose, ma un piccolo e semplice villaggio sconosciuto[50], situato nella parte meridionale della Calabria. Il nome della patria è Simeri. Ma che nessuno, osservando l’umiltà della terra nativa, pensi qualcosa di meschino anche su costui e di indegno delle grazie di questo insigne uomo![51] In tal modo, infatti, sarebbero disonorati non solamente gli Apostoli e i Profeti[52], ma anche i loro epigoni, cioè Elia Tesbite, Giovanni Battista e Prodromo, più grande del quale non sorse nessuno tra i nati di donna, e Pietro, il fondamento della Chiesa di Cristo: infatti, cosa c’è di più umile della patria di ciascuno di essi, in quanto a fama nel mondo e celebrità?

 

I GENITORI

3. Ma, mentre la terra nativa di questo grande e celebre padre era di tal fatta e così modesta, i suoi genitori furono invece grandi ed illustri di vera nobiltà[53], dato che avevano ereditato la virtù dalle origini e dai progenitori, e accrescevano tale eredità ogni giorno con i loro apporti. Infatti, essendo anche loro, come dice il grande Giobbe, lontani da ogni cosa malvagia, disprezzavano sempre i piaceri bassi e caduchi e, avendo sottratto la maggior parte degli averi alla rovina e al Padrone del mondo[54], li trasferivano dalla sede temporanea alla vera dimora[55], diventando, quindi, anche così, un buon esempio per il figlio e mettendo in serbo per sé l’eterna beatitudine.

Il nome del padre era Giorgio e quello della madre Elena. Costoro, come una buona radice, avendo fatto germogliare[56] quale buon germoglio questo celebre figlio, e avendolo fatto avvicinare a Dio, dispensatore dei buoni doni, attraverso il divino battesimo, chiamarono lui, che sarebbe stato perfetto nella virtù, Basilio, guidati in ciò da Dio, come se anche attraverso il nome si manifestasse la regalità dell’intelletto del fanciullo e la inflessibilità e la libertà dalle passioni della carne.

Tali erano, infatti, nella virtù quei beati – come la precedente narrazione ha mostrato – che, da quel momento in poi, conducevano per mano il figlio ovunque, secondo la volontà divina, nell’educazione e nei precetti del Signore, secondo l’esortazione di san Paolo, cosicché egli si dimostrò davvero regale offerta divina e degna dimora del sovrano celeste.

 

INFANZIA ED EDUCAZIONE

4. Egli non guardava a giochi e trastulli e alle altre cose con le quali la gioventù per lo più è solita dilettarsi, ma, volgendo sempre lo sguardo al modello vicino, cioè i propri genitori, nel corpo ancora imperfetto e assolutamente giovane dimostrava un’assennatezza perfetta[57], e dall’inizio ciò che si dice un germoglio faceva intuire quale sarebbe stata in seguito la pianta. Dopo che, con l’andar del tempo, aveva oltrepassato l’età dei bambini, viene dato dai genitori all’apprendimento delle sacre scritture e, ricevendo ogni giorno i fertili semi dell’insegnamento nel grembo dell’ignoranza, produsse in breve abbondante frutto[58] superiore alla sua età. E frequentando le sacre dimore, continuamente rallegrava l’anima e i sensi con le innodie e le sacre letture[59]; e di qui ricevendo, secondo il beato Isaia, nel ventre dell’intelletto il timore di Dio e comprendendo che nessuna delle cose di qua è certa e stabile, da una parte trascura i genitori in favore di Cristo, dall’altra disprezza il mondo e le cose mondane e trasferisce ogni proprio desiderio verso Dio.

 

PRESSO L’ASCETA CIRILLO

5. Quindi, senza aver detto niente a nessuno e senza aver rivelato la decisione, abbandonando tutti, genitori, amici, coetanei, parenti, lo stesso suolo patrio – il più desiderato e desiderabile[60] per gli uomini –, esce di nascosto dalla casa paterna e va dal grande asceta Cirillo[61], che allora viveva[62], con pochi asceti, presso un fiume, detto del Meliteno, lavorando accuratamente il divino miele della virtù.

Giunto, dunque, presso di lui, chiese, con tutto l’ardore o il calore che si può immaginare, di fargli indossare l’abito dei monaci. Quello, facendogli considerare la giovinezza dell’età, diceva: «È impossibile per te adesso, figlio, entrare nella vita monastica: in breve, infatti, cederai[63] alle fatiche, che sono molte e dure anche per gli stessi adulti e non certo per quelli ancora giovani come te e delicati. Per questo ti esorto a stare ancora un po’ presso i tuoi genitori e a non farti carico di così grandi fatiche in un corpo così acerbo e non del tutto sviluppato». Ed egli, come sentì le parole del vecchio, disse: «Io, o padre, proprio per questo sono venuto da te: per vivere in Cristo e morire così nella carne; se per me che affronto quelle fatiche che hai detto, farà seguito il morire, è meglio per me subire ciò piuttosto che allontanarmi da voi a mani vuote e, per dirla con il Vangelo, tornare indietro, dopo aver posato la mano sull’aratro».

 

TONSURA ED INIZIO DELLA VITA MONASTICA

6. Poi che, dunque, il santo Cirillo si rese conto della fermezza della sua decisione e del veementissimo amore per Cristo, gli taglia i capelli[64] e veste degli abiti sacri[65] dei monaci lui che ormai viveva e aveva scelto di vivere alla maniera dei monaci e, affinché non gli rimanesse nulla della vita mondana, neanche il nome, glielo cambia in Bartolomeo[66]. Così, divenuto Bartolomeo per opera del beato Cirillo, fu da lui educato nelle gare e nelle lotte[67] dell’ascesi e fu istruito alla assoluta precisione della regola monastica. Con il passar degli anni, crescevano in lui i primi semi della virtù e molte altre cose si aggiungevano nel suo cuore, grazie a quell’ottimo istruttore, come semi seminati in un terreno buono e fertile[68].

 

FORMAZIONE PRESSO UOMINI PII

7. Dato che stava per diventare guida di molti verso la salvezza, conforto ed esortazione[69] di anime addolorate, la abile saggezza di Dio non permette che egli si accontenti solo degli insegnamenti del santo Cirillo, ma avendo essa da molto tempo a questa parte gettato i presupposti della virtù e della santità che avrebbero rifulso in lui, lo muove[70] verso l’amore anche di altri uomini pii, affinché egli, dopo aver raccolto l’utile da tutti questi, come un’ape laboriosa[71], fosse in grado, dopo di ciò, di indirizzare verso la virtù coloro che sarebbero stati sotto la sua guida. Quindi egli lascia il santo Cirillo, mosso da spirito divino, e andando in giro per il mondo, andava in cerca di uomini virtuosi e saggi e di quanti erano invasi dal divino amore per Cristo. E stando sempre insieme a tali uomini e osservando la vita di ciascuno di essi, raccolse in breve ogni tipo di virtù[72].

 

ASPIRAZIONE ALLA VITA SOLITARIA

8. Andava in giro, secondo il comandamento di Cristo Signore ai discepoli, con i piedi scalzi, coprendo il corpo con una sola e povera tunica, e per di più sudicia e stracciata, stringendo i fianchi con una cintura di cuoio, ed era tutto consumato e macerato, a causa dell’astinenza dal cibo. Aveva, poi, anche una verga a forma di croce tra le mani, come il primo chiamato degli Apostoli[73]. Questa verga, da una parte, era come un’imbattibile: difesa contro i nemici spirituali, dall’altra, era anche il perenne ricordo di colui che fu per noi crocifisso. Pieno perciò, come una nave carica[74], di pensieri ed azioni divine, capì che doveva abbandonare tale modo di vita e tramutarlo in vita solitaria e contemplativa[75] e, essendosi ritirato da tutto il consorzio umano, come un passerotto – secondo il detto del divino David –, emigra su questi nostri monti, che allora erano quasi inaccessibili agli uomini e perfettamente in grado di condurre alla vita contemplativa.

Alle falde di questi monti trova un oratorio[76] dedicato al nome del santo martire Sisinnio, nel quale abitava un vecchio, che perseguiva anch’egli la vita solitaria, e viene ospitato presso costui. Ed essendo rimasto là per alcuni giorni, dopo aver comunicato al monaco i propri pensieri, lo implora di farsi sua guida verso la parte più interna del bosco, dove avrebbe potuto dedicarsi in solitudine[77] a Dio, senza essere più disturbato da nessuno. Biagio, dunque – così infatti si chiamava il vecchio – avendo riconosciuto sia dalle parole sia dall’ascesi che appariva sul volto del giovane che egli era davvero un servo di Cristo, accetta benevolmente la sua preghiera e con alacre piede lo conduce nel luogo desiderato.

 

EREMITAGGIO SUI MONTI

9. Quando il santo trovò il luogo tranquillo per l’assoluta quiete che regnava in ogni parte, essendosi molto rallegrato per questo, dato che aveva ottenuto ciò che desiderava[78], supplica ancora una volta il vecchio di andare da lui ogni tanto e di portargli dei legumi, per un piccolo sollievo del corpo. Visto che, dunque, lo trovò accondiscendente e disposto ad adempiere la richiesta, lo ricambiò, com’è giusto, con parole di ringraziamento e promise che sarebbe stato supplice presso Dio per lui. Avendo indicato il tempo nel quale riteneva che potesse andarlo a trovare, lo esorta a volgersi alle proprie occupazioni.

Egli, poi, divenuto abitatore dei monti come desiderava e avendo preferito abitare con gli animali piuttosto che stare con gli uomini, rivolge tutto se stesso verso l’Amato[79]; ed essendosi rinchiuso in una strettissima grotta non bene né convenientemente scavata, ma che riceveva, anzi, da tutte le parti molta umidità ed il rigore dell’inverno, era costantemente intento[80] alla preghiera ed al digiuno e si deliziava con i canti sacri del divino Davide, non avendo con sé nulla di quanto è stato escogitato per il conforto del corpo, non una lucerna, non un tavolo, non un giaciglio o una piccola stuoia – come è abitudine tra certi asceti, per un moderato ristoro del corpo –, bensì giacendo sul nudo suolo, gustava il sonno in modo sempre molto misurato e quasi di soppiatto. In tal modo, infatti, quell’uomo inflessibile si pasceva di veglia che quasi tutto lo spazio della notte veniva da lui consumato in genuflessioni e preghiere: infatti il venerabile diceva: «Bisogna che il monaco sia sempre sveglio, dato che non sa – come dice la voce del Signore – a che ora verrà il ladro».

Agli inizi della vita in eremitaggio si nutriva con i legumi procuratigli da quel vecchio pio e buono; in seguito, poi, con il passar del tempo, arrivò all’abitudine della continenza, assaggiando soltanto erbe selvatiche e acqua e queste cose con molta continenza e moderazione e solo tanto da sfuggire così alla morte, considerava delizia assoluta e gratuita la conversazione con Dio per mezzo della preghiera, ed il perenne pianto. Non solo contro i piaceri del ventre combatteva così virilmente, ma anche resisteva, soffrendo con piacere per Cristo, ai freddi crudeli e alle piogge e a molte altre asperità: infatti, dimorando in luoghi così freddi, non usava neanche il fuoco, che è il bene più grande per il conforto di coloro che abbracciano la vita solitaria sui monti.

 

INSIDIE DEL DEMONIO

10. E mentre egli così dominava il proprio corpo e sottometteva, com’è giusto, il peggio al meglio e purificava con cura la vista dell’intelletto e la rendeva limpido specchio[81] dello Spirito Santo, colui che sempre si oppone ai nostri beni[82] non gli permetteva di stare tranquillo. Per verità, il nemico tentava di spaventarlo con svariati fantasmi e di colpirlo con pietre e cercava di farlo precipitare in quei dirupi scoscesi. Ma egli, non ignorando di chi fossero le macchinazioni e le apparizioni, fissando la mente a Dio, cantava i Salmi di Davide contro il nemico, dicendo: «Il Signore è mia luce e mio salvatore; chi temerò? Il Signore è il difensore della mia vita; da chi sarò intimidito? Nell’avvicinarsi a me, maltrattandomi per mangiare le mie carni gli stessi miei oppressori e nemici si infiacchirono e caddero. Se pure contro di me si schierasse un esercito, il mio cuore non avrà paura; se pure sorgesse contro di me una guerra, nel mio cuore io continuo a sperare», e così via. Solamente queste parole, dunque, pronunciava il santo e faceva contro gli spiriti il segno della Croce[83].

C’erano momenti in cui da quella santa bocca mossa da Dio spirava anche un piccolo soffio e subito gli spauracchi e i fantasmi svanivano come sogno, ed egli, divenuto superiore agli avversari[84], offriva il ringraziamento al datore della vittoria, dal quale ogni giorno, come canta il divino Davide, riceveva abbondanti conforti. Diceva infatti: «Tra la folla dei miei dolori nel mio cuore le tue consolazioni alleviarono l’anima mia».

 

BlAGIO E ClRILLO ASSISTONO AD UN PRODIGIO

11. Ma, arrivato a questo punto della storia, voglio narrare quel fatto che, da una parte, è piacevolissimo da ascoltare, dall’altra è il più adatto a colpire l’anima e gettarla nello stupore: una volta che il suddetto vecchio Biagio saliva in visita al santo, insieme al santo Cirillo, che la precedente narrazione ha mostrato essere il padre spirituale di quello, quando furono ormai vicini al luogo in cui il santo era solito spesso pregare[85], oh vista straordinaria ed impressionante! appare davanti a loro una colonna di fuoco[86] che dalla terra si estendeva fino al cielo stesso. Essi, sbigottiti, com’è normale, per l’insolito spettacolo, stettero muti, essendo stati ritenuti degni di osservare cose così grandi e indicibili[87]. Dopo che quella luce soprannaturale e immensa si allontanò dalla loro vista, giunti là dove ritenevano di vedere l’evento straordinario, trovano il grande, come un secondo Mosè[88], illuminato e grandemente glorificato nel volto dalla conversazione con Dio tramite preghiera. Non era assolutamente giusto che egli, divenuto tale e avendo ottenuto da Dio una gloria così grande, si nascondesse per sempre nei deserti, come una lucerna sotto il moggio, e che procurasse la salvezza solo a se stesso; e per questo colui che sempre si prende cura della nostra stirpe lo rende noto e in questo modo lo fa conoscere a chi lo ignora.

 

I CACCIATORI

12. Alcuni uomini, appassionati alla caccia di bestie selvatiche[89], essendo andati, una volta, a cacciare su quel monte dove il padre dimorava seguendo quel modo di vita angelico[90], all’improvviso, trovatisi per caso davanti alla grotta, lo vedono che stava in piedi, propiziando a sé e a tutto il cosmo il Dio dell’universo. Quelli, dunque, spaventati per la improvvisa e inconsueta vista, erano pronti a fuggire. Ma il grande, avendo visto quegli uomini così sconvolti, disse subito loro: «Non abbiate paura, fratelli, perche anch’io sono un uomo, anche se ho scelto di abitare in questo luogo a causa dei miei peccati». Ed essi, riempitisi di coraggio a quella voce e avvicinatisi di più a lui, ne vedono l’aspetto ed il comportamento realmente angelici e divini[91]. Non era, infatti, come chi abita tra i monti, spaventevole e selvaggio nell’aspetto, ma anzi era mite e soave e in tutto e per tutto un angelo divino: dolce d’aspetto, più dolce ancora nel parlare ed emanante giovamento sia dall’aspetto, sia dalle parole, per coloro che lo avvicinavano.

Essendosi, dunque, quegli uomini riempiti delle sue dolcissime parole giovevoli per l’anima, e avendo ricavato da lì molto piacere ed avendo ottenuto la benedizione da lui, andarono a casa, dopo aver ricevuto dal grande il severo comando di non parlare assolutamente a nessuno di lui. Breve fu il tempo che trascorse e di nuovo i cacciatori si recano presso quella grande ed estremamente giovevole preda. Infatti, la seduzione delle sue parole non lasciava che essi si privassero per molto di un tale bene. Ed egli, offrendo loro, attraverso la sua lingua, quei dolcissimi e vivificanti frutti[92], ne dava a loro da mangiare generosamente e li faceva partire con la benedizione. Dal momento che non sopportavano più di tener nascosto presso di sé un tale bene, rendono noto il tesoro e lo annunziano a coloro che non lo conoscevano.

 

NASCITA DI UNA COMUNITÀ MONASTICA

13. Ed essendo stato il beato reso in tal modo manifesto[93], trascinava, per la fama, presso di sé gli amanti di tali beni. Ovunque, infatti, la fama che alta si propagava, come una tromba squillante e sonora, rendeva noto l’uomo e, commovendo sia alcuni tra i vicini, sia quelli lontani, invogliava tutti a correre da lui. Egli, poi, imitando Giovanni Battista[94], del quale realmente emulò il modo di vita, proponeva a coloro che lo frequentavano ciò che riguarda il pentimento e la confessione, dicendo: «Per nessun’altra cosa, figli e fratelli, Dio si rallegra così tanto come per un uomo che si pente e confessa i propri peccati; e testimone di ciò è lui stesso, fattosi uomo per noi. “Non venni – diceva – a chiamare i giusti al pentimento, bensì i peccatori”. Pentiamoci, dunque, carissimi, per le cose per cui nel tempo passato abbiamo offeso, come uomini, Dio, nostro creatore, ed egli, dato che è buono e per natura amante dell’uomo, perdonerà noi che con tutto il cuore ritorniamo a lui, e ci ristabilirà nuovamente nel precedente onore e nella dignità di figli, come il famoso figliol prodigo, tramite il pentimento». Insegnando e consigliando ogni giorno tali cose e altre simili a queste, moveva tutti alla salvezza e li convinceva a vivere secondo le leggi divine[95]. E, da una parte, alcuni dei visitatori, dopo essere stati sommamente beneficati, ritornavano a casa; dall’altra, alcuni, come soggiogati in ceppi[96] dalla dolcezza dell’insegnamento[97], desiderando ardentemente diventare, per il grande, sia compagni di abitazione che di condotta, lo supplicavano di averlo come allenatore e guida verso la salvezza.

Egli, poi, che fervidamente amava la vita contemplativa e ne rivendicava sommamente la bellezza, all’inizio riluttò alla richiesta in quanto non gradita; poi, pensando che colui che vive soltanto per se stesso e che si cura solo che ciò che lo riguarda vada bene, a sé solo procura il giovamento, e invece il rendere migliori gli altri e avere in affidamento la cura delle anime procura un grande guadagno morale ed è il sommo esempio dell’amore per Dio e più grande di ogni ossequio verso di lui, accondiscende[98] a coloro che lo pregavano e, accogliendoli, li guidava alla vita solitaria e si curava in tutti i modi della loro salvezza, dimorando con loro in una casa di preghiera, che molti anni prima era stata costruita lì da un certo monaco Nifone, come dicono, dedicata al nome della Vergine e di Giovanni Battista di Ronconiate[99].

Ed era possibile a volte vedere il santo, come dice il Salmista, che «trasformava il deserto in laghi di acque spirituali e in esso faceva abitare gli affamati, e creava città per abitare, e seminava i campi con l’aratro dell’insegnamento, e piantava vigneti spirituali che produssero raccolto fruttuoso»; infatti, «volse lo sguardo dal cielo il coltivatore delle anime» – per usare di nuovo le parole di Davide – «e li benedisse e si moltiplicarono abbondantemente ed estesero i propri tralci fino al mare e le proprie ramificazioni fino ai fiumi», così che tutta l’iniquità, ossia il padre della menzogna, vedesse e chiudesse la sua bocca, e si lamentasse e piangesse sconsolatamente, e si rallegrassero invece, com’è giusto, i retti intelletti che danzano lieti intorno a Dio, e offrissero al creatore il ringraziamento più fervido e l’inno più solenne.

 

PRODIGIO DEI PANI

14. Ma se io trascurassi in silenzio come là da parte del grande furono compiuti prodigi per grazia divina, farei un’enorme ingiustizia agli ascoltatori. Assolutamente non lo tacerò. Orsù, si presti attenzione al racconto: qui, infatti, conosceremo benissimo la vicinanza dell’uomo a Dio e la confidenza[100].

Mentre una volta, infatti, i suoi discepoli sedevano in quel tempio della Vergine, di cui abbiamo parlato prima, dopo gli Inni mattutini a Dio, e si riposavano un poco dalle fatiche notturne, il padre, iniziando a parlare, disse loro[101]: «Gli inni notturni di gloria a Dio e la lode, fratelli, sono ormai stati da noi compiuti, poiché lui stesso ce ne ha offerto la forza. Dunque, siano per noi pronte le cose necessarie alla Divina Liturgia, cosicché possiamo celebrarla nell’ora stabilita»[102]. Ma, siccome quelli dissero che presso di loro non c’era affatto pane, con cui il santo sacrificio a Dio potesse venir celebrato, subito il padre disse loro: «Non abbiate, figlioli, alcuna preoccupazione riguardo a ciò: infatti, il Dio che per quarant’anni nel deserto ha nutrito il popolo israelita con cibo miracoloso, può donare anche a noi, che ora per lui siamo privi del necessario in questo deserto, ciò che occorre». Avendo detto ciò e avendo aggiunto altre cose riguardo alla provvidenza di Dio che tutto governa, e che il Signore dell’universo non lascia privo della provvidenza neanche un passerotto, smette di parlare; e quelli, passando lungo il colle, meditavano nell’animo[103], com’è abitudine per i monaci, i detti di Davide. Non era ancora la terza ora del giorno, nella quale è consuetudine per i cristiani compiere l’incruenta cerimonia, ed ecco che giunge presso di loro, come per divino mandato, un uomo del vicinato, amante di Cristo, che portava loro pani freschi e fragranti[104], e, dopo aver compiuto grazie ad essi la sacra liturgia ed essersi consolati sufficientemente dell’indigenza, offrirono adeguati ringraziamenti a Dio.

 

RlPETUTA ASPIRAZIONE ALLA VlTA SOLITARIA

15. Così riccamente, da una parte, il padre fu insignito di dote profetica ed aveva una tale capacità di operare grandi prodigi, ma, dall’altra, non voleva, compierli[105], a causa di un eccesso di modestia ed umiltà. D’altronde, dato che molti accorrevano presso di lui, desiderosi di abitare insieme a lui, la schiera intorno a lui cresceva di giorno in giorno e s’infoltiva.

Così, anch’egli si adoprava scrupolosamente di insegnare loro le regole e i canoni ascetici e, oltre alla cura spirituale verso di loro, procurava loro molto premurosamente tutte le cose necessarie e indispensabili per la cura ed il mantenimento del corpo, sebbene si portasse dietro un corpo troppo debole ed assai privo di forze, dato che aveva combattuto[106] in molte lotte ed aveva sofferto per frequenti e svariate malattie. Ma ancora una volta vinceva sull’affetto per costoro il sempre ardente amore della vita contemplativa e del trascorrere il tempo in profonda solitudine, secondo il Salmista, e di conoscere più completamente il Signore[107]. E per questo decise di affidare a Dio i fratelli che stavano con lui e di andare in un altro deserto e lì di godersi di più, con dolcezza, la desiderata quiete contemplativa e di declinare la gloria tra gli uomini, come quella che è capacissima di corrompere la vita secondo virtù.

 

APPARIZIONE DELLA VERGINE CHE ESORTA BARTOLOMEO

A FONDARE UN MONASTERO

16. Volgendo queste cose nella mente, era tutto rivolto verso la vita eremitica[108] e vagheggiava le boscaglie e immaginava le selvose contrade dei monti. Ma la Genitrice del comune Salvatore e Signore di tutte le cose[109], prevedendo, come è verisimile, la moltitudine di coloro che si sarebbero salvati tramite lui, una notte, avvicinatasi al santo che vegliava e passava la notte intento alla abituale preghiera, illuminata di luce soprannaturale e divina e tenendo tra le braccia il Dio che da lei si era incarnato, gli raccomandava le seguenti cose: «Bartolomeo, fai cessare, per ora, l’impulso verso la vita contemplativa e il desiderio di intrattenerti in inaccessibili deserti. Infatti, bisogna che tu rimanga qui e che edifichi per me in questo luogo una scuola di anime[110], nella quale molti, per opera tua, saranno fatti degni della salvezza».

Essendo stato questo santo padre così esortato da parte della Madre di Dio, abbandona il proposito della vita contemplativa e, come servo assennato ed obbediente[111], si dedica totalmente alla fondazione del monastero, confidando nella protezione di Colei che lo esortò e nella potenza del di Lei Figlio e Dio, il quale in breve conduce a buon termine quest’opera, avendo spinto molti ad accostarsi al santo e a consacrare a lui sufficienti spese per le costruzioni.

 

L’AMMIRAGLIO CRISTODULO E ALTRI COLLABORATORI

17. E di costoro il primo collaboratore fra gli altri e nel contempo il più fervido fu l’Ammiraglio Cristodulo[112], uomo che allora poteva molto presso i sovrani terreni e che nei confronti di questo nostro padre e vero suddito del sovrano celeste possedeva grande calore di amore e dipendeva totalmente dagli ordini e dalle esortazioni di lui, come è possibile sapere, per chi lo desidera, dalle lettere mandategli da questo padre glorioso[113]. Per mezzo di quest’uomo amante di Dio, dunque, il Signore, che sempre glorifica coloro che gli rendono gloria, avendo fatto conoscere il proprio servitore al re Ruggero, pio e cristiano[114], e ai suoi congiunti per stirpe, convince le loro anime ad offrirgli riccamente il necessario per la costituzione del monastero e a divenire suoi collaboratori ed aiutanti per questo con tutto l’impegno. Quelli, dopo che conobbero l’uomo ed appresero la sua virtù e quanto grande facoltà aveva di parlare a Dio, tanto lo venerarono e tanto gli erano devoti ammirando la sua vigorosa schiettezza[115] nei discorsi, che, avendo affidato al grande non solo denari e quanto possedevano di sostanze e averi, ma anche se stessi, propongono lui come tramite verso Dio e lo rendono protettore delle proprie anime, quasi anch’essi volgendo la parola ai detti di Davide: «Da noi i tuoi amici sono stati molto onorati, o Dio».

 

MOLTIPLICAZIONE DEI MONASTERI

18. Da questo momento, il santo era diventato così noto[116] a tutti e tanto si era affollato il monastero da lui istituito, che da esso furono trapiantate molte, quasi innumerevoli residenze di monaci[117], ordinate ed amministrate con le regole divine e i canoni da lui proposti, e molti degli asceti che erano in esse furono stimati degni della dignità arcivescovile e fu affidata loro la tutela pastorale[118]; non solo, ma anche molti capi e pastori[119] di altri monasteri, emulando la divina condotta di vita di quello, dopo aver abbandonato il comando, andavano presso di lui e preferivano, verisimilmente, come privo di pericolo e più sicuro l’essere guidati da quello piuttosto che guidare altri[120]. Tale fu quella famosa e veneranda coppia[121], Cosma e Isacco, uomini veramente buoni e santissimi e pieni di ogni buona dote. Costoro, essendosi affidati, come sembra, per l’estrema umiltà e modestia[122], a questo sommo padre, collaborarono sommamente con lui per la crescita del monastero[123], essendo divenuti per lui mani e braccia e quale altro tra le membra sia onorevole e necessario.

 

VISITA DEL VESCOVO POLICRONIO E DI CIRILLO;

BARTOLOMEO VIENE ORDINATO SACERDOTE

19. Una volta anche il beato Policronio, l’allora vescovo della città di Ginecopoli[124], avendo appreso dalla fama ciò che lo riguardava, desiderava vedere anche il suo volto e gustare i suoi detti e le sue preghiere. Quindi, senza indugio alcuno, va da lui insieme al santo Cirillo[125], di cui la narrazione ha fatto menzione sopra. Il pio Bartolomeo, accolti costoro con piacere, si rallegrava di loro e si beava nell’animo, considerando la loro presenza un vantaggio inaspettato e più preziosa di ogni altra cosa di valore. Ed essi, constatando che nella realtà il santo era superiore alla fama, si rallegravano della virtù e della santità di lui.

Dunque, un giorno, sedevano questi beatissimi uomini insieme al venerando e discorrevano tra loro sugli argomenti che si addicevano a tali uomini; dal momento che mai il padre era stato insignito della dignità sacerdotale, ritenevano molto caldamente che fosse giusto che egli accettasse l’ordinazione a sacerdote[126]. Ed egli, che era infastidito anche dalla sola stima degli uomini e che accoglieva molto pesantemente tali discorsi, dal momento che considerava se stesso non adatto ad una tale dignità, cercava – uomo davvero venerando e santo qual era – di sviare l’argomento e differiva il sacerdozio in tutti i modi, dicendo: «Chi sono io[127], miei onorevoli signori e padroni, per raggiungere una tale dignità?». Ma quelli, non ignorando il motivo del rifiuto, riprendendo insieme di nuovo il discorso, dissero: «Sappiamo bene, carissimo figlio, che l’eccesso di modestia ti induce a pensare tali cose di te stesso. Ma ecco, noi ti testimoniamo la volontà di Dio e vogliamo che la tua modestia sappia che non senza ispirazione divina ti costringiamo a ciò. Orsù, sappi bene che questo è stato per te stabilito dall’onnipotente e santo Spirito». Con siffatti consigli e suggerimenti di questi uomini, dunque, oltre che con le molte preghiere sia dei propri discepoli che dei confratelli, i quali, anche, bramavano continuamente di essere benedetti dalle sue sante mani, il beato, che era stato convinto a stento, riceve la consacrazione al sacerdozio da parte del celebre Policronio, nel tempio del santo profeta e prodromo Giovanni Battista. E così dal seggio sacerdotale loda il Signore, lui che era degno di molto di più.

 

VISITA DEI GENITORI E LORO RINUNCIA AL MONDO

20. Non passò molto tempo, e la fama di lui arriva anche ai suoi genitori[128]. Essi, non sopportando più di porre indugi alla partenza per andare da lui, dato che erano punti[129] dal naturale affetto, vanno da lui; e, avendo ammirato dolcemente il carissimo figlio e avendo ascoltato i detti che uscivano da quella dolce bocca[130], obbediscono ai suoi divini ammonimenti e rinunziano, com’è giusto, alla vanità del mondo. E appena ebbero ricevuta da parte del figlio grande ricompensa per il suo allontanamento dal mondo, assai di cuore abbracciano la vita monastica, distinguendosi anche splendidamente in essa, sotto la guida di questo buon figlio e padre nello spirito. Giunti ad una bella vecchiaia, emigrano verso il comune Padre e Signore, avendo scambiato con l’eternità la caducità del mondo. Così, insomma, il santissimo ricambiò i genitori e tali ricompense rese loro in cambio[131] della nascita corporale, essendo diventato genitore nello spirito per loro che lo avevano generato nella carne. Non solo: ma trascinò anche molti altri dei suoi parenti a questo modo di vita angelico e santo.

Ma noi dobbiamo andare avanti nel discorso e raccontare cose degne di ricordo e narrazione[132].

 

VIAGGIO A ROMA, DA PAPA PASQUALE II

21. Una volta, dopo la fondazione del monastero, fu necessario per questo santo padre recarsi all’antica Roma[133], per procurare con la bolla[134] del papa, che era Pasquale, la necessaria indipendenza al monastero. E, sia allo stesso papa, sia agli uomini scelti del clero, egli apparve tanto amabile e venerabile e così tanto ammirarono la sua saggezza e si compiacquero per la sua arte dei discorsi[135], che gli concessero il più grande onore ed esaudirono benevolmente tutte le sue richieste. Temettero la vista di quello e i suoi giudizi anche le crudeltà dei tiranni[136], e quanti colpevoli avevano in catene pronti ormai per lo strazio dell’impiccagione[137], li consegnavano in dono a lui con grande letizia, avendo liberato costoro dalla sentenza di morte. Il fatto che, dunque, l’uomo era da tutti ammirato e venerato, splendendo con uguale fulgore sia nel modo di vita, che nei discorsi, è sufficientemente chiaro dalle cose dette. Ma lo renderà chiaro non meno anche quello che verrà detto ora.

 

OPERE DI CARITÀ SPIRITUALI E CORPORALI

22. Infatti, certi uomini sanguinari e briganti[138], nutriti sin da piccoli di rapine ed omicidi di congiunti, non appena ebbero visto[139] la sua figura, colpiti dal divino bagliore dello spirito che risplendeva da essa, tremanti e pieni di paura cuddero ai suoi piedi. E mostrandosi come chi si pente, sia nelle parole che nel contegno, si diedero, da quel momento in poi, ad una vita giusta. Così, il servo di Cristo Bartolomeo divenne procuratore di salvezza per tutti coloro che lo avvicinavano: per alcuni, tramite il suo dolcissimo insegnamento, con il quale, se scorgeva in quelli che aveva vicino un carattere spinoso e senza frutti, lo svelleva dalla radice e lo ripuliva e seminava[140] in loro modi di vita ottimi e graditi a Dio; per altri, poi, attraverso la compassionevole elargizione degli averi, con la quale liberava gli indigenti dalla pressante povertà con grandissima compassione. Era infatti, quant’altri mai, estremamente compassionevole nell’animo nei confronti di tali persone.

Consolando, poi, con parole e opere quelli che erano caduti in disgrazie o in irregolarità di vita, o in difficoltà, procurava a ciascuno la cura e l’aiuto adatti. Se una volta veniva a sapere di alcuni logorati da malattie corporali, mai si mostrava incurante riguardo a loro, ma, per quanto era possibile, dava loro conforto e, per dirla in breve, richiamando assai opportunamente al coraggio tutti quelli che erano fiaccati da uno scoramento di qualsiasi genere, li addolciva con la dolcezza della lingua.

Tali, infatti, sono le anime dei giusti: sempre inclini alla compassione, si adoprano ad imitare la bontà di Dio, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, e non sopportano che qualcuno resti privo della loro beneficenza, ma divenuti anch’essi tutto a tutti, come dice san Paolo, mandano a tutti i raggi della beneficenza.

Così anche questo padre, imitatore di Dio, vinto nell’animo[141] da compassione, avendo costruito, nell’ambito del monastero, case adatte all’accoglienza degli ospiti[142], e avendo approntato in esse, con grandi spese, le cose necessarie all’uso degli ospiti, curava così benignamente i visitatori, offrendo ad ognuno le cose opportune, che nessuno di quelli che andavano là restava privo dell’adeguata suppellettile e della accoglienza.

Basta questo a dimostrazione[143] dell’amore e dell’intimità di questo grande padre con Dio; ma la narrazione vuole aggiungere anche altre cose a quelle dette, per nulla inferiori a quelle già narrate.

 

CARESTIA IN CALABRIA: SECONDO MIRACOLO DEI PANI

23. Una volta, essendo sopraggiunta la carestia[144] in Calabria, e rifugiandosi tutti gli indigenti nel monastero di costui, come in un comune e salvifico porto, con la speranza di trovare conforto del male incalzante, questo affettuosissimo padre, imitatore perfetto della bontà di Dio, sapendo che il monastero era in difficoltà e non era sufficiente a nutrire tanta folla di gente, e non sopportando d’altro canto di vedere senza conforto persone avvilite e sfinite dalla mancanza delle cose necessarie, si abbandonava alle preghiere per tutta la notte. Quanto grande fu la confidenza di quest’uomo con Dio e la grazia di cui fu degnato![145] Verso mattina, procurava ai servi le dispense del pane piene di farina, e talvolta anche di pani pronti. E quindi ordinava loro di fornire abbondantemente gli indigenti delle cose necessarie, a loro che volgevano lo sguardo alle inesauribili compassioni di Dio, il quale, per dirla secondo il santo Davide, aprendo la mano, riempie ogni vivente di benevolenza.

 

LA BARCA DEL MONASTERO VIENE PRESA DAGLI AGARENI

E POI MIRACOLOSAMENTE RILASCIATA

24. Questo è ciò che riguarda quell’episodio; però, non è degno di passare senza menzione neanche un altro fatto, capace di istillare negli ascoltatori molto piacere e, nel contempo, molto giovamento[146]. Andò così: una volta, essendo stata presa da alcuni Agareni la barca del monastero[147], coloro che erano a bordo si aspettavano di subire da parte di quelli le cose che è verisimile che i cristiani subiscano da parte di costoro[148]. Quando queste cose accaddero ai fratelli, era il settimo ed ultimo giorno della settimana, il ventitré del mese di luglio[149], il giorno in cui il grande festeggiava molto splendidamente con i discepoli la onorata memoria del santo vescovo e martire Apollinare. Quelli che erano sulla nave per poco non rischiavano gli estremi pericoli da parte di quegli atei pirati, ma il padre, che stava continuamente in pena, come un padre per i figli, e supplicava Dio per loro, apprese da lui l’avversa circostanza che allora li opprimeva; e allora, avendo fatto radunare subito i fratelli nella chiesa[150] e avendo cantato con quelli i Salmi della nona ora a Dio[151] – ormai, infatti, il giorno declinava al tramonto –, rivolge una comune preghiera a Dio, amico degli uomini, per i fratelli in pericolo. E Dio, avendo subitamente esaudito – infatti gli occhi del Signore sono sui giusti, come canta il santo David, e le sue orecchie sono volte alla loro preghiera –, prodigiosamente li liberò dalla pena che li opprimeva e li restituì salvi a colui che li aveva richiesti, non solo senza che avessero subito nulla delle cose che ci si aspettava, ma anche avendo ricevuto regali da parte degli atei.

Però il racchiudere nella narrazione tutti i fatti miracolosi da lui compiuti non solo è per noi impossibile, ma certo la narrazione, prolungata in lungaggini, verrebbe dai più trovata indigesta[152]. Perciò, dopo aver aggiunto poche cose a quelle dette, ci incammineremo verso la sua morte.

 

VIAGGIO A COSTANTINOPOLI E INCONTRO CON ALESSIO ED IRENE COMNENI

25. Costui, dato che i suoi compagni di ascesi avevano bisogno di libri sacri per lo studio e la comprensione[153] delle sacre scritture – infatti, anch’essi erano, per imitazione del padre, molto studiosi e laboriosi in questo campo, nell’esaminare e rintracciare accuratamente ogni senso scritturale –, ed inoltre era necessario anche che quel tempio della Vergine Santissima che aveva costruito venisse ornato di suppellettili sacre e immagini venerande, non soffrendo nessuna paura e viltà per la lunghezza e l’impervietà della strada[154], avendo preso con se alcuni fratelli, che sapeva capaci riguardo alle fatiche di viaggio, parte verso la sovrana delle città, la nuova Roma. Ed essendosi incontrato con gli imperatori amanti di Cristo, Alessio ed Irene – questi, infatti, allora guidavano le redini dell’impero dei Romani con rettissima fede –, ottiene una splendida accoglienza da parte loro e di tutto il senato e viene ricolmato, da parte di tutti, di molti e ricchi doni, sia di venerande icone sia di libri e suppellettili sacre, grazie alla propria virtù che gli apriva la strada ed induceva a ciò le anime di quelli.

 

BASILIO CALIMERIS AFFIDA A BARTOLOMEO

IL SUO MONASTERO SULL’ATHOS

26. Allora, anche uno di quelli che avevano grande autorità ed era vicino agli imperatori per saggezza ed intelletto, di nome Basilio e di cognome Calimeris[155], avendo concepito un amore tanto più grande degli altri verso questo santo padre, non contento delle altre beneficenze, di cui lo aveva ricolmato generosamente, con drappi preziosi e altri doni, fece anche un’aggiunta a queste cose, data, come sembra, la sua grande religiosità: e quel monastero che possedeva sul Monte Athos[156], dedicato al nome del nostro padre tra i santi Basilio[157], rivelatore di cose celesti, glielo regalò, ritenendo molto verosimilmente di essere da lui beneficato, piuttosto che di offrire beneficenza. E avendo il santo accettato il governo di quello, poiché era stato scongiurato dalle sue molte suppliche, divenne autore di molto giovamento per gli asceti di quel monastero, dirigendoli verso il meglio con le parole e le opere[158].

Dal momento che egli doveva ritornare indietro di là, affinchè il suo gregge spirituale che era qua[159], a lungo privato della sua cura, non fosse enormemente danneggiato, avendo fatto radunare i monaci e avendo fatto venire quello che tra loro primeggiava nella vita secondo Dio, lo pone come reggente nel monastero al posto suo[160]; e da allora questo monastero rimase sottoposto all’illustre padre per lungo tempo[161], e per questo, fino ad oggi, come si dice, viene chiamato dagli abitanti del luogo il monastero del Calabrese[162].

 

BARTOLOMEO RIPARTE CARICO DI DONI,

DOPO AVER FATTO RACCOMANDAZIONI A TUTTI

21. Queste cose ebbero questo corso.

Il padre, poi, dato che pensava al ritorno, anzitutto consigliava molte cose agli imperatori e a quelli che erano al potere riguardo alla giustizia e alla clemenza verso i sudditi e alla buona elargizione, e riguardo al non avere per niente in considerazione la superbia del potere imperiale e la gloria derivante da esso, ma di anteporre, con tutta la forza, i beni dei cieli e di guadagnarsi il regno di lassù con la benevolenza e la bontà verso i sudditi; poi, dopo averli ringraziati adeguatamente per le cose di cui era stato da loro beneficato, ed aver preso accordi con loro, partito da lì, fa ritorno al proprio monastero. E, dopo averlo ornato con gli oggetti sacri e le divine icone che aveva riportato e dopo aver edificato case di preghiera a Dio, non molto distanti dal monastero – avendo così consacrato quel luogo che prima era dimora di spiriti impuri[163] –, rivolgeva senza tregua, insieme ai confratelli, l’adeguata glorificazione a Dio. E si affaticava per la cura di quelle anime, esortando tutti a resistere coraggiosamente agli inganni del malvagio e a sopportare le fatiche dell’ascesi senza viltà, e a non scoraggiarsi davanti ai dolori di essa, ma a rafforzarsi piuttosto con la speranza delle ricompense e a proiettarsi così ogni giorno in avanti; e a non mostrare indugio nell’incontrare Dio attraverso la preghiera[164]: ma certo, dice il santo apostolo, in ogni momento e luogo questa appunto è l’opera utile all’anima e salvifica: abbracciare con tutto il cuore la preghiera.

Esortava poi coloro che pregano a non muovere solo le labbra: questo infatti è prova di mancanza di attenzione e non solo non procura alcun giovamento, ma procura anche dannazione. È necessario, dunque, che colui che veramente prega, per prima cosa concentri da ogni parte il pensiero e così fondi solidissimamente la mente su ciò che sta per uscire dalle labbra. Infatti, è assurdo, diceva, da una parte richiedere beni a Dio e dall’altra non fare in modo accurato le richieste. Se, infatti, stando davanti ad un sovrano mortale, mostriamo timore sia nel contegno, sia nello sguardo, sia in tutto il comportamento, non dovremmo forse essere più timorosi, parlando a quella più alta maestà che supera smisuratamente ogni potenza?[165]

Servendosi di tali argomenti per esortare i fratelli, rendeva loro leggera l’ala della virtù e li faceva volare sopra le trappole del malvagio. Infatti, la sua parola era dolce più del miele, seducente o, per dire più rettamente, condita di sale divino e capace di affascinare le anime di volgerle alla virtù; ma anche, la sua indole è sempre controllata e non dissipata: silenziosa esortazione era per coloro che volevano prestare attenzione e trascinava in men che non si dica verso la compunzione coloro che guardavano.

A questo punto la narrazione ha qualcosa di difficile da dimenticare, non piccola per il bene degli ascoltatori e per la gloria del santo. Bisogna, quindi, andare a raccontare le cose degne di memoria

 

DUE MONACI ACCUSANO BARTOLOMEO DI ERESIA,

DAVANTI A RUGGERO IL GRANDE

28. Il santo, abbiamo detto, aveva intorno a sé moltissimi monaci; e due di questi monaci del monastero di Sant’Angelo di Mileto[166], osservando il modo di vita virtuoso del nostro santo padre Bartolomeo e gli edifici che aveva costruito e l’oro che a lui affluiva da tutte le parti, si logoravano d’invidia, come Erma ed Ermogene nei confronti di Paolo; e, partiti velocemente, come anche velocemente avevano buttato fuori il ricettacolo d’invidia che nutrivano dentro, si recarono dal santissimo re, e ordirono insieme inganni e calunnie contro il santo, dicendo: «Santissimo re, viva tu per un secolo. Il monaco[167] Bartolomeo, che voi conoscete, è un fraudolento e tutto l’oro e l’argento che gli viene dato, lo offre ai suoi parenti e lo sperpera insieme ai suoi consanguinei in dissolutezza e in turpi azioni; e inoltre è un eretico».

Avendo il santissimo re Ruggero il Grande sentito tali cose ed essendosi meravigliato delle cose dette[168], subito fu vergata una lettera contro il santo, che diceva di andare al cospetto del re, nella città di Messina. Il santo, avendo sentito ciò, si mise volentieri in viaggio per andare dal re; e il re, dopo che lo vide, fece venire al suo cospetto i calunniatori.

A questo punto, prestateci un attento orecchio: infatti il racconto ha un che di grazioso.

Presentatisi, dunque, come abbiamo detto, sulla tribuna, davanti a tutto il Senato, i calunniatori calunniarono apertamente il santo. Ma egli non contestò loro neanche una parola; disse anzi che tutto stava così come essi dicevano: questo infatti era dovuto all’estrema bontà e, come il mio Cristo stava di fronte a Pilato, mite come un agnello dinanzi a colui che lo ha tosato, così anche il santo stava davanti al re e a tutto il Senato. E non c’era da meravigliarsi: infatti era suo autentico discepolo.

 

CONDANNA DI BARTOLOMEO AL ROGO E INASPETTATO PRODIGIO

29. Avendo il re sentito che il santo aveva ammesso tutte le calunnie portate contro di lui, sorpresa ed ira lo presero, e fu espresso[169] il voto contro il santo: che venisse dato alle fiamme. Subito fu portato un mucchio di fuscelli e di legna, e i servi stavano pronti ad adempiere gli ordini. Il santo, che era in tale situazione, disse: «Santissimo re, una preghiera vi faccio, infatti sono un sacerdote, anche se peccatore e indegno: che mi lasciate celebrare la sacra liturgia e così poi venga eseguito l’ordine».

Il re diede ascolto al santo: subito viene data al santo la veste sacerdotale e in una chiesa di S. Nicola della Punta, vicino alla città di Messina[170], andò il re con tutto il Senato, portandovi anche il santo in catene. Dopo che il santo si fu vestito ed ebbe dato inizio al sacro rito, Dio che glorifica i suoi servitori e che non abbandona coloro che sperano in lui, anche qui compie un sommo prodigio, analogo a quello compiuto per gli Israeliti. Essendo la liturgia iniziata, come abbiamo detto, ed essendosi, poi, conclusa, mentre veniva sollevato il corpo mistico, appena il re entrò nel tempio per vedere ciò, trovò – lui e molti magnati – dietro al santo una colonna di fuoco che si alzava dai piedi del santo fino al cielo e angeli che lo servivano. Oh, miracolo[171]! Chi potrà mai raccontare le grandezze del Dio che rende così gloriosi coloro che lo glorificano?

E subito brivido e stupore prese[172] tutti quanti e, alla notizia, tutta la città dei Messinesi fu turbata e tutti, uomini e donne, vecchi e giovani, schiavi e liberi, e gente di ogni età si gettarono di un sol animo ai piedi del santo, chiedendogli grazia. E il santo re e tutti i magnati, con le braccia incrociate, inginocchiatisi, si rotolavano davanti ai piedi del santo, e chiedevano perdono[173] dicendo: «Santo padre, perdonaci: infatti dicevamo e facevamo contro di te tutto nell’ignoranza della realtà». Il santo allora fece sollevare tutti e dopo averli benedetti[174] li assolse. Il re, poi, dopo aver chiamato i calunniatori, li volle bruciare. Ma il santo glielo impedì.

 

FONDAZIONE DEL MONASTERO DEL S. SALVATORE A MESSINA

30. E da allora il re considerò il santo come un padre, dicendogli: «Onoratissimo, padre, nel presente luogo fu accesa una pira contro di te. Disponi di cosa dovrà esserci qui». Egli decise che vi fosse costruito un altare e che vi sorgesse un tempio col nome del Salvatore e il re dispose subito che venisse fatto un grandissimo monastero[175], che anche realizzò, avendo destinato ad esso ricchezze, possedimenti, materiali, sacri cimeli. Fu costruito un grandissimo monastero con il concorso del santo[176]. E così fu. Egli, infatti, giunto per disposizione del santo re nelle zone di Calabria, nell’altro suo monastero, fece chiamare il santissimo ieromonaco Luca ed altri dodici monaci degni di stima e uomini pii dal suo gregge, dando loro la metà dei libri, la metà delle iconostasi e altre suppellettili e molte ricchezze. E, dopo aver scelto e posto il santo Luca come categumeno[177] del suddetto nuovo monastero del Salvatore[178], e dopo averlo benedetto, mandò tutte le cose restanti per la fondazione e per l’erezione del detto monastero al monastero stesso.

Chi desidera fare ricerche, le faccia; ma per noi la narrazione è giunta, procedendo a poco a poco, alla morte del beato. Dobbiamo, dunque, anche noi volgerci ad essa, e quella che per lui è la fine della vita sia per noi la fine del racconto.

 

BARTOLOMEO PREVEDE LA PROPRIA MORTE E RIVOLGE AI SUOI MONACI

UN DISCORSO DI CONGEDO. TRAPASSO E SOLENNI ESEQUIE.

31. Avendo, dunque, il beato così adornato la propria vita con opere buone ed essendo divenuto per i posteri immagine e modello vivente di vita angelica, ed avendo avuto familiarità con le molte tentazioni che, all’inizio della vita secondo Dio, lo avevano assalito da parte degli spiriti impuri, in seguito poi anche da parte di coloro che sembravano essere suoi discepoli e familiari e, ciò che dice il santo David, da parte degli uomini della sua pace e che mangiavano il suo pane; e, avendo dissolto queste tentazioni, come una tela di ragno, con pazienza, nella fede nel Signore[179], quando ormai stava per partire dalle cose di qua, o piuttosto per andare verso la città celeste, per ottenere le ricompense dei dolori e dei sudori di qua, cade in una lieve malattia. E prevedendo, grazie al divino spirito che abitava in lui, il giorno della sua morte che ormai si avvicinava, consumava la malattia nel ringraziamento a Dio e in inni di commiato.

Quando poi giunse il giorno in cui festeggiamo il santo Trapasso della purissima Madre e Genitrice di Dio, avendo radunato la santa moltitudine che era sotto la sua protezione, e avendo detto loro le cose riguardanti la sua dipartita, rese noto chi fosse degno di ricevere la direzione dei fratelli: quell’uomo era il santo Luca[180], colui che più di tutti quelli che erano nel monastero si distingueva nella vita per Dio e che conservava in se stesso limpidi i modelli e i caratteri di questo grande padre. Avendo, dunque, chiamato costui ed avendogli imposto le mani realmente divine e sante, gli augurò una copiosa forza del buono spirito e mostrandosi benevolo con lui, come anticamente il profeta Mosè con il Nabita, o come in seguito con Eliseo l’auriga Elia, gli affida il comando dell’Israele spirituale che era sotto di lui. In seguito, poi, rivolto se stesso con gioia al beato cammino, dato che già immaginava attraverso la speranza i beni e quell’eterno piacere e gioia nei cieli, che sappiamo che Dio preparò per coloro che lo amano, e volti gli occhi con serenità verso i presenti, li guardava amorevolmente e, respirando ormai poco ed essendo in stato disperato, tutto proteso verso la dipartita e verso le cose da lui da tanto tempo desiderate e preparate, quando vide costoro vinti dal dolore e rotti in lacrime manifeste e che sopportavano dolorosamente il distacco[181] – chi è, infatti, così duro di cuore e stolto, da far passare senza lacrime la separazione da un padre, e da questo padre? – disse: «Non accompagnerete così, o carissimi figli, con pianti il vostro padre, ma piuttosto con preghiere e suppliche a Dio e invocazioni. Questa, infatti, è la cosa più vantaggiosa di tutte, sia per voi sia per me. Se poi, anche adesso che sono agli ultimi respiri, come vedete, e che sto sul punto di allontanarmi, preferite soccorrermi, quest’ultima grazia, v’invoco, offrite al padre vostro: ricordate per sempre le ammonizioni verso di voi e badate a voi stessi e regolate ciascuno i propri comportamenti; siate pronti alla partenza da qui, continuamente memori dell’inevitabile debito della morte: ricorda, infatti, dice, la tua fine, e in eterno non peccherai. Non c’è, infatti, uomo, come anche presso il santo Davide abbiamo imparato, il quale vivrà e non vedrà la morte».

Avendo così, dunque, fatto cessare il lamento e le lacrime a quelli che gli stavano attorno ed avendo espresso pensieri e conversato sull’anima e sulla vita futura ed avendo ammonito ciascuno a dovere, come se stesse, con parole divine, per trapassare dalla presente vita, e poi, dopo aver predetto[182], ispirato da Dio, alcune delle cose che sarebbero accadute nel monastero, e dopo aver augurato la salvezza a tutti insieme, affidato a Dio ed alla Madre di lui il gregge, pose l’anima pura e realmente santa nelle mani di Dio; era il diciannove del mese di agosto[183]. E il suo corpo dedicatosi all’ascesi e santissimo, accompagnato da inni appropriati e fiaccole, rivestito dalle sante mani della sua sacra fraternità, fu posto nel tempio della Purissima Vergine da lui edificato[184], a gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’unica e suprema divinità, a cui si addice ogni gloria, onore, preghiera e magnificenza, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amìn.

 

Il Bios di san Bartolomeo da Simeri: edizione critica, traduzione e commento,
in Rivista di Studi bizantini e neoellenici, n.s. 33 (1996), Roma 1997, pp.193-274.

 

 

[1] Cf. B. M. Foti, Il monastero del S.mo Salvatore in «lingua phari», Messina 1989, pp. 95-119; per una dettagliata descrizione del codice, cf. A. Turyn, Dated Greek Manuscripis of the Thirteenth and Fourteenth Centuries in the Libraries of Italy, I-II, Urbana-Chicago-London 1972, I, pp. 110-112; A. Ehrhard), Überlieferung und Bestand der hagiographischen und homiletischen Literatur der griechischen Kirche, III, Leipzig 1952, pp. 443-450.

[2] A. Mancini, Per la critica del Bios di Bartolomeo di Rossano, in Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Letteratura e Belle Arti, nuova serie 21 (1907), pp. 491-504.

[3] O. Caietanis, Vitae Sanctorum Siculorum, I-II, Panormi, 1657.

[4] Acta SS. Septembris, VIII, Antverpiae 1762 pp. 810-26.

[5] Acta SS. Septembris, VIII cit., p. 795.

[6] Vedi sopra, nota 2.

[7] Cf. H. Delehaye, Les passions des martyrs et les genres littéraires, Bruxelles 1966 (= Subs. hag. 13B), pp. 133-165.

[8] Cf. L. Spengel, Rhetores graeci, tom. I-III, Lipsia 1853-1856, rist. anast. Francoforte 1966, t. III, pp. 331-446.

[9] Es.: par. 11, 1-3; par. 14, 1-2; par. 24, 1-3; par. 27, 39-41.

[10] Es.: par. 14, 2-3; par. 21, 15; par. 22, 32-34; par. 27, 1.

[11] Es.: par. 1, 26-28.

[12] Es.: par. 11, 13; par. 15, 5; par. 16, 6; par. 16, 13-14.

[13] Es.: par. 3, 12; par. 6, 3; par. 7, 2; par. 28, 20; par. 31, 39-40.

[14] Es.: par. 18, 8-9; par. 31, 23-24.

[15] Es.: par. 7, 6; par. 11, 12; par. 28. 5-6; par. 28, 22; par. 31, 7; par. 31, 22-23: sono tratte a preferenza dai libri sacri e costituiscono uno degli ornamenti fondamentali della narrazione letteraria. Vengono utilizzate molto spesso dimostrare la grandezza del personaggio a cui sono attribuite. È curioso notare che le uniche due similitudini non desunte dalla Bibbia sono entrambe riconducibili al mondo degli insetti: un’ape ed una tela di ragno, animali familiari e del quotidiano.

[16] Es.: par. 10, 4; par. 16, 3. Era una figura molto cara ai retori, poiché dava allo stile un che di manierato e prezioso: cf. H. Delehaye, Les passions des martyrs... cit., pp. 150-152.

[17] Es.: par. 21, 8-9.

[18] Es.: par. 25, 6.

[19] Es.: par. 30, 19.

[20] Es.: par. 30, 13.

[21] s.: par. 4, 3-4; par. 15, 2-3; par. 20, 11-12; par. 20, 14-15; par. 26, 9-1...

[22] Es.: par. 5, 1.

[23] Es.: par. 2, 10-11; par. 31, 32-33.

[24] Es.: par. 3, 8; par. 22, 18-19.

[25] Cf. H. Zilliacus, Zur stilistischen Umarbeitungstechnik des Symeon Metaphrastes, in Byzant. Zeitschr. 38 (1938), pp. 333-350.

[26] Cf. W. Meyer, Der accentuirte Satzschluss in der griechischen Prosa von IV. bis XVI. Jahrhundert, Göttingen 1891.

[27] Esiste in Calabria l’espressione «sei di Simeri?», per intendere la oscura ed insignificante consistenza di quella provenienza.

[28] Cf. S. LUCÁ, I Normanni e la «Rinascita» del secolo XII, in Arch. Stor. di Calabria e Lucania 60 (1993), pp. 1-88.

[29] M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza, Roma 1982² (=Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi 18).

[30] Cf. F. Chalandon, Les Comnène: études sur l’Empire Byzantin aux XIe et XIIe siécles. Vol. I: Essai sur le regne d’Alexis Comnene (1081-1118), Paris 1900, p. 2S8.

[31] Cf. T. minisci, Riflessi studitani nel monachesimo italo-greco, Roma 1958 (= Orient. Christ. Anal. 153), pp. 215-233, precisamente p. 220.

[32] Cf. S. LUCÁ, I Normanni... cit., p. 16. 

[33] O. Caietanis, Vitae SS. Siculorum... cit., t. II, p. 136; F. Matranga, Catalogo descrittivo del Cartofilacio cioè della riunione dei codici geci del Monastero del SS. Salvatoredell’Acroterio di Messina, già RR.PP. Basiliani esistente nella Biblioteca della R. Università degli Studi di Messina, 1885; Rossi, Archivio messinese, II (1902), fasc.2-3.

[34] A. Mancini, Per la critica... cit., p. 494.

[35] P. Batiffol, L’abbaye de Rossano: contribution à l’histoire de la Va…, Paris 1891, p. 3.

[36] BHG 236. Lo si legge ora in: Filagato da Cerami, Omelie per i Vangeli do­menicali e le feste di tutto l’anno a cura di G. Rossi Taibbi, I, Palermo 1969 (Istit. Sicil. St. Bizant. e Neoell., Testi 11), pp. 232-238.

[37] Cf. A. Mancini, Per la critica... cit., p. 495.

[38] Foti, Il monastero del S.mo Salvatore... cit., p. 62.

[39] Quelle che esporrò qui sono semplici osservazioni che sarà necessario sviluppare con ulteriore studio al riguardo.

[40] Cf. P. Canart, Le livre grec en Italie méridionale sous les règnes normanne souabe: aspects matériels et sociaux, in Scrittura e civiltà 2 (1978), pp. 103-160.

[41] Ed. Rossi taibbi, p. 236, par. 10.

[42] Ed. Rossi taibbi, p. 236-237, par. 10.

[43] Ed. Rossi taibbi, p. 237, par. 13.

[44] Ed. Rossi taibbi, p. 237-238, par. 13.

[45] Questo Proimion è caratterizzato da uno stile elevato e molto curato, da periodi ariosi e simmetricamente costruiti, con proposizioni comparative artico­late e costruite ad intarsio (1, 4-9: καθάπερ... ούτω; 1,18 δίκη ηλίου...), ricco di antitesi e di alta cura lessicale. Motivo centrale è il valore edificante dell’agiografia, intesa come genere letterario capace di fornire ai lettori modelli comportamenta­li. La «vita degli uomini pii», che procura ωφέλεια (r. 1; r. 16), κέρδος (r. 1) ed è ψυχοφελής (r. 17), αρετής υπόδειγμα (r. 27-28), προς το κρείττον επίδοσις (r. 16), viene contrapposta alle «narrazioni di imprese mitiche di eroi», che, al contrario procurano μηδέν ωφέλιμον (r. 22), bensì addirittura βλάβη (r. 23), in quanto nar­rano ανοσιουργίας e αισχράς πράξεις (r. 24).

[46] πολέμων και τροπαίων, παρατάξεις, συμπλοκή πολεμίων, ορμάω, ορμή, ανδρικώτατα (r. 5-12) sono termini che appartengono al campo semantico della guerra e ci riconducono immediatamente alle atmosfere delle narrazioni epiche; αγώνας, απλούς (si riscontra sia la forma al maschile che al neutro), δρόμους, παλαίσματα (r. 9-11) appartengono invece alla terminologia propria della sfera gin­nica. Il frequente impiego di questi termini accostati ad aggettivi che determinano e denotano il contesto cristiano (αποστολικούς, μαρτυρικούς, ασκητικά) si diffuse nella letteratura agiografica a partire dagli Acta Martyrum, dove si assiste ad uno sviluppo di idee che la lettura di S. Paolo (cf. II Cor. 10, 3-6; Eph. 6, 10-18; II Tim. 2, 3-5) aveva dopo lungo tempo reso familiari: cf. H. Delehaye, Les passions des martyrs et les genres littéraires, Bruxelles 1966 (= Subsidia hagiographica 13B), pp. 152-154.

[47] Si tratta di una polemica letteraria con il genere pagano dell’epica, ancora così importante nell’educazione elementare bizantina, ma troppo lontano dagli ideali di virtù cristiana. È un problema di contenuti, mentre il lessico rimane lo stesso.

[48] Il prologo si conclude con una formula riassuntiva ed esortativa che l’au­tore continuerà ad usare lungo tutta la narrazione, quasi come elemento di cesura tra i vari episodi e come espediente, tipico di lutti i generi letterari di origine orale (cf. Omero, Dante, Ariosto...), per instaurare un continuo contatto con l’u­ditorio e mantenere in tal modo viva l’attenzione. Larghissimo è l’uso di clausole ritmiche che ben si accorda con l’alto livello stilistico del passo.

[49] Sono i φιλάρετοι del par. 1, 2. Questa apostrofe nei confronti dell’uditorio è frequente nelle Vite dei Santi: si può paragonare, per esempio, alla Vita Fantini 2, 1-2: ώ πατέρων άθροισμα και συνετόν ακροατήριον (ed. E. Follieri, La Vita di san Fantino il Giovane, Bruxelles 1993, = Subs. hag. 77). Si tratta di opere destinate alla lettura a voce alta, di fronte ad un pubblico solitamente di monaci, o, come nel caso di Filagato da Cerami (cf. Filagato da Cerami. Omelie per i Vangeli domenicali e le feste di tutto l’anno, a cura di G. Rossi Taibbi, I. Omelie per le feste fisse, Palermo 1969 (= Istit. Sicil. di Studi Bizantini e Neoellenici, Testi 11): Hom. III, IV, XIV, XV, XXXI, XXXIII, XXXIV), al popolo radunato in chiesa per ascoltare omelie.

[50] Il sostantivo πολύχνιον (r. 3) (diminutivo di πολύς), accompagnato dagli aggettivi ευτελές τε και άσημον, denota perfettamente l’umiltà della patria che va contrapporsi alla grandezza della fama del santo. L’antitesi è ancor più alla marcata alla riga 5, dove l’aggettivo ευτελές è ripetuto chiasticamente.

[51] Il sostantivo ανήρ (r. 6) è attribuito al santo che nell’agiografia appare come un eroe, ed è quindi insignito degli appellativi propri dell’epica classica (cf. Hom., Od. I, 1; analogo al latino vir). Dato il significato pregnante del termine, è necessario nella traduzione aggiungere un aggettivo come insigne per restituire perfettamente il senso.

[52] Sono i modelli a cui è sempre avvicinato Bartolomeo. È una σύγκρισις analoga a quelle proprie degli encomi retorici.

[53] La descrizione del carattere dei genitori corrisponde perfettamente agli schemi agiografici (cf. Vita Fantini 2, 2: πάνυ δικαίων και ενάρετων), secondo i quali essi risultano sempre ένδοξοι. A differenza della patria, umile e sconosciuta, i genitori vengono definiti μεγάλοι και υψηλοί και λαμπροί (r. 3-4), tre aggettivi in climax, che denotano una grandezza circoscritta dall’accusativo di relazione (την όντως ευγένειαν) all’ambito della nobiltà d’animo. C’è già un sentore di quello che avverrà al par. 20.

[54] È il Diavolo, padrone delle sole cose mondane, contrapposto a Dio παντοκράτωρ, padrone dell’universo.

[55] παροικία (r. 8): letteralmente significa soggiorno in un paese straniero; pe­regrinazione (παρά = presso). Significativo è l’uso del termine in questo contesto: sottolinea il carattere di estraneità al mondo proprio del monaco e la precaria temporaneità della vita terrena, contrapposta alla vera dimora, la κατοικία (r. 8), letteralmente residenza; abitazione stabile (κατά = in).

[56] βλαστήσαντες βλάστημα (r. 12) è una figura etimologica, riconducibile al campo semantico della botanica, al quale appartiene anche ρίζα della stessa r. 12 e che incontreremo anche nei paragrafi seguenti.

[57] È l’antitesi topica tra l’imperfezione del corpo e la perfezione della mente, che caratterizza il motivo del puer senex, tanto caro alle tipizzazioni agiografiche.

[58] βλαστής... φυτόν... σπέρματα... καρπών (r. 4-9): ritroviamo il campo semantico della botanica, iniziato al par. 3,12. Il processo della crescita è rappresentato dalla metafora del germoglio che diventa pianta e che da frutti; la παίδευσις, d’altra parte, è vista come una gestazione che avviene εν τοις ανοίας κόλποις (r. 8), nel grembo dell’ignoranza, ossia della mancanza di qualsiasi nozione, su un terreno così fertile, cioè, da rendere immediatamente ogni seme rigoglioso frutto. La anoia e la mancanza di νούς, l’essere ancora implasmato della mente che rende la capacità ricettiva ancora maggiore.

[59] L’istruzione elementare a Bisanzio era detta προπαίδεια (Teodoro Studita, Davide di Mitilene), εισαγωγικά και στοιχειώδεις των μαθημάτων τέχναι (Teodoro Studita); materia d’insegnamento erano le γράμματα, designate per lo più con l’espressione ιερά γράμματα (cf. P. Lemerle, Le premier humanisme byzantine = Bibliothèque Byzantine, 6, Paris 1971, pp. 99-100) perché si imparava a leggere sui testi sacri (Salterio o inni ecclesiastici). L’età in cui i bambini cominciavano a studiare era all’incirca verso i sei o sette anni. I maestri erano i διδάσκαλοι, o παιδοτρίβαι, o γραμματικοί. Qui sono gli stessi genitori che insegnano a Bartolomeo le prime nozioni. Del resto, il dovere fondamentale dei genitori era quello di «educare cristianamente i figli, farli partecipare al tesoro della fede, inculcare loro una sana disciplina riguardo alla vita morale [...] La famiglia cristiana è l’ambiente ove deve formarsi l’anima del fanciullo. Poiché la molla principale dell’educazione è l’imitazione dell’adulto, si tratta principalmente di un’educazione mediante l’esempio [...] Un trattato troppo a lungo trascurato di S. Giovanni Crisostomo (Chrys. Inan. glor. 19s) contiene dei gustosi consigli sulla maniera con cui i genitori devono allevare i loro figli» H. I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 1978, pp. 411-412.

[60] ευκταιότατον... και ποθεινότατον (r. 3): si tratta di una coppia di aggettivi sinonimici, posti simmetricamente in positio princeps, all’inizio ed alla fine della proposizione parentetica. L’autore ama usare questi vezzi retorici, come un pittore che si diletta di creare sfumature con colori vicini per gradazione, che da lon­tano danno un’impressione di amalgamata fluidità. L’isosillabismo tra i due ag­gettivi e la desinenza del superlativo provocano un’omofonia cadenzata.

[61] Non si conosce precisamente l’identità di questo monaco Cirillo, ma, da­gli appellativi e dalle caratterizzazioni che l’autore usa nel corso della narrazione, possiamo farci l’idea che egli fosse un famoso asceta a capo di un piccolo cenobio (συν ολίγοις ασκηταίς).

[62] προσδιατριβών ήν (r. 6): forma perifrastica dell’imperfetto, che denota, molto più del semplice imperfetto, un’azione continuata nel tempo passato. Ad accentuarne l’aspetto imperfettivo concorre anche la formazione verbale, tipica del greco post-classico, mediante più preverbi (in questo caso προς e δια, che co­lorano ancor più marcatamente l’aspetto durativo della perifrasi verbale). Il ver­bo διατριβώ significa passare il tempo, indugiare in qualche occupazione, ed era il verbo che denotava il modo di vita dei filosofi. Tutta la scena, del resto, ricorda l’ambientazione della cornice del Fedro di Platone (cf. Plat. Phae. 230 b-c5 πηγή χαριεστάτη υπό της πλατάνου ρεί μάλα ψυχρόν ύδατος [...]).

[63] έση... απαγορεύων (r. 11-12) è una forma perifrastica del futuro, tipica del greco tardo, quando ormai il futuro classico stava cadendo in disuso. Il verbo απαγορεύω, usato intransitivamente, ha il significato di stancarsi, ritirarsi, cedere, venir meno.

[64] κείρει... τας τρίχας (r. 2): il verbo (από)κείρω e il suo sinonimo (από)κουρεύω significano tonsurare, e cioè far entrare nella comunità del monastero gli aspiranti monaci. Il significato di questo gesto è esaurientemente spiegato da P. De Meester, De monachico statu iuxta disciplinam byzantinam, Typis Polyglottis Vaticanis 1942 (= Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale. Codificazione canonica orientale. Fonti, Serie II, fasc. 10), p. 372: si tratta di un firmissimum signum saeculo abdicationis, e cioè della αποταγή = rinunzia al mondo, per abbracciare invece la vita monastica, basata sull’obbedienza, ossia sulla υποταγή. Il novizio è spesso definito νεοκούρητος.

[65] Anche la vestizione fa parte nel cerimoniale che precede l’entrata del novizio in monastero: a questo proposito il De Meester, op. cit., p. 373. cita un passo di Teodoro Balsamone, Commentarius in canones, Επιστολή περί ρασοφόρων, in Ralles-Potles t. IV, p. 501.

[66] Diventare monaco significa cambiare vita, rinascere e quindi ricevere un nuovo battesimo. Questa usanza fa ripensare ad un passo dell’Apocalisse di Giovanni: Apoc. II, 17, «epistola Ecclesiae Pergamenae»; «Τω νικώτι δώσω αυτώ του μάννα του κεκρυμμένου και δώσω αυτώ ψήφον λευκήν, και επί την ψήφον όνομα καινόν γεγραμμένον, ό ουδείς οίδεν ει μη ο λαμβάνων» Secondo l’uso bizantino, il nome monastico deve però mantenere l’iniziale del nome di battesimo (cf. De Meester, op. cit., pp. 373-374).

[67] άθλα και σκάμματα (r. 7) sono termini riconducibili, insieme a παιδοτρίβης, all’ambito dei giochi atletici. L’ascesi (άσκησις = esercizio) e un allenamento dello spirito che può realizzarsi soltanto con una partecipazione anche del corpo. Il κόπος, infatti, costituisce uno dei doveri del monaco.

[68] Ritorna la metafora botanica dei par. 3, 13-14 e 4, 5-11. Qui si tratta dei primi semi della virtù e, invece della dianoia, che rappresentava la sede dell’apprendimento intellettuale, adesso c’è la καρδία, sede delle passioni e della riflessione, cioè l’anima propriamente detta. Ed è proprio nell’anima che deve essere coltivata la virtù.

[69] Questo è il ruolo che il monaco svolge nell’ambito della collettività: ha la funzione di guida spirituale e di confortante esortazione delle anime addolorate, ψυχών αναψυχή (r. 1) è una figura etimologica allitterante.

[70] L’uso del verbo κινέω, attivo quando è riferito alla saggezza divina (κινεί, r. 5) e passivo quando è riferito a Bartolomeo (κινούμενος, r. 9), è indicativo di un’altra connotazione della natura del monaco, direi la più importante, e cioè quella di essere il tramite che collega Dio e gli uomini. Il monaco, quindi, è uno strumento nelle mani di Dio, si affida a Lui totalmente ed il suo compito è quello di indicare agli uomini la giusta via, di guidarli verso la salvezza cui Dio li ha de­stinati.

[71] Ritorna (r. 6) la similitudine di par. 5, 6-7, che si estende anche al verbo συλλέγω, il raccogliere, azione propria dell’ape.

[72] παν είδος αρετής (r. 12) sembra proprio una terminologia platonica, che con il termine είδος definisce i vari aspetti che vanno a costituire il concetto idea­le di virtù. Il verbo ερανίζω (r. 13) si ricollega al precedente συλλέγω, ma aggiunge una sfumatura diversa: significa precisamente raccogliere per via di contribuzioni (da έρανος = lat. «cena collaticia», cioè banchetto a cui ognuno contribuisce por­tando la sua parte): implica, cioè, un contributo attivo da parte di coloro presso cui si raccoglie. L’oggetto di questa «raccolta» sono i vari tipi o gradi di virtù presenti negli uomini «virtuosi e saggi», vale a dire santi, se consideriamo la virtù intesa come causa ed effetto della santità.

[73] A questo punto (r. 2-6) l’autore ci descrive l’abbigliamento di Bartolomeo, riprendendo un topos caratteristico dell’agiografia, volto a dimostrare quanto la vita del monaco fosse modellata su quella di Cristo. Per fare questo, si rifà proprio all’episodio neotestamentario (Mc. 6, 7-8; Mt.10, 9-10; Lc.9, 3), in cui Cristo chiama i dodici apostoli e affida loro la missione di predicare tra gli uomini la parola di Dio, dicendo tra le altre cose: «Non fate provvisione né di oro, né di argento, né di moneta nelle vostre cinture: né di tasca per il viaggio, né di due tuniche, né di scarpe, né di bastone». È importante, per capire il valore di questi cenni sull’abbigliamento, tener presente il simbolismo che gli antichi attribuivano alla veste: essi ritenevano che l’aspetto esteriore di una persona ne rispecchiasse la condizione interiore; concezione, questa, che sta alla base di tutta l’arte tardo-romana, in particolare della ritrattistica, e che costituisce il nucleo delle teorie della fisiognomica, così decisive per la nascita e lo sviluppo del genere biografico nella letteratura. Il τόπος agiografico dei cenni sull’abbigliamento ruota intorno al concetto di απλότης, la semplicità austera e sobria dell’uomo virtuoso. La σταυρική βακτηρία è una verga per camminare, fatta a forma di croce. Anche qui si tratta di un simbolismo ricollegabile alla figura del Cristo: la Croce è la conseguenza del peccato e, insieme, anche lo strumento di liberazione da esso. La βακτηρία, ossia βάκτρον o βακτήριον, era, inoltre, il bastone pastorale dell’egumeno (cf. De Meester, op. cit., p. 253). Ο των αποστόλων πρωτόκλητος: siamo ancora nel contesto delle reminiscenze neotestamentarie: secondo Giovanni, Andrea, che era discepolo del Batista, fu chiamato prima ancora di Pietro, onde l’epiteto di πρωτόκλητος datogli dai Bizantini, che a lui attribuirono la fondazione della Chiesa di Costantinopoli, tramite Stachys, che egli avrebbe ordinato vescovo. Le rappresentazioni iconografiche (tra le più importanti ed antiche quelle dei mosaici di Ravenna e degli affreschi di S. Maria Antiqua di Roma) ce lo mostrano con capelli ricci e folta barba.

[74] Nell’Edizione degli Acta Sanctorum viene erroneamente accettata la versione latina di padre Fiorito, che traduce μυριοφόρος ολκάς (r. 8) con preziosi onuste unguentis, confondendo il termine μυριοφόρος (è un sinonimo del più usato μυριαγωγός) derivante da μύριος = che porta diecimila misure, con μυροφόρος = portante profumi. In tal modo, oltre a fraintendere il testo, si perde il gioco lessicale tra πληρωθείς = essendosi riempito, μυριοφόρος = carica, e ολκάς = nave da carico, che amplifica il senso di pienezza di Bartolomeo, ormai del tutto «iniziato» alla virtù, sia nella teoria che nella prassi (νοημάτων και πράξεων) (r. 9). È interessante notare, inoltre, che il termine μυριοφόρος è attestato in Tucidide 7, 25, come pure tucidideo è il sostantivo ολκάς, δος = nave da carico a rimorchio, cui il suddetto aggettivo si riferisce (cf. Tuc. 2, 91; 6, 1, 44; 7, 7). L’autore dimostra, dunque, nella scelta del lessico, di avere una cultura piuttosto ampia anche di testi classici, derivante, probabilmente, da compendi ad uso sco­lastico, da testi grammaticali e retorici.

[75] È un’espressione usata da Giovanni Climaco, Scala Paradisi VII (P.G. 88, col. 812 A), quando il monaco Stefano passa dalla vita cenobitica a quella eremiti­ca (presente anche nella Vita Fantini, 9, 5-6). L’aggettivo ήσυχος riferito a βίος ha il significato tecnico di vita contemplativa propria dell’eremita (cf. Follieri, La vita di san Fantino cit., p. 492). I monaci che si dedicano alla ησυχία sono detti ησυχασταί, e vivono lontani dagli uomini e dal mondo, dedicandosi esclusiva­mente e completamente alla contemplazione delle «cose celesti».

[76] Ad ευκτήριον (r. 14) è sottinteso οίκον; il termine indica un oratorio, soli­tamente di piccole dimensioni, presso il quale vivono uno o più monaci che si de­dicano alla vita contemplativa.

[77] L’espressione biblica κατά μόνας (o καταμόνας) (r. 18) si trova anche nella Vita di s. Antonio di Atanasio, cap. 3, 2.

[78] του ποθουμένου (r. 2) si riallaccia a προς το ποθούμενον della fine del par. precedente. Quest’uso ricorrente degli stessi termini concorre a rendere flui­da ed armoniosa la narrazione e contribuisce a raggiungere la finalità didascalico-parenetica dell’opera.

[79] La traduzione di padre A. Fiorito («totum se concupitae diu quieti tradit»), accettata dai Bollandisti, è dovuta ad un travisamento del testo: infatti, egli, probabilmente fuorviato dall’analogia di questa espressione con il προς το ποθούμενον di par. 8,23, lesse un neutro al posto del maschile. Per evitare confusioni ho adottato la lettera maiuscola nel testo: ο Ποθούμενος (cf. anche Follieri, La Vita di san Fantino cit. par. 8, 2 e 52, 4), infatti, è Dio, propriamente «colui che è desiderato», «l’Amato» e la solitudine tra i monti è il modo migliore di avvicinarsi a Lui. Non è un caso, quindi, che ci sia un’analogia tra par. 8, 23 e 9, 11: è un voluto gioco di parole che spiega come il desiderio (επόθει, r. 9) di un luogo tranquillo sia unicamente finalizzato all’avvicinamento totale a Dio, l’unico vero Desiderio per antonomasia. Inoltre, ritroviamo questo concetto in Ps. 37, 10. Il verbo ποθέω, insieme a πόθος ed έρως, appartiene al vocabolario spirituale cristiano ed è quasi sempre riferito all’amore per Dio.

[80] verbo προσκαρτερέω (r. 14) (ed εγκαρτερέω a r. 33), denota una resistenza assoluta, che non ha bisogno di alcun conforto, ed un’assiduita continua (cf. anche il valore di προς come preverbo in par. 5,6) in quelle che son le occupazioni per eccellenza del monaco, e cioè la preghiera (προσευχή r. 14), il digiuno (νηστεία ivi) e la veglia (αγρυπνία r. 20). Il verbo καρτερέω (κάρτος, κράτος), insieme ai suoi composti, ha grande rilevanza nella lingua neogreca e viene usato abitualmente con il significato di sopportare, attendere pazientemente. È connaturato ad esso il valore imperfettivo ed un senso di perseveranza estrema nel dolore. Se dovessi scegliere un verbo rappresentativo della grecità, dal punto di vista storico-culturale, non esiterei a scegliere καρτερέω: esso, infatti, mi parla di tutti i secoli durante i quali la grecità ha continuato, senza cesure, ad esprimere in greco la sua cultura e a combattere assiduamente per la libertà e l’indipendenza; mi parla del popolo greco che, vessato dal giogo turco, messo sempre alla prova dalla storia, non si è mai arreso ed ha conservato, con paziente perseveranza, le sue tradizioni millenarie.

[81] Assistiamo al processo di raffinamento dello spirito e di allontanamento dal male. L’autore fa uso di termini tecnici, quali οπτικόν, κάτοπτρον αυτοδιαφανές ed il verbo κατασκευάζω (rr. 2-3), propriamente costruire, apprestare, propri della fisica aristotelica.

[82] Perifrasi indicante il Diavolo, che è esattamente il negativo di o αεί του ημετέρου γένους κηδόμενος di par. 11,18.

[83] Il verbo χαράσσω (att. -ττω: r. lò), significa propriamente incidere, scolpire, solcare (cf. par. 28, 14; 29, 3). Qui si riferisce a τύπον = impronta, segno, immagine scolpita. Formule di questo genere sono riscontrabili in molti altri testi cristiani: nella Vita Fantini 34,8 per esempio, viene usato il verbo σφραγίζω = chiudere con un sigillo ed il sostantivo σημείον = segno 10, 9. Sono termini molto concreti, propri di una religiosità profonda che non si ferma all’esteriorità dei gesti, ma li interiorizza materializzandoli: Cristo si sacrificò e soffrì nella sua natura umana per riscattare tutta l’umanità; il farsi il segno della croce significa solcare la propria anima con l’impronta di quella sofferenza, farla rivivere, partecipare ad essa.

[84] Il verbo αντιπαλαίω (r. 18-19) è riconducibile al tanto usato campo semantico della guerra e delle lotte atletiche, ed inoltre ricalca la formazione con anti di αντικείμενος (10, 4). È la lotta dell’eroe-santo contro i diavoli nemici, arbitro della quale è Dio, «datore di vittoria». Questo è il significato dei versetti dei Salmi (r. 9-14; 21-22), che l’autore cita con precisione.

[85] I miracoli sono sempre collegati a luoghi e momenti di preghiera del santo: infatti è proprio la preghiera che lo innalza a Dio e lo riempie della grazia divina. Non è il monaco ad essere dotato di capacità soprannaturali, ma è Dio che lo rende suo tramite, affinché Egli possa manifestarsi agli uomini.

[86] Il significato ed il simbolismo di questo prodigio (r. 7), che si ripeterà in modo analogo al par. 29, si basano sull’idea di manifestazione soprannaturale del­la grazia divina: è una luce immensa che pervade il santo ed emana da tutta la sua persona (καταγασθέντα, r. 13). Questa luce è il risultato della virtù, della προσευχή (r. 13) e della προς Θεόν ομιλία (ivi).

[87] Quest’endiadi (r. 10) riecheggia la famosa espressione erodotea «μεγάλα τε και θαυμαστά» (Erodoto, Storie, libro I, 1).

[88] Si tratta di una συγκίνιση = comparazione, uno degli ornamenti obbligati del panegirico, quello coltivato dai retori con la maggiore intensità. La maggior parte di queste comparazioni sono diventate luoghi comuni che si adattano agli argomenti più disparati (cf. Delehaye, Les Passions des martyrs cit., pp. 152-154). Questo stesso paragone è presente anche nella Vita Nili, cap. 5: «και άλλον Μωσέα ποιήση».

[89] Quest’episodio è uno dei più ricorrenti nel genere agiografico: la figura dei cacciatori che incontrano il santo sulle montagne e ne rivelano al mondo l’esi­stenza è necessaria allo sviluppo della narrazione. Essi sono gli unici uomini che frequentano le montagne selvose su cui si ritirano gli eremiti, ed inoltre il fatto che siano cacciatori da la possibilità agli scrittori delle Vite di sfruttare il senso metaforico della caccia, intesa come caccia spirituale. Essi sono un mezzo di cui la Provvidenza divina si serve per rendere manifesto il santo al mondo.

[90] La natura angelica del santo (αγγελική διαγωγή r. 2-3; αγγελική και θεία... ιδέα r. 11; θείος άγγελος r. 13) permane immutata, anzi si accresce in un contesto selvaggio come quello delle montagne; l’allontanamento dalla società umana è nello stesso tempo innalzamento a Dio; la solitudine meditativa non abbrutisce, ma al contrario rende sublimi nell’anima e, di conseguenza, anche nell’aspetto. L’esperienza ascetica non è fine a se stessa: è finalizzata ad una successiva comunicazione con gli altri che procurerà giovamento.

[91] Due endiadi a brevissima distanza: αγγελική και θείαν e ιδέαν τε και κατάστασιν (r. 11); poi, subito dopo, altre due coppie di aggettivi sinonimici: καταπληκτικός... και άγριος, πράος... και ήπιος (r. 12-13). Questo procedere binario dell’aggettivazione, che sembra voler sempre meglio delineare i tratti della descrizione, aggiungendo sfumature semantiche e cadenze ritmiche, dona alla narrazione un tono prezioso, perché costruito nei minimi particolari. Per quanto riguarda l’aggettivo αγγελικός, esso è molto spesso usato in riferimento al monaco: basti pensare alla definizione dell’abito monastico, αγγελικόν σχήμα.

[92] I cacciatori raccolgono i frutti (r. 23) cresciuti dalla buona radice. Ancora una volta si tratta del campo semantico della botanica, cf. 3, 12; καρπούς... ειστία è la metafora del banchetto spirituale.

[93] Continua l’alternanza tra i verbi κρυπτώ e φανερόω che era iniziata al par. 11, 16-18, con il detto evangelico della lucerna sotto al moggio (εναποκρύπτεσθαι... φανεροί), e che ritornerà anche al par. 12, 25-26 (κρυπτείν... φανερούσι). Il participio passivo ci fa chiaramente capire che non si tratta di un’azione com­piuta dal santo in prima persona, ma, al contrario, che egli non è altro che un mezzo nelle mani di Dio: infatti, è la volontà di Dio che lo fa conoscere attraverso la fama. Si tratta anche qui di un’analogia con la figura di Cristo, che viene «rive­lato» al mondo, «reso noto» a tutti, per diventare salvatore dell’umanità. La pro­sopopea della φήμη, concepita come strumento divino, è uno dei più frequenti τόποι che l’agiografia desume dal Vangelo. Qui viene paragonata ad una tromba squillante e melodiosa che spande ovunque il suo suono, esaltando il santo, com­movendo chi ascolta ed incitando ad accorrere presso di lui. È un’immagine lu­minosa ed altisonante che riecheggia passi dell’epos omerico.

[94] Si tratta di un’altra σύγκρισις frequente nei testi agiografici. San Giovan­ni Battista è un modello a cui i monaci si rifanno, sia per quanto riguarda il suo aspetto esteriore, sia per la sua virtù. Questa scena riprende i passi del Vangelo (Mt. 3, 1-12; Mc. 1, 1-8; Lc. 3, 1-18; Io. 1, 6-8, 19-36; 3, 23-30) che narrano la predica­zione di Giovanni Battista nel deserto ed il battesimo nel fiume Giordano.

[95] È un’espressione (r. 18) presente nei Settanta, che deriva da una terminologia giuridica, propria degli autori classici: storici, retori, filosofi, come Tucidide, Isocrale, Demostene, Lisia, Platone... Πολιτεύω significa essere cittadino, vivere da cittadino, e quindi attenersi alle leggi della propria città. Implicito è anche qui il contrasto tra vita terrena e vita eterna, tra il mondo e la «Gerusalemme Celeste», tra la παροικία e la κατοικία del par. 3, 8.

[96] È un’immagine (r. 20) che ci riporta, insieme alla λόγων σειπην di par. 12, 22, all’episodio delle sirene nell’Odissea, m 165-200.

[97] Ritornano le immagini del par. 12 e l’eco del Salmo 118,103: «Quanto sono dolci i tuoi discorsi al mio palato; sono più dolci del miele alla mia bocca». Dolcezza e giovamento sono sempre legati da uno stretto l’apporto di causa, determinato dalla finalità dell’insegnamento, che altro non è se non il raggiungimento della virtù e della salvezza. La necessità che l’insegnamento venga offerto con dolcezza affinché possa giovare è un topos assai frequente nella letteratura di genere didascalico.

[98] Il ripensamento di Bartolomeo riguardo all’accettare o meno il formarsi intorno a lui di una comunità monastica scaturisce da una meditazione sugli insegnamenti evangelici, e precisamente di san Paolo. L’autore, infatti, cita un passo dell’epistola ai Corinzi (I Cor. 10, 33): «...non cercando il proprio vantaggio, ma quello che giova a molti, affinché siano salvi».

[99] A. Fiorito traduceva Nugduniati. Negli AA.SS l’editore avanza il dubbio che il passo sia corrotto. Invece l’appellativo Ρογχονιάτης si trova anche in una sottoscrizione del cod. Vat. gr. 2050 (pubblicata da B. Montfaucon, Palaeographia graeca e P. Βatiffol, L’abbaye de Rossano, Paris 1891) che parla di un mo­nastero, fondato da Bartolomeo, con il titolo di Ronconiate. Augusto Mancini (Per la critica del Bios di Bartolomeo da Rossano cit.) ponendo l’attenzione anche sul Sinassario del cod. Mess. gr. 103), che nel margine del f. 255 riporta la nota «τη αυτή ημέρα του οσίου πατρός ημών Βαρθολομαίου αρχιμανδρίτου της ευαγούς μονής της Νέας Οδηγήτριας της Θεοτόκου του Ρηχινιάτου» (cf. H. Delehaye, Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae..., Bruxellis 1902, col. 909, 36-37, = cod. C), osserva che il monastero di cui si parla «non può essere altro che il mo­nastero della Νέα Οδηγήτρια di Rossano». Il monastero, comunque, non viene costruito dalle fondamenta, bensì intorno ad un preesistente προσευχής οίκος, (r. 30) un oratorio, cioè, costruito, come dice l’autore, da un certo monaco Nifone, molti anni prima. Probabilmente chi fosse questo monaco non lo sapeva neanche l’autore: egli infatti riporta la notizia usando l’indefinito προς τινός e la parentetica ως φάσιν. Se ci rifacciamo all’affermazione di S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne. Bologna 1993², p. 108, secondo cui lo spirito errabondo, caratteristico dei monaci, è la causa per cui «ci troviamo continuamente di fronte a chiese distrutte, a monasteri abbandonati, che vengono ricostruiti per essere nuovamente abbandonati al loro destino», potremmo ipotizzare che si tratti proprio di un caso simile, e cioè che questo monaco Nifone fosse un eremita che aveva trascorso un periodo di solitudine in quell’oratorio, per poi trasferirsi altrove, abbandonando la chiesa da lui costruita. Questa chiesa era dedicata alla Vergine e a Giovanni Battista.

[100] L’episodio si apre con un intervento diretto dell’autore, formulato con un periodo ipotetico della possibilità, per scuotere l’attenzione degli uditori e dare alla narrazione la debita importanza (r. 2). Egli sta per parlare della capacità di Bartolomeo di compiere miracoli, che non è capacità innata, ma dono della θεία Χάρις. La coppia παρρησίαν τε και εγγύτητα (r. 4-5), unita in endiadi, indica proprio il raggiungimento della tanto desiderata vicinanza a Dio, ottenuto attraverso la solitudine sui monti. Il termine παρρησία nell’antica Grecia stava ad indicare la libertà di parola propria della democrazia, ed era largamente usato nei tribunali, nell’agorà, nei discorsi oratori. Era un termine dal significato per eccellenza poli­tico. Qui assume il significato pregnante di confidenza, strettissima vicinanza (unito con l’εγγύτης) a Dio; il santo, avvicinandosi a Dio, diventa, secondo la meta­fora biblica, icona e somiglianza di Dio. Bartolomeo, quindi, è arrivato al vertice ad intermediarium in Deum, e la grazia divina lo innalza ad intermediario di Dio, do­nandogli la facoltà di operare miracoli.

[101] Le parole del santo vengono riportate con il discorso diretto, mentre quelle dei discepoli sono riferite con il discorso indiretto: in questo modo, l’autore tenta di ricreare il carisma delle parole di Bartolomeo e di mettere in risalto la sua funzione di maestro rispetto al «coro» indistinto degli altri monaci. I discorsi di Bartolomeo sono pervasi di citazioni bibliche, sia ad litteram che ad sensum: qui egli si rifà ad Esodo 16 e a Salmi 77, 2-1.

[102] In questo passo ci sono varie espressioni che indicano prescrizioni liturgiche riconducibili all’uso studita: la giornata era scandita dalle preghiere che ve­nivano recitate in determinate ore. Solitamente, si divideva in quattro parti, in base alle ore canoniche minori. – Των νυκτερινών κόπων αναπαυόντων (r. 8): le fatiche notturne sono le preghiere che venivano recitate durante la notte, spesso definite nei typica dei monasteri μεσονυκτικόν; μετά τας εωθινάς προς Θεόν υμνωδίας (r. 7): si tratta della preghiera recitata all’aurora, spesso denominata όρθρος; η τρίτη ώρα της ημέρας (r. 23): nell’ora terza veniva recitata la preghiera in ricor­do della discesa dello Spirito Santo: le preghiere delle ore canoniche minori, infatti, avevano la caratteristica di essere strettamente legate al particolare signifi­cato di ciascuna di esse nella successione del tempo. La liturgia cristiana è definita αναίμακτος ιερουργία (r. 24) in netto contrasto con i sacrifici cruenti della religione pagana e del culto ebraico.

[103] I discepoli meditano in silenzio, immersi ciascuno nella propria solitudi­ne, i Salmi di Davide. È un’occupazione abituale e caratteristica dei monaci (ως είθησται μοναχοίς); un’abitudine che già costituiva uno dei principi basilari codifi­cati dai giuristi di Giustiniano: la Novella 123, 6 dice: «è necessario disporre per i monaci una duplice occupazione... meditare e lavorare (μελετάν τε και εργάζεσθαι)» (cf. A. Pertusi, Aspetti organizzativi e culturali dell’ambiente monacale gre­co dell’Italia meridionale, in Atti della settimana internazionale di studio sull’eremitismo in Occidente nei secoli XI-XII, Milano 1965, pp. 383-417).

[104] Bartolomeo impronta la sua vita sul modello di Cristo (cf. par. 5, 17; 6, 2; 8, 1-2); per riflesso, anche la tipologia del miracolo sarà congrua al suo modello. La meraviglia provocata dalla straordinarietà dell’evento viene espressa con una definizione altamente poetica dei pani prodigiosamente portati al monastero: άρτους... προσφάτους τε και λαμπάπρους (r. 26). L’aggettivo πρόσφατος = fresco, recente è accostato a λαμπρός, aggettivo dai molteplici significati, usato più volte dall’auto­re in contesti diversissimi, ma sempre in accostamento con altri aggettivi: al par. 3,3 aveva il significato di illustre, insigne; al par. 13,3 assumeva il significato di sonoro, limpido, chiaro, squillante. Questi esempi dimostrano che questo agget­tivo si comporta come un raggio di luce sui colori: li rende più vivi, li rinforza, li accende e dona loro un tocco di luminosità che non avevano. Ed è proprio il caso di questo contesto: a prima vista, attribuire l’aggettivo λαμπρός ad άρτος, sembra strano; ma insieme a πρόσφατος il senso di λαμπρός si chiarifica: è la fragranza del pane appena uscito dal forno, di cui riusciamo perfettamente ad immaginare il profumo.

[105] ηδύνατο μεν, ουκ ηβούλετο δε (r. 2-3): costruzione «in parallelo», che sottolinea il contrasto In volontà e potenza. La volontà rappresenta il freno di tutte le funzioni di anima e corpo, ed è a sua volta regolata dalle virtù della μετριοφροσύνη e della ταπεινοφροσύνη. Oneste virtù costitutive del monaco operano, tramite la totale spoliazione dell’io, la liberazione da ogni attaccamento materiale. La υπερβολή, che in sé ha valore negativo, riferita, quasi per ossimoro, a queste virtù assume il significato positivo di virtù estrema ed assoluta (cf. anche par. 18, 12).

[106] πυκτεύω (r. 10) è un verbo riconducibile al campo semantico ginnico, già individuato in passi precedenti. Qui, accostato ad άσκησις, rende perfettamente il significato intrinseco dell’ascesi: dura, inflessibile, continua, estenuante come una perenne lotta contro il corpo e le cose mondane. È l’elemento primario della πολιτεία monastica, mentre la realtà storica e il mondo rappresentano invece negatività, peso e distrazione.

[107] καταμόνας σχολάζειν... και γνώναι (r. 13) è un’espressione tratta dal Salmo 45 «σχολάστε και γνώτε», ma esprime il concetto, già incontrato a par. 8,18 di solitudine come mezzo di conoscenza ed avvicinamento a Dio. Espressioni simili sono il «καταμόνας ειμί εγώ» del Salmo 140, 10 e il «μόνος προς μόνον» degli Apophthegmata Patrum.

[108] La costruzione di όλος + genitivo (r. 1) è caratteristica del greco tardo e significa dedicarsi completamente; essere preso da qualcosa; è un’epressione molto usata dal nostro autore.

[109] (r. 3-4) È una perifrasi indicante la Vergine. L’uso di perifrasi al posto dei nomi è tipico dello stile retorico (cf. Delehaye, Les Passions des martyres… cit., pp. 150-152) e rende l’espressione manierata e preziosa.

[110] Il termine φροντιστήριον (r. 10) ha il significato etimologico di luogo in cui si medita, ed è usato molto spesso nell’accezione di monastero (cf. Du Cange, Glossarium ad Scriptores Mediae et Infimae Graecitatis, Lugduni 1688, p. 1704: «monasterium, aedes monachorum»; Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961-69, p. 1491: «place for meditation, esp. monastcry»). Molto efficace la tradu­zione scuola di anime, proposta da Batiffol, L’abbaye de Rossano... cit., p. 4, che ho adottato nel testo.

[111] ευγνώμων... και ευπευθής (r. 13-14): si tratta di un’endiadi esprimente il concetto di obbedienza, intesa come somma virtù, superiore ad ogni pratica asce­tica. È proprio la ευγνωμοσύνη, la saggezza, la rettitudine del pensiero che rende il servo obbediente.

[112] Questo è il primo episodio con valore realmente storico, in cui assistiamo ai primi contatti tra Bartolomeo e personaggi della cerchia normanna. Ο Αμιράς Χριστόδουλος era un ammiraglio della flotta di Ruggero II durante la spedizione organizzata contro El Hassan per la conquista della Sicilia (cf. F. Chialandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, I, Paris 1907, pp. 373-374; menager, Amiratus Ameras, Parigi 1960). Sembra che fosse un arabo con­vertito, il cui nome era Abd-er-Rahman en Nasrani. Comunque sia, importante è il fatto che il suo nome compare menzionato in diversi diplomi: nel 1119 si parla di una donazione fatta a Cristodulo prima di questa data; successivamente, è menzionato nel 1123- 1126- 1130; in data imprecisata, gli viene attribuito il titolo di protonobilissimo e di emiro. Sappiamo, inoltre, che egli aveva possedimenti in Calabria e che fece diverse donazioni al monastero del Patire. Il Gaetani citava nelle Animadversiones al Bios di Bartolomeo la sottoscrizione di un antico privilegio membranaceo, scritto a Palermo, che diceva: «Christodulos Iustitiarius et Admiraldus, servus domini mei, magni Comitis Rogerii». Quindi, la definizione che il nostro autore da di lui e cioè uomo allora assai potente presso i sovrani terre­ni, risulta pertinente alla figura storica. Viene inoltre messo in evidenza lo zelo (θερμότατος, (r. 1), θερμότητα (r. 4)) che Cristodulo mostra nei confronti di Bartolomeo e della fondazione del monastero. È chiaro che si tratta di espressioni tipi­che del genere encomiastico: contornandolo di uomini importanti e tutti a lui de­voti, l’autore innalza ancora di più la grandezza del santo ed il suo carisma. La funzione che storicamente svolse Cristodulo nella fondazione del Patir è stretta­mente legata al diritto canonico bizantino (Fozio, Syntagma canonum, tit. XI), che non riconosceva ai monaci la facoltà di possedere dei beni, bensì concedeva loro solo l’usufrutto dei monasteri, la cui proprietà era di un privato, il cosiddetto patrono, oppure del vescovo (cf. Batiffol., L’abbaye... cit., p. 4).

[113] Decisamente improbabile è la realtà storica di questa corrispondenza tra Bartolomeo e l’Ammiraglio Cristodulo: è frequente che in testi agiografici ci sia­no tentativi, da parte dell’autore, di fornire al lettore prove di storicità – molto spesso inventate –, che diano alla narrazione maggior valore ed auctoritas. L’e­spressione τω βουλομένω μαθείν (r. 5-6) equivale a quella di par. 30, 17.

[114] L’autore dimostra grande rispetto nei confronti del re normanno. Il termine ρηξ è un calco del latino rex e si riferisce al sovrano d’Occidente; βασιλεύς, invece, sentito come termine molto più maestoso, veniva riferito all’imperatore d’Oriente, e spesso era usato per indicare Dio, sovrano celeste.

[115] In questa circostanza viene ammirata non tanto la dolcezza delle parole di Bartolomeo, quanto piuttosto la loro vigorosa schiettezza (r. 16-17) che contra­sta nettamente con le consuetudini oratorie degli ambienti cortigiani, adulatori e molli, mentre, d’altro canto, rientra perfettamente in quell’ideale di απλότης a cui si rifanno i monaci.

[116] εμφανής (r. 1): continua l’alternanza κρυπτώ/φανερόω, cfr. par. 11, 12, 13.

[117] Si tratta di abitazioni monastiche, non organizzate in veri e propri mona­steri, ma alle dipendenze della Νέα Οδηγήτρια. Si può parlare di una confedera­zione, o di una associazione di monasteri (per il fondamento giuridico di questo fenomeno, cf. De Meester, op. cit., p. 14 art. 29), dei quali uno è autonomo e gli altri sono alle dipendenze di esso, nel senso che sono amministrati secondo le re­gole del typicon che ha formulato l’ηγούμενος πρώτος. Il verbo μεταφυτευθήναι (r. 3) appartiene al frequentissimo campo semantico della botanica, e caratteriz­za perfettamente la natura di queste diramazioni monastiche.

[118] In genere, le dignità ccclesiastiche erano proibite ai monaci, ma «positis certis condicionibus, Hegumenus fieri potest rarissime Archiepiscopus vel Episcopus, saepissime, recentiori praesertim aetate, Archimandrita» (De Meester, o. c., p. 2 art. 42 § 1). Queste cariche potevano essere concesse o dal vescovo o dal patriarca, a seconda della loro giurisdizione. È interessante constatare con quanto grande cura nei typica di fondazione, o in altre costituzioni, venga stabilito il numero di coloro che possano ricevere l’imposizione delle mani (cioè una di­gnità ecclesiastica) e quali presupposti siano necessari.

[119] Per quanto riguarda il significato di επιστάτης (r. 6), possiamo fare riferi­mento all’art. 100 dello statuto monastico del De Meester, che dice: «S. Epistasia dicitur et est potestas esecutiva decisionum S. Communitatis». Si tratta, cioè, di una forma di aulorità nell’ambito di una comunità monastica, come, per esempio, quella del Monte Athos (κοινότης του Όρους), in cui venivano eletti quattro epistatai, dei quali uno era primus inter pares. Il fatto che questi capi e pastori di altri monasteri, scegliendo di entrare nel monastero di Bartolomeo, dovessero necessariamente spogliarsi delle loro cariche è stabilito da una legge del Canone II Synodi in templo S. Sophiae (879-880), che ingiungeva ai vescovi o a chi co­munque era insignito di una qualche carica ecclesiastica, di abbandonarla, qua­lora volesse entrale in monastero, e spiegava questa ingiunzione dicendo: «Αι γαρ των μοναχών συνθήκες υποταγή επέχουσι λόγων και μαθητείας, αλλουχί διδασκαλίας και προεδρίας ουδέ ποιμαίνειν άλλους, αλλά ποιμαίνεσθαι επαγγέλονται» (cf. A. Ralles, M. Potles, t. II, pp. 707-708).

[120] Costruzione (r. 8-9) perfettamente formulata a chiasmo, con la sostantivazione dello stesso verbo, usato prima in diatesi passiva con il complemento d’agente, poi in diatesi attiva con il complemento oggetto. La frase si chiude con un’en­diadi in climax: dall’assenza di pericolo (ακίνδυνον) si arriva ad una maggiore sicu­rezza (ασφαλέστερον). Inoltre, per renderci meglio conto di quanto accurato sia lo stile in questo punto, bisogna notare la formazione di entrambi gli aggettivi con alpha privativo e la presenza di una clausola ritmica a quattro intervalli.

[121] L’identità di questi monaci (r. 10-11) è ignota, ma sicuramente si tratta di due monaci che ebbero un certo ruolo nella fondazione del monastero e che era­no stretti collaboratori di Bartolomeo.

[122] ταπεινοφροσύνης και μετριότητος (r. 12): è la stessa coppia di sostantivi già riscontrata al par. 15, 3 (μετριοφροσύνης και ταπεινώσεως), anche se qui appare chiasticamente invertita. C’è, inoltre, corrispondenza anche tra εξ άκρας (r. 12) e di υπερβολήν di par. 15, 3.

[123] Uno dei doveri di chi fonda un monastero è «curare... ut aedificia ceteraque bona monasterii sarta tectaque serventur, imo amplientur et augeantur» (De Meester, op. cit., p. 9 § 2).

[124] Varie sono state le ipotesi di identificazione della città da cui proveniva questo vescovo Policronio: Ottavio Gaetani, Vitae SS. Siculorum, t. II, Panormi 1657, nelle Animadversiones, riteneva che si trattasse di una città della Fenicia o dell’Egitto, rifacendosi a Strabone; i Bollandisti, fondandosi su un diploma dell’Ughelli (IX, 502), credettero si trattasse di Polychronios, vescovo di Geruntia, vi­vente nel 1099; Batiffol, op. cit. p. 6, nota 2, più verisimilmente, riconduce que­sta città a Genecocastrum, come si legge nel provinciale di Albino e nel Liber Censuum, e cioè l’attuale Belcastro. L’autore ci presenta la visita del vescovo a Bartolomeo come un atto di omaggio e di stima nei confronti del santo da parte di un personaggio importante. Questo non ci meraviglia, dato che fa parte del­l’amplificazione tipica dell’encomio, ma dobbiamo cercare di scorgere più in pro­fondità i reali motivi di tale visita. Secondo lo statuto monastico (De Meester, op. cit., p. 9 § 19) «episcopus ius habet monasteria ceteraque loca monastica sive per se invisendi sive per delegatum, atque vigilandi utrum rite serventur discipli­na et officia ecclesiastica prout perscribuntur iure monastico communi et typicis seu constitutionibus propriis». Si tratta, quindi, di una consuetudine legata alla fondazione dei monasteri: tra le altre cose, al vescovo spettava anche l’approva­zione del typicon redatto dal fondatore.

[125] È la quarta ed ultima volta che egli viene nominato, cf. par. 5, 4; par. 6, 1; par. 11, 4. È sempre caratterizzato in modo analogo.

[126] Ci ricolleghiamo al problema dell’attribuzione di cariche ecclesiastiche a monaci, incontrato al par. 18. Il De Meester (op. cit., p. 95), delinea una breve sto­ria della questione: nel monachesimo delle origini, soprattutto di tipo eremitico, i monaci non venivano mai insigniti del sacerdozio (cf. Vita Pachomii, Acta SS. Maii III, p. 303). In seguito, S. Basilio (Epist. 256, P.G. t. XXXIX col. 945) ed altri legislatori sancirono che venissero ordinati tanti monaci quanti erano necessa­ri alla chiesa monastica e agli stessi monaci. Dopo la ceirotonia questi monaci ri­cevevano l’appellativo di ιερομόναχος, se ordinati al sacerdozio, di ιεροδιάκονος, se ordinati alla diaconia. Naturalmente «επισκοπώ προσήκει ως εικός και το χειροτονείν πρεσβυτέρους και διακόνους εκ των αυτών μοναχών»

[127] τις ειμί εγώ... ώστε (r. 16-17): è un’interrogativa retorica di derivazione bi­blica, usata frequentemente con diverse variazioni nel costrutto (cf. Ex. 3, 11; 1 Reg. 18, 18; II Reg. 7, 18; 9, 8; I Par. 17, 16; 29, 14).

[128] È un episodio topico delle narrazioni agiografiche. Sono messi in risalto i rapporti di parentela, che si ribaltano e si intrecciano in un continuo capovolgi­mento dei ruoli: i genitori diventano figli del proprio figlio, che a sua volta diven­ta loro padre spirituale. Ma vero e unico padre comune è Dio, verso il quale tutti tendono, spinti da amore naturale. Ancora una volta è la Fama, strumento divi­no, che viene sempre personificata, ad agire attivamente e far sì che il santo ven­ga circondato da innumerevoli personaggi, illustri e anonimi.

[129] τοις της φύσεως σπλάγχνοις νυττόμενοι (r. 3): è un’espressione forte e pre­gnante: τα σπλάγχνα sono le viscere, sede di stretti legami di sangue e di intensissimi affetti. La specificazione της φύσεως mette in evidenza la parentela naturale e l’indissolubile affetto che, per natura, si instaura tra genitori e figli.

[130] L’incontro tra i genitori e Bartolomeo è descritto dal punto di vista dei ge­nitori: essi si riempiono di una dolcezza profonda, rivedendo il proprio figlio. Proprio questa dolcezza l’autore tenta di ricreare, servendosi di vocaboli quali ηδέως, φίλτατον, μελιχρού (r. 5). Il verbo ενωτίζω (r. 6) è di derivazione biblica.

[131] αντιμισθίαν, ανταλλαξάμενοι, αντιμείψατο, αμοιβάς, ανταπέδωκε (r. 8, 12, 14): è molto insistito, anche dal punto di vista lessicale, il concetto di ri­compensa, del restituire in cambio di ciò che si è ricevuto: la preposizione anti compare ben quattro volte nella composizione delle suddette parole.

[132] L’autore interviene in prima persona, rivolgendosi ai suoi ascoltatori con questa formula conclusiva che ci dimostra quanto chiara sia nelle sua mente la struttura e la necessità del suo racconto. L’espressione è uguale a par. 27, 41.

[133] L’antica Roma (r. 2) è contrapposta alla νέανΡώμην di par. 25, 8-9, cioè Costantinopoli (cf. Follieri, La Vita di san Fantino... cit., par. 2, 7). Mantenendo lo stesso nome, le due città vengono a trovarsi sullo stesso piano quanto a impor­tanza e prestigio. Questo è lo spirito della concezione politica che vede l’Impero Bizantino come un nuovo Impero Romano.

[134] I σιγίλλια (r. 2) sono la bolla che il papa concesse a Bartolomeo, per assicurare l’autonomia al monastero del Patìr. Una notizia di questa bolla si trova in una nota contenuta nel f. 117r del codice Vat. gr. 2050 (cf. Montfaucon, Palaeographia graeca cit., p. 287; P. Schreiner, Notizie sulla storia della Chiesa greca in Italia dal VII al XVI sec., II, Italia Sacra 21, Padova 1972, pp. 883-908, a p. 894; in italiano, da M. Scaduto, Il monachesiino basiliano nella Sicilia medievale, Storia e Letteratura 18, rist. Roma 1982, p. 171). Siamo di fronte a un episodio riconducibile ai «conflitti di giurisdizione tra vescovi e monasteri, che erano assai frequenti per la spiccata tendenza dei primi ad ingerirsi nella vita interna delle fondazioni monastiche, soprattutto ciò che si riferiva all’amministrazione temporale. [...]. I monaci per sfuggire all’autorità del loro ordinario cercavano in un modo o nell’altro di ottenere il privilegio di esenzione, facendosi dichiarare autodespotici, ovvero passando alle dirette dipendenze del Patriarca (= monasteri stauropegici) che assicurava loro una libertà più ampia, perché il suo controllo, data spesso la lontananza, si esercitava più raramente». (Scaduto, op. cit., p. 279).

[135] Mantenendo sempre l’andamento binario di sostantivi e aggettivi, l’autore in questo contesto (r. 5-6) sottolinea la saggezza e la grande abilità oratoria di Bartolomeo. L’aggettivo neutro sostantivato το φιλόσοφον (gli aggettivi neutri sostantivati esprimono solitamente concetti astratti), che significa propriamente saggezza di pensiero, ha assunto, tramite il massiccio influsso della sofistica sulla filosofia, l’accezione di saggezza di parola, riconducibile piuttosto all’ambito dell’oratoria. Inoltre si deve osservare che a Bisanzio molto spesso φιλόσοφος designa il monaco.

[136] τυράννων απηνείαι (r. 8-9) è una metonimia. È difficile stabilire la realtà storica di questi tiranni. Infatti, si tratta di un’allusione generica ed imprecisata, probabilmente riconducibile ad un topos letterario. In ogni caso, è immediatamente riconoscibile l’intento encomiastico che sottende quest’episodio: la grandezza carismatica del santo è capace di sciogliere i cuori più duri.

[137] προς βροχισμόν και ανάρτησιν (r. 9-10): nell’edizione degli Acta Sanctorum i Bollandisti riportano βρόχον = cappio. Ma il sostantivo βροχισμός (o βρουχισμός/βευχισμός) è attestato nel greco tardo, e significa lamento, gemito: E. Kriaras, Λεξικό της μεσαιωνικής ελληνικής Δημώδους Γραμματείας 1000-1669, IV, Θεσσαλονίκη 1975, p. 205, lo traduce con θρήνος, οδυρμός e riporta un verso del Θρήνος Κωνσταντινουπόλεως: «εδώ κλαθμός και δάκρυα και βρουχισμός μεγάλος»). Abbiamo un’ennesima endiadi, che dà la miglior prova della validità della lezione e ne offre una spiegazione: si tratta di un nesso causa/effetto tra impiccagione e lamento, che ho voluto rendere traducendo lo strazio dell’impiccagione.

[138] αιμονοχαρής (r. 1), piuttosto raro, è sinonimo del più usato αιματοχαρής; οδοστάτης è un aggettivo proprio del greco tardo. A questa coppia è collegata chiasticamente l’altra coppia ληστείαις τε και εμφυλίοις (ivi). Quale sia l’ef­fettiva realtà storica di quest’episodio è pressoché impossibile stabilire; a mio av­viso, siamo di fronte ad una commistione tra un topos agiografico (la redenzione che il santo opera su personaggi negativi e sbandati), e la storicità della figura dei briganti nella Calabria dell’XI-XII secolo. A questa commistione va aggiunta l’eco letteraria di cui è pervasa l’espressione εμφύλιοι φόνοι: si tratta, infatti, di una formula frequentissima nella storiografia classica e presente anche nei tragici, che aveva una connotazione di estrema negatività. Era il simbolo della amoralità, della crudeltà, della mancanza di ευσέβεια nei confronti della divinità, e del de­grado umano.

[139] Per l’uso particolare dell’aggettivo μόνος (r. 2), cf. par. 19, 13. Qui è usato personalmente, riferito al soggetto, piuttosto che all’oggetto.

[140] ακανθώδες, άκαρπον, ριζόθεν, ενεφύτευσεν (r. 9-11) sono tutte parole ap­partenenti alla terminologia botanica, così frequente in tutta la Vita. La tipologia di queste metafore botaniche è di derivazione evangelica (cf. per esempio, la pa­rabola del raccolto nato da un buon seme rovinato però dal loglio, in Matteo, 13, 24-30; cf. inoltre il tema di Dio-agricola, padrone di una vigna che egli affida ad uomini scelti affinché la lavorino, in Matteo, 20, 1-16) e si riscontra in innumerevoli testi di contenuto religioso: voglio qui citare la bellissima immagine di Dan­te, Par. XXVI 64-65: «Le fronde onde s’infronda tutto l’orto/ de l’ortolano ettenro am’io cotanto/ quanto da lui a lor di bene è porto».

[141] Ritorna (r. 26) l’espressione di par. 20, 4. Le viscere rappresentavano nell’antichità la sede delle passioni.

[142] Secondo le regole dello statuto monastico, le case per l’accoglienza degli ospiti dovevano trovarsi nell’ambito del monastero, ma al di fuori dei luoghi de­stinati alla comunità dei monaci (questo è il senso di ανα).

[143] La επίδειξις (r. 32) è la funzione epidittica delle narrazioni agiografiche: esse, infatti, sono volte a dimostrare, attraverso gli exempla, la virtù e la santità dei personaggi di cui è narrata la vita.

[144] L’esordio è espresso con due genitivi assoluti (r. 1-3) che, con la loro forza sintetica, creano le premesse a cui farà seguito il miracolo. L’episodio sembra totalmente astratto dal tempo storico: l’indefinito πότε lascia alla contingenza un’importanza di secondo piano. La carestia è un topos ricorrente nei racconti agiografici: rappresentava, infatti, una situazione di crisi e di disperazione, che si ripeteva piuttosto spesso nel Medio Evo ed era ben conosciuta da tutti, autori e destinatari, assumendo così il valore di esperienza comune.

[145] Genitivo esclamativo (r. 8-9) che interrompe l’andamento ipotattico e discorsivo della narrazione e provoca un sussulto di sorpresa negli ascoltatori, risvegliando la loro attenzione e facendola concentrare sulla descrizione del miracolo (cf. par. 11 e 29).

[146] È la formula di raccordo (r. 1-3) tra questo episodio ed il precedente. Il collegamento tra i due episodi è costruito tutto sulla correlazione di μεν e δε e sull’uso dei pronomi dimostrativi τοιούτον = ciò che è stato appena narrato ed εκείνο = quello che sta per essere narrato.

[147] Il monastero del Patìr immerso tra le boscose montagne della Sila greca, in una splendida posizione che domina la vasta piana di Sibari ed il mare. Certo, la distanza dal mare era notevole. Ciononostante, il fatto che il monastero possedesse una propria barca è tutt’altro che inverosimile: anche nella Vita Fantinii, al par. 22, ci sono dei monaci che pescavano sulla spiaggia del Mercurion. Il pesce costituiva per i monaci un alimento fondamentale, in quanto essi non mangiavano carne.

[148] Le scorrerie dei Saraceni erano molto frequenti nella Calabria dell’XI-XII sec., ed anche nei secoli precedenti, tanto da diventare un topos delle narrazioni agiografiche dell’Italia meridionale.

[149] È la prima volta che l’autore esprime con precisione la data (r. 7-8), pur mancante dell’indicazione dell’anno, in cui si svolse l’episodio da lui narrato. La solennità del momento viene in questo modo messa in primo piano. L’espressione εβδομάδος εβδόμη και τελευταία ημέρα per indicare il Sabato è un gioco di parole che mette in risalto il valore simbolico del numero sette. Ancora una volta troviamo l’aggettivo λαμπρός (cf. par. 3; 13; 14), qui usato avverbialmente (r. 9), con il significato di sontuosamente, splendidamente.

[150] το κυριακόν (r. 13-14) è la casa del Signore, che sta molto spesso ad indicare proprio la chiesa dei monasteri, in cui venivano celebrate le preghiere in comune ed in cui tutta la comunità monastica si radunava la Domenica.

[151] Come già al par. 14, anche qui siamo di fronte ad un riferimento alle prescrizioni liturgiche seguite dai monaci: nella nona ora canonica (r. 14) veniva celebrata la preghiera in ricordo della morte di Cristo. Gli elementi costitutivi delle preghiere delle ore canoniche rimangono sempre gli stessi, in qualsiasi giorno, senza riguardo alla ricorrenza liturgica o alla particolare commemorazione di santi.

[152] L’economia del testo deve evitare la μακρηγορία (r. 24), termine proprio dell’ars retorica, vale a dire l’eccessivo dilungarsi in narrazioni che potrebbero causare negli ascoltatori un senso di saturazione (προσκορής) e di noia.

[153] La μελέτη e la ανάληψις (r. 1-2) sono i due momenti di un percorso di studi teologici che i συνασκηταί seguivano sotto la guida di Bartolomeo. I metodi di studio sono la ricerca e l’esegesi dei significati scritturali (εξερευνώντες και ανιχνεύοντες r. 4).

[154] Ritorna l’andamento binario dell’aggettivazione, che in questo caso crea una coppia sinonimica (αγενές και άνανδρον, r. 6) e, nello stesso tempo una lito­te (negazione μηδέ + aggettivo composto con alpha privativo). L’andamento binario procede con un’altra coppia: πολύ και δυσχερές, due aggettivi neutri che, so­stantivati, assumono il valore di termini astratti.

[155] Ritroviamo una spiccata somiglianza tra la figura dell’Ammiraglio Cristodulo e Basilio Calimeris: sono entrambi personaggi legati agli ambienti di corte, l’uno a quella normanna, l’altro a quella bizantina; entrambi nutrono per Bartolomeo una grande ammirazione ed un forte affetto; entrambi gli offrono il proprio aiuto e le proprie ricchezze e gli consentono l’uno di fondare S. Maria del Patìr, l’altro di restaurare il monastero di S. Basilio sull’Athos. Ma esaminiamo più da vicino le connotazioni lessicali: λίαν εγγίζων τοις βασιλεύσιν (qui r. 1) corrisponde a par. 17, 2-3 παρά μεν τοις επίγειοις βασιλεύσι μεγάλα... δυνάμενον. Ούτως θερμοτέραν των άλλων την αγάπην κεκτημένος (qui r. 2-3) corrisponde sia a par. 17, 1 πρώτος ομού των άλλων και θερμότατος συνεργός, sia, ancor di più, a par. 17, 4 πολλήν την της αγάπης κεκτημένος θερμότητα. Anche la profonda religiosità è comune a questi due personaggi.

[156] Il fatto che un monastero sia di proprietà di un laico è così spiegabile: potrebbe trattarsi del «sistema del charisticium» che Alessio I Comneno cercò di migliorare, inerente al passaggio di monasteri e di proprietà di monasteri ad amministratori laici, con lo scopo di promuoverne lo sviluppo economico (cf. Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, trad. di P. Leone, Torino 1993); ma, dal momento che l’autore usa il verbo κτάομαι per definire il legame che Basilio Calimeris aveva con il monastero, sarei più propensa a cercare migliore spiegazione nello κτητορικόν δίκαιον, cioè nelle regole, che costituiscono la base del diritto di fondazione. Il fondatore di un un monastero può essere: 1) un laico; 2) un chierico secolare, ossia il Patriarca, il Metropolita, il Vescovo; 3) un monaco, uno ieromonaco, un egumeno. Oltre al fondatore propriamente detto, ci sono anche altri che partecipano ai privilegi ed ai doveri primari del fondatore: di questa categoria fanno parte: 1) coloro che provvedono al restauro e all’ampliamento del monastero; 2) coloro che finanziano la fondazione del monastero; 3) coloro che amministrano o proteggono il monastero, che hanno gli appellativi di επίτροπος, αντιλαμβανόμενος, έφορος, protector. Tutti costoro, sotto diverse forme, possiedono ed esercitano i diritti «ctetorici» sui monastero. Basilio Calimeris è, senza dubbio, uno di questi: come scrisse A. Pertusi, Monasteri e monaci italiani all’Athos nell’Alto Medioevo, in Le millénair du Mont Athos 963-1963, Chevetogne 1963, p. 240: «Basilio Kalimeris poi non era soltanto un protettore del convento di S. Basilio della Santa Montagna, ma secondo l’affermazione esplicita dell’agiografo lo possedeva (εκέκτητο), cioè forse l’aveva fondato egli stesso dotandolo di beni attraverso un τυπικόν κτητορικόν».

[157] Il nome che viene attribuito ad un monastero può essere quello 1) del santo protettore; 2) del fondatore o del restauratore; 3) di colui che possedeva o possiede il suolo sul quale il monastero è eretto; 4) della regione o della città in cui si trova; 5) della patria dei monaci che ci vivono. Qui il nostro autore dice che il monastero è intitolato a S. Basilio rivelatore di cose celesti; è solo una semplice coincidenza che il nome del santo sia lo stesso di quello di Basilio Calimeris?

[158] I monaci di questo monastero del Monte Athos vengono definiti ασκηταί (r. 11): al di là della frequenza dei casi in cui questo sostantivo ha il generico valo­re di monaco, bisogna tener presente che i monasteri dell’Athos avevano regole ri­gidamente ascetiche, per cui è assolutamente appropriato chiamare asceti i mo­naci che vi dimoravano, il giovamento che Barlolomeo procurò loro è da inten­dersi nel senso di una riforma volta a creare un miglioramento nella vita ascetica: il verbo ρυθμίζω (r. 12) ha il significato tecnico di ordinare, dirigere, regolare; lo abbiamo già incontrato in questa sua accezione tecnica al par. 18,4, in riferimen­to all’ordinamento che il typicon sanciva per il monastero appena fondato. Esso è perfettamente appropriato, se si pensa che proprio durante il regno di Alessio I Comneno ebbe luogo un importante movimento di riforme nella vita monastica, fervidamente appoggiato e favorito dall’imperatore stesso, preoccupato per la si­tuazione di rilassata decadenza che regnava nei monasteri. Secondo la lezione del codice, dobbiamo leggere ρυθμίσας αυτός προς το βέλτιον (r. 12): forse a cau­sa di una certa difficoltà nella lettura di questo punto sul manoscritto, questa pa­rola è stata interpretata in vari modi: nell’edizione degli Acta Sanctorum i Bollandisti riportano nel testo greco la lezione μέλπιον, ma in nota osservano che «μέλπιον in secundo apographo legitur, in primo βέλπιον» e concludono, giustamente «legendum puto βέλτιον». A. Mancini, Per la critica... cit., p. 500 commenta: «le due lezioni degli apografi avuti dai Bollandisti sono una prova della poca pratica dei lettori»; A. Pertusi, nel suo articolo Monasteri e monaci italiani all’Athos... cit., p. 239 riporta ιinspiegabilmente προς το μέλλον.

[159] Gli avverbi εκείθεν e ενταύθα (r. 13-14) sono usati dal punto di vista dell’autore: εκείθεν = , vale a dire il Monte Athos, luogo lontano rispetto all’au­tore e ai suoi ascoltatori, mentre εντάυθα = qui sta ad indicare la Calabria.

[160] Il passaggio della προστασία = reggenza del monastero è stabilito dall’egumeno precedente, che, in presenza di tutta la comunità dei monaci, elegge il suo successore (cf. anche par. 31, 16-17).

[161] Molto probabilmente il monastero, che l’autore definisce sottoposto (r. 18) a Bartolomeo, era a lui legato da un rapporto di dipendenza e associazione, cf. la definizione riportata dal De Meester, op. cit., art. 29: «prima monasterium unio est ea quae fit inter unum monasterium autonomum et cetera a beo dependentia, ita ut Hegumenus aut Superior monasterii autonomi ceteteris imperet monasteriis aut monachorum mansionibus cuiusvis generis». I monasteri associati e/o dipendenti erano amministrati secondo il typicon del monastero a cui facevano capo.

[162] L’esistenza di un monastero «του Καλαβρού» (r. 20) sul Monte Athos è testimoniata da un υπόμνημα (cf. Pertusi, Monasteri e monaci... cit., p. 241) di Paolo, il «protos» dell’Athos, al monastero di Iviron, del 1080, in cui la Μονή του Καλαβρού è menzionata; inoltre, in un atto di donazione (1108?) del κελλίον di Profourni, a Karyes, in favore della Μεγάλη Λαύρα, si legge, tra le firme degli ultimi testimoni: «Ιγνάτιος μοναχός και ηγούμενος της μονής του οσίου πατρός ημών Βασιλείου των Καλαβρών». In base a queste attestazioni, Pertusi ipotizzò che «il convento aveva già denominazione ... e l’agiografo credette opportuno di dedurre tale nome dal soggiorno del santo con intento manifestamente elogiastico».

[163] L’ευκτήριος οίκος (r. 11) è un oratorio «prope dominantem ecclesiam erectum» (De Meester, op., cit., Index). La necessità di consacrare il luogo in cui saranno costruiti i nuovi oratori, per purificarlo dagli spiriti impuri, fa parte delle norme attinenti ad ogni nuova fondazione di monasteri: negli εντάλματα che ven­gono mandati all’esarca si legge: «Δια την σην ευλάβειαν άπασι παραίνειν, οίς η γνώμη προς το νεουργείν εστίν ιερά φροντιστήρια, μη οικοδομείν ταύτα εν ασέμνοις τόποις [...]». Il rito di purificazione dell’area in cui deve essere eretto un edificio sacro consiste in una «processio sollemnis» che sancisca l’inizio della costruzione, in una «benedictio loci cum orationibus ad hoc praescriptis», che corrisponde esattamente alla προσηκουσα τω Θεώ δοξολογία (r. 14), ed infine nella «fixio crucis», che rappresenta il segno del consenso del vescovo o del patriarca.

[164] Questa seconda parte dell’episodio (r. 15 ss.), dato il suo carattere «didascalico-dogmatico», è riconducibile alla categoria menandrea degli Επιτηδεύματα. Bartolomeo si dedica completamente alla cura delle anime dei suoi monaci: li esorta ad osservare una serie di precetti ascetici che consistono 1) nell’essere sempre forti (γενναίως ίστασθαι) nel resistere alle insidie del demonio; 2) nel sopportare con vigore (μη ανάνδρως) i dolori dell’ascesi, senza farsi sopraffare (μικροψυχείν) da essi; 3) nel tenere sempre viva la speranza della ricompensa, traendo forza (νευρούσθαι) da essa; 4) nel non mostrare mai alcun indugio (μηδένα τε όκνον... επιδεικνύσθαι) nel rivolgere la preghiera a Dio. I termini usati appartengono al campo semantico atletico: Bartolomeo assume il ruolo di παιδοτρίβης nell’allenare i suoi discepoli alle virtù dell’ascesi.

[165] La terminologia è estremamente precisa e per molti versi riconducibile al lessico retorico-filosofico: τεκμήριον (r. 24) è la prova oggettiva di un fenomeno che si vuole dimostrare; il sostantivo astratto απροσεξία (r. 23) indica un atteggiamento comportamentale codificato ed individuabile in manifestazioni esteriori della persona, che in questo caso sono il muovere esclusivamente le labbra nel pregare, senza che la mente partecipi alla preghiera; la definizione di ο αληθώς προσευχόμενος (r. 25) per indicare colui che prega con sincerità, si basa sul concetto filosofico di antitesi tra ουσία e δόξα. Essenziale è innanzi tutto concentrare su un punto solo il pensiero (τον λογισμόν πάντοθεν συγκροτείν) e fissare su di esso la mente (τον νούν... ερειδείν, r. 25-27): le parole pronunciate, in tal modo, scaturiranno direttamente dall’anima e soltanto allora saranno vere e sincere. L’autore si serve, per dimostrare questo concetto, di un ragionamento per assurdo (άτοπον γαρ), secondo l’andamento delle argomentazioni della logica. La dimostrazione si conclude con una esemplificazione, espressa con un periodo ipotetico della realtà, la cui apodosi è costituita da un’interrogativa retorica, che rappresenta una dimostrazione «autoevidente». Sono abili espedienti retorici, che presuppongono una scaltra conoscenza stilistica.

[166] Questa prima frase è di difficile comprensione: ad una prima lettura, sembra che i due monaci di cui si parla siano monaci del monastero di Bartolomeo, o comunque di un monastero sottoposto alle sue regole; poco dopo, invece, ci si rende conto che si tratta di due monaci del monastero di Sant’Angelo di Mileto. Forse l’autore intendeva dire che Bartolomeo aveva frequenti (πολλάκις) contatti con monaci di altri monasteri, fatto che sarebbe perfettamente verisimile, conoscendo la grande fama che egli aveva e la sua spiccata capacità di «rifor­matore» dimostrata nel suo viaggio al Monte Athos. La μονή του Αγίου Αγγέλου του Μηλητήνην è stata identificata con l’abbazia benedettina della Trinità, nella diocesi di Mileto (L. R. Ménager, L’abbaye bénédectine de la Trinité de Mileto en Calabre à l’epoque normande, in Bullett. dell’Arch. Paleogr. Ital. n.s. 4-5, 1958-59, pp. 9-94 pubblica dei diplomi di donazioni in cui si riscontra l’appellativo di Sant’Angelo riferito alla Trinità di Mileto: n° 2 a.1070; n° 8 a.1087; n° 9 a.1093; n° 11 a.1097; n° 16 a.1092). Il nome Άγιος Άγγελος è un calco dell’espressione latina Sanctus Angelus, che indica S. Michele. Nel mondo greco erano e sono tuttora usati gli appellativi αρχάγγελος, ταξιάρχης, αρχιστράτηγος.

[167] Per la prima volta e per bocca dei due monaci Bartolomeo viene chiama­to con il semplice appellativo di μοναχός (r. 9): nel resto della narrazione egli vie­ne sempre definito όσιος, μέγας, μακάριος, ιερός. L’intento dei due calunniatori è chiaramente quello di sminuire agli occhi del re la figura di Bartolomeo e per questo essi lo trattano, innanzi tutto, come un semplice monaco, poi, procedendo in una climax di accuse, lo definiscono πλάνος (r. 10) = fraudolento, ingannatore, e per finire addirittura αιρετικός.

[168] Costruzione con nominativo assoluto (r. 13-14), molto frequente nel gre­co postclassico.

[169] Interessante è l’uso del verbo χαράσσω (r. 3) che nel paragrafo precedente (r. 14) era riferito a γράμματα: è un verbo molto usato per designare la scrittura, e questo suo significato deriva dalle tecniche e dai supporti della scrittura antica (tavolette di legno incerate, όστρακα, fogli di pergamena vergati con un calamo duro ecc.).

[170] Vengono descritti tutti i particolari ed i momenti della scena che precede il miracolo (r. 8 ss.). Anche l’indicazione del luogo in cui la cerimonia si svolge viene indicato con precisione: εν τινί ναώ του Αγίου Νικολάου της Πούντης πλησίον της πόλεως Μεσσήνης. Secondo l’interpretazione di A. Mancini, Per la critica... cit., p. 503, che ritengo molto verisimile, «πουντη non è che punta e corrisponde esattamente alla forma in lingua Phari, con cui si designò lo stesso monastero del Salvatore». Alle righe 12-14 abbiamo una costruzione formata da un nominativo assoluto (ο μέν άγιος αμφιασμένος και... αρξάμενος), seguito dal vero soggetto della frase (ο Θεός ο... δοξάζων και μη εγκαταλείπων) che viene presentato, in analogia al nominativo precedente, con due participi. Il verbo θαυματουργεί è chiaramente riferito a Θεός: è Dio l’artefice del prodigio; il santo, che è intermediario di Dio, non è che la manifestazione terrena della gloria divina.

[171] L’autore partecipa in prima persona alla narrazione, ed esprime emozione e stupore di fronte ai prodigi (r. 20): cf. par. 11, 7; par. 23, 8-9.

[172] Il verbo έχω nella lingua neogreca, in simili contesti (r. 22), sta proprio ad indicare una passione o uno stato d’animo che prende possesso di tutta la persona. La φρίκη è propriamente un brivido di terrore, di raccapriccio: qui (come anche al par. 11, 7) va inteso come un senso di estremo stupore, misto al timore di Dio.

[173] La gestualità che viene descritta (r. 26-27) faceva sicuramente parte di un rituale codificato: le braccia incrociate sono un segno di umiltà e sottomissione proprio di chi rivolge una preghiera; lo stare inginocchiati denota pentimento; il rotolarsi per terra ai piedi del santo è l’annullamento di sé, lo spogliarsi di ogni velleità.

[174] Bartolomeo li benedice e li assolve (r. 30): il verbo εύχομαι, con i suoi composti, ha spesso il valore di benedire.

[175] La volontà del re appare molto chiara: egli vuole la creazione di un importante monastero (r. 4 ss.) e a questo scopo egli effettua numerosi donativi in denaro, terreni e arredi sacri. Υποστάσεις è da intendersi nel senso di materiali necessari alla costruzione; ιερά κειμήλια sono gli arredi sacri inalienabili del monastero, custoditi dallo σκευοφύλαξ. Alla riga 6 viene ripetuta, in chiasmo con r. 4-5, l’espressione μέγιστον μοναστήριον, con voluta insistenza sulla grandezza ed importanza del monastero.

[176] Molto discussa è la partecipazione ed il ruolo che Bartolomeo ebbe nella fondazione del S. Salvatore. Qui si parla di concorso (r. 7) del santo alla realizzazione di un progetto interamente ideato e finanziato dal sovrano normanno.

[177] Monaco facente funzioni di igumeno (ndr).

[178] La scelta di Luca (r. 13) come futuro egumeno del monastero del S. Salvatore è riportata dal biografo con una certa anticipazione di tempo e con notevoli incongruenze rispetto a quello che dirà nel par. 31. La coppia καταστήσας και εκλέξας costituisce un hysteron proteron, dal momento che, secondo la logica, prima Bartolomeo scelse il monaco Luca e poi lo pose a capo del nuovo monastero come egumeno.

[179] L’episodio si apre con un breve riepilogo della vita di Bartolomeo, espresso in forma ipotattica: i quattro participi κατακοσμήσας, γεγονώς, προσομιλήσας, διαλύσας (r. 1-8), sorreggono la complicata struttura sintattica e riassumono le caratteristiche salienti della vita del santo, identificate con 1) l’aver adornato la vita con opere virtuose, 2) l’essere stato per molti modello di vita angelica, 3) l’aver avuto familiarità con le tentazioni e 4) essere riuscito a combatterle. Dopo il breve riepilogo, c’è una proposizione temporale (ως r. 8) che riporta la narrazio­ne al punto in cui era stata lasciata: Bartolomeo è ormai vecchio e malato ed è sul punto di morire (αποδημέω = partire, απαίρω = allontanarsi, partire, fare vela ver­so la città celeste).

[180] Si tratta (r. 17) di una palese incongruenza con quanto era stato detto al par. 30: Luca era stato nominato egumeno del S. Salvatore e si era recato a Mes­sina insieme agli altri dodici monaci scelti da Bartolomeo. A questo proposito M. Scaduto, Il monachesimo basiliano... cit., p. 176 scrive: «Dall’insieme del discor­so mi pare evidente che nell’intenzione dello scrittore questo Luca sia differente dal primo, che si presuppone già per i fatti suoi a Messina. Si tratta evidentemen­te di uno sdoppiamento della stessa persona, di quel Luca cioè, che succeduto a Bartolomeo nel 1130, ottenne nel maggio del 1131 dal re Ruggero la conferma di tutte le proprietà fondiarie che il monastero di S. Maria aveva ricevuto sia da lui, come dai suoi predecessori o da altri donatori».

[181] È la seconda parte di quest’ultimo episodio, in cui assistiamo alla commovente scena di Bartolomeo che si congeda dai suoi monaci. La lingua assume connotati di alta poesia e la narrazione procede pacata e solenne, riecheggiando passi del Fedone platonico (cf. Phaed. 64a; 117 c-d). Anche qui la sintassi è caratterizzata dal susseguirsi di participi: si viene in tal modo a creare un andamento morbido e continuo, che si protrae lentamente nella descrizione di stati d’animo e di sguardi.

[182] Ancora una serie di participi (r. 45 ss.) che descrivono le ultime azioni di Bartolomeo. Interessante è l’uso del verbo φιλοσοφέω, nel suo significato di esprimere pensieri, riflettere.

[183] Con estrema precisione, l’autore specifica il giorno ed il mese della morte del santo (r. 51-52), tralasciando però di indicare l’anno. Esso si può comunque ricavare dal typicon di Rossano (cf. M. Scaduto, op. cit. nota 39 a p. 175) che ricorda: «εγένετο δε η κοίμησις εν έτει ¸ςχλη» (= a.D. 1130), e dalla nota del Vat. gr. 1912, f. 6, pubblicata dal Batiffol, op. cit., p. 35, che lo dice morto «του έτους ¸ςχλη».

[184] Molto brevemente vengono descritte le esequie (r. 53 ss.). Da quanto di­ce il biografo, l’ασκητικόν και ιερώτατον λείψανον fu sepolto nel monastero della Vergine Odighitria. Questo era previsto dallo statuto monastico: «Fundatores sepeliri possunt intra septa monasterii. Officia et liturgia (τα μνημόσυνα) celebrantur ad eorum animas suffragandas, pluries in anno aut saltem die anniversa­ria mortis».

 

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