I SANTI MARTIRI GRECI

 

Nota introduttiva

Nel coemeterium di san Callisto a Roma, sulla via Appia nell’Arenario, presso la cripta dei papi, una grande lapide fatta apporre da san Damaso ricorda ai pellegrini i martiri più insigni che ivi riposavano. Tra di essi menziona “i Santi Confessori inviati dalla Grecia”: Hic confessores sancti quos Graecia misit, ricordati nel Martirologio Romano il 2 dicembre: a Roma i santi Martiri Eusebio prete, Marcello Diacono, Ippolito, Massimo, Adria, Paolina, Neone, Maria, Martana ed Aurelia[1], i quali tutti compirono il martirio nella persecuzione di Valeriano, sotto il giudice Secondiano.

Denominati Martiri Greci, furono in grande venerazione nell’antica Roma cristiana. Sulle loro tombe, erano posti due elogi metrici[2], attribuiti a papa Damaso[3], nel secondo epitaffio è menzionata una passio che i cristiani leggevano nel dies natalis dei santi; di essa purtroppo ci resta solo la parte relativa al processo e al martirio, riportata da Cesare Baronio nei suoi “Annales Ecclesiastici”, tratta, come egli stesso annota, “da un antico manoscritto quasi distrutto per l’antichità, salvato dall’usura del tempo e corretto per quanto possibile da parecchie mende…”.

Nell’ottavo secolo, a causa delle scorrerie dei Barbari, i corpi dei santi Ippolito e della sorella Paolina, del marito di lei Adria e dei loro piccoli figli Maria e Neone, furono traslati nell’Urbe presso la Chiesa di Sant’Agata dei Goti, dove sono ancora oggi molto venerati.

Il padre Luigi Malamocco nel “romanzo storico”[4] Martyrion, partendo dalle poche fonti rimaste, ha tentato di ricostruire quella parte della passio che è andata perduta.

 

Testo dei due epitaffi attribuiti a papa Damaso:

Il gruppo sacrilego inviato una volta dalla Grecia,
risplende ora con la palma del martirio.
Esso nel mezzo del mare offrì a Giove portatore di morte,
come voto spregevole, doni nefandi.
Ma la fede di Ippolito, per prima, respinse con armi celesti
l’insano e pestifero contagio (del paganesimo):
egli andò a nascondersi, come un monaco, in una spelonca
che divenne dolce ricovero alle folle cristiane.
Dopo di lui Adria, purificato nel sacro fiume,
e Paolina, sua sposa
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con la figlia Maria ed il caro fratello Neone
raggiunsero gioiosi la fede: seguendo i precetti di Cristo,
distribuirono ai poveri generosamente le proprie ricchezze,
facendo avvicinare al sommo Iddio la santa comunità
con le loro energie, esortazioni e le loro instancabili fatiche.
Poi non temettero di morire per guadagnare la vita
donando le loro anime a Cristo
con l’effusione del sangue
Chi dalla lettura di questa passio verrà istruito nelle loro virtù,
imparerà che Dio assiste giustamente i suoi servi.

 

Passione dei Santi Martiri Greci

(dal manoscritto acefalo scoperto dal Baronio)

Anno 256 dopo Cristo, mese di Ottobre

L’altare dove riposano i corpi santi dei martiri Greci,
chiesa di S. Agata dei Goti, Roma

 

Valeriano mandò settanta soldati per arrestare Eusebio, Adria, Ippolito, Paolina, i loro figli e condurli incatenati al Foro Traiano. Il diacono Marcello accorrendo, rimproverò Valeriano di tener prigionieri gli amici della verità. Allora Secondiano (il giudice) disse: “Anche costui è cristiano come gli altri”. Introdotto per primo il presbitero Eusebio, il giudice lo interrogò: “Sei tu quello che reca disturbo alla città? Di’ intanto il tuo nome”. E quello: “Mi chiamo Eusebio e sono presbitero”.

Allora il giudice lo fece mettere da parte e fece introdurre Adria. Entrato, richiesto del suo nome, disse: “Adria. Quello che cerchi è piuttosto tardi perché lo possa avere!”. Allora il giudice: “Donde ti deriva questa abbondanza di beni e di ricchezze con cui seduci il popolo?”. Adria disse: “Nel nome del Signore mio Gesù Cristo, dal lavoro dei miei genitori”. Il giudice disse: “Dunque se ti è stata lasciata un’eredità dai tuoi genitori, usala per te e non per subornare gli altri!”. Adria disse: “La spendo integralmente ed onestamente per l’utilità mia e dei miei figli”. Il giudice chiese: “Hai moglie e figli?”. Rispose: “Sono con me in catene”. Il giudice disse: “Siano introdotti”. Allora fu introdotta Paolina con i figli Neone e Maria. Li seguivano il diacono Marcello ed Ippolito. Disse il giudice: “È questa tua moglie e questi i tuoi figli?”. Disse: “Sì, lo sono”. Aggiunse il giudice: “E questi altri due chi sono?”. “Questo è il beato diacono Marcello e quest’altro mio cognato Ippolito, particolare servo di Cristo”. Allora il giudice rivolto a loro disse: “Dite voi stessi come vi chiamate”. Risponde Marcello: “Mi chiamo Marcello diacono”. Il giudice disse ad Ippolito: “Di’ il tuo nome”. Ippolito disse: “Ippolito, servo dei servi di Cristo”.

Allora il giudice ordinò di segregare Paolina ed i suoi figli e disse ad Adria: “Tira fuori i tesori, e con costoro con i quali sei stato arrestato sacrificate ed avrete salva la vita, altrimenti morirete presto e perderete la vita”. Risponde Ippolito: “Noi abbiamo lasciato i vuoti pensieri ed abbiamo trovato la verità”. Disse il giudice: “Che hai guadagnato nella permuta?”. Risponde Ippolito: “Abbiamo buttato via i vani idoli ed abbiamo trovato il Signore del cielo, della terra e dell’abisso del mare, Cristo Gesù Figlio di Dio in cui noi crediamo”. Allora il giudice ordinò che fossero rinchiusi nella pubblica prigione e non venissero separati e furono condotti al Carcere Mamertino[5].

Tre giorni dopo, chiamati a consiglio, i giudici Secondiano e Probo fecero allestire il tribunale ed apprestare gli strumenti di tortura. Ed introdotto Adria si trattò di nuovo della questione dei beni. Risultato senza esito l’interrogatorio, il giudice ordinò di accendere il fuoco davanti a Pallade ed ordinò loro di offrire l’incenso. Ed essi si rifiutarono e si prendevano gioco del giudice. Allora ordinò che fossero spogliati e, nudi, sottoposti a stiramento e flagellati. La beata Paolina, percossa con più furore rese lo spirito a Dio.

Vedendo ciò, il giudice condannò Eusebio e Marcello alla decapitazione. Furono condotti alla Pietra Scellerata[6], presso l’anfiteatro del Lago del Pastore ed ivi furono decapitati il beato presbitero Eusebio e il diacono Marcello, il 20 ottobre. I loro corpi furono abbandonati ai cani ed il corpo di Paolina buttato fuori in aperta campagna. Ma un altro Ippolito, diacono anche lui, li raccolse e li seppellì sulla via Appia, all’Arenario, al primo miglio dell’Urbe, dove frequentemente si radunavano i cristiani.

Poi Secondiano prese Adria con i figli ed Ippolito in casa sua, volendo indagare sui beni. Risposero: “Ciò che avevamo l’abbiamo dato ai poveri; i nostri unici tesori sono le anime nostre che non vogliamo assolutamente perdere. Fa’ quello che ti è stato comandato”. Allora Secondiano fece torturare i figli. A loro il padre diceva: “Siate forti, figli miei!”. Ed essi, mentre venivano percossi, dicevano soltanto: “Cristo aiutaci!”. Dopo fece sottoporre a tortura Adria ed Ippolito ed ordinò che fossero bruciati ai fianchi con le fiaccole. Ippolito diceva: “Fa’ quello che vuoi”. Secondiano diceva: “Sacrificate, acconsentite, dite: Sacrifichiamo!”. E Ippolito diceva: “Ecco la mensa senza corruzione”. Dopo molti tormenti, disse Secondiano: “Toglieteli da terra e siano condotti alla Pietra Scellerata il figlio Neone e sua sorella Maria e siano uccisi alla presenza del padre”. Condotti là, furono uccisi di spada ed i loro corpi gettati alla campagna, ma furono raccolti dai cristiani e sepolti poi all’Arenario, al primo miglio dell’Urbe, ove i cristiani erano soliti riunirsi, il 27 ottobre.

Avendo Secondiano riferito tutto a Valeriano, otto giorni dopo ordinò che fosse apprestato il tribunale nel circo Flaminio[7] e che vi fossero portati incatenati Ippolito ed Adria, mentre un banditore gridava: “Sono sacrileghi, sono sacrileghi che sconvolgono la città”. Introdotti, il giudice di nuovo affrontò la questione dei beni dicendo: “Date i soldi con i quali inducevate il popolo in errore”. Rispose Adria: “Noi predichiamo Cristo che si è degnato liberarci dall’errore non perché uccidiamo gli uomini, ma perché li facciamo vivere”. Vedendo che non concludeva niente, Secondiano ordinò che fossero colpiti alle mascelle con flagelli piombati, mentre un banditore gridava: “Sacrificate agli déi, bruciate l’incenso!”. Ippolito, sanguinante, gridava: “Continua pure, o miserabile, e non smettere”. Allora Secondiano ordinò ai carnefici di smettere e disse: “Orsù, provvedete a voi stessi; ecco, ho pietà della vostra stoltezza”. Risposero: “Noi siamo pronti a sostenere tutti i tormenti, ma quello che tu o il Principe ci chiedete non lo faremo!”. Riferì Secondiano a Valeriano e questi ordinò che fossero finiti, alla presenza del popolo.

Allora Secondiano ordinò di portarli al ponte di Antonino e di percuoterli con flagelli piombati fino alla morte e, lungamente percossi, finalmente morirono. I loro corpi furono abbandonati in quel luogo presso l’isola Lycaonia[8]. Venne di notte Ippolito, diacono della Chiesa di Roma, e presi i corpi, li seppellì sulla via Appia, al primo miglio dall’Urbe, nell’Arenario, presso i corpi dei santi, il 9 dicembre.

Nove mesi dopo questi fatti, venne a Roma una donna di nome Martana, greca, con la figlia Valeria. Entrambe erano cristiane e parenti di Adria e Paolina. Dopo averli cercati inutilmente, vennero a sapere che erano stati coronati col martirio e si rallegravano assai. Dopo parecchie ricerche, trovarono i corpi e giorno e notte perseverarono nella preghiera in quel luogo per tredici anni, fino a quando resero l’anima a Dio. Ed anch’esse vennero sepolte nello stesso luogo il 2 dicembre.

Fin qui gli Atti di questi martiri dei quali si celebra la memoria nel calendario della Chiesa il 2 dicembre, anche se subirono il martirio in giorni diversi.

Ad onore di Nostro Signore Gesù Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

 


Immagine: http://www.romecity.it/Santagatadeigoti.htm

[1] Nella passio il nome è Valeria.

[2] Le due lapidi sono conservate presso i Musei Vaticani.

[3] Oggi le lapidi marmoree vengono datate tra il V e il VI secolo e le iscrizioni sono state da qualcuno attribuite a papa Simmaco.

[4] P. L. Malamocco, MARTYRION. Romanzo storico sulla vita e il martirio dei Santi Greci venerati in S. Agata dei Goti a Roma, Tavagnacco (UD) 2001, ed. Segno.

[5] Nome col quale in età cristiana fu chiamato il Tullianum (oggi conosciuto come chiesa di San Pietro al Mamertino), storica prigione dell’antica Roma, situato sul lato nord del Foro Romano; esso è costituito da due vani sovrapposti, il superiore riservato al corpo di guardia, l’inferiore un sotterraneo quasi circolare, buio e privo d’aria. Vi transitarono, rinchiusi insieme a criminali comuni, molti cristiani in attesa del martirio, i più illustri furono i santi Pietro e Paolo. Il Mamertino rende bene l’idea del carcere “tenebroso e ripugnante”, descrizione ricorrente negli Acta martyrum, dove i prigionieri ammassati e soffocanti, privi di ogni cosa, ricevevano acqua una sola volta al giorno, mentre cibo o vesti potevano essere loro portati solo da parenti o amici. In simili condizioni i detenuti morivano di frequente prima ancora di essere giudicati.

[6] Vicolo dove vennero uccisi molti cristiani (tra i quali i santi Vito, Modesto e Crescenza), il cippo su cui avveniva la decapitazione, chiamato anch’esso “Pietra Scellerata”, è conservato nella chiesa di san Vito all’Esquilino.

[7] Sorgeva nell’area del Ghetto tra piazza Cairoli, il Teatro di Marcello, il Portico di Ottavia e l’Isola Tiberina. Era diffuso nel mondo Romano l’uso di far celebrare i processi presso il circo, rendendoli parte degli spettacoli con le immancabili crudeli torture e culminanti nella pena capitale.

[8] Piccola isoletta sul fiume Tevere, anticamente chiamata dai Romani semplicemente Insula o Insula inter duos pontes, nel medioevo fu detta anche Lycaonia, oggi conosciuta come Isola Tiberina, vi sorgono la chiesa di san Bartolomeo, dove sono custodite le reliquie del santo apostolo, e quella di san Giovanni Calibita.

 

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