Sermone pronunciato nella Domenica dei Latticini

 

San Giovanni di Kronstadt

 

“Perché se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è in Cielo perdonerà anche a voi. Ma se non perdonerete agli altri il male che hanno fatto, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”

Matteo 6, 14-15

 

Questa domenica si chiama comunemente domenica del perdono, poiché oggi si legge il brano dell’Evangelo in cui ci si comanda di perdonare i peccati commessi nei nostri riguardi dal nostro prossimo, affinché anche a noi il Padre nostro celeste perdoni le nostre innumerevoli colpe. Perciò, da epoca immemorabile, tra i Cristiani devoti c’è l’abitudine di chiedere oggi, ed in tutta la settimana dei latticini, perdono delle colpe reciproche. È un uso bellissimo, veramente cristiano, poiché chi fra noi non pecca contro il suo prossimo con la parola, con le opere e con i pensieri? Il chiedere perdono dimostra la nostra fede nell’Evangelo, la nostra umiltà, l’assenza della cattiveria in noi e l’amore per la pace. Invece la mancanza del desiderio di chiedere perdono a coloro contro i quali siamo realmente colpevoli, è prova di poca fede, di superbia, di presunzione, di ricordo del male ricevuto, di non sottomissione all’Evangelo, di opposizione a Dio e di accordo con il demonio. Eppure noi tutti per la grazia siamo figli del Padre nostro che è nel Cielo, siamo membri del Cristo nostro Dio, membri del Corpo della Chiesa, che è il Suo Corpo e membri uno dell’altro. “Dio è amore”[1] e più di ogni sacrificio ed olocausto si richiede a noi amore reciproco, “poiché chi ama è paziente e premuroso. Chi ama non è geloso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio. Chi ama è rispettoso, non va in cerca del proprio interesse, non conosce la collera, dimentica i torti. Chi ama rifiuta l’ingiustizia, la verità è la sua gioia. Chi ama, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, non perde mai la speranza. Cesserà il dono delle lingue, la profezia passerà, finirà il dono della scienza, l’amore mai tramonterà”[2].

 

Tutta la legge di Dio è con tenuta in due parole: Ama Dio ed il prossimo. Tuttavia il cuore dell’uomo è estremamente egoista, insofferente, cattivo e ricorda i torti ricevuti. Esso è pronto ad adirarsi contro il suo prossimo non solo per il male fatto, ma anche per quello supposto, non solo per una parola offensiva, ma anche per un’espressione sgradita, sincera, severa, addirittura per uno sguardo che gli sembra non buono, e quasi quasi si irrita per i pensieri che immagina nel suo prossimo. Il Signore, che vede nei nostri cuori, così si esprime sul cuore dell’uomo: “Infatti dall’intimo, dal cuore dell’uomo escono tutti i pensieri cattivi che portano al male: i peccati sessuali, i furti, gli assassinii, i tradimenti tra marito e moglie, la voglia di avere le cose degli altri, le malizie, gli imbrogli, le oscenità, l’invidia, la maldicenza, la superbia, la stoltezza”[3]. Ma contro una grave malattia bisogna adoperare anche rimedi adatti. Alla profonda cattiveria umana si contrappone l’infinita misericordia e la grazia di Dio, con il cui aiuto si può vincere ogni male ed in sé e negli altri, con la mitezza, con la mansuetudine, con l’arrendevolezza, con la pazienza, con la sopportazione. “Ma io vi dico – annuncia il Signore – non vendicatevi contro chi vi fa del male. Se uno ti da uno schiaffo sulla guancia destra, tu presentagli anche l’altra. Se uno vuol farti il processo per prenderti la tunica, tu lasciagli anche il mantello”[4]. In cambio del perdono al nostro prossimo, ci è promesso il perdono dei peccati dal Padre nostro che sta in Cielo, la misericordia al giudizio finale, la beatitudine eterna: “Beati quelli che hanno compassione degli altri, perché Dio avrà compassione di loro”[5]. Ed alla collera, che non si placa, il giusto giudizio di Dio minaccia l’eterna dannazione.

 

Ascoltate un episodio, dal quale risulta evidente che Dio castiga già in terra le persone che nutrono sentimenti d’ira vicendevole ed irriducibile. Nella Laura Kievo-Pecerskaja nel passato vivevano due monaci, lo ieromonaco Tito ed lo ierodiacono Evagrio. Per alcuni anni furono amici tra loro, ma poi per qualche motivo concepirono un’inimicizia ed un odio reciproco. Questo stato di cose durò a lungo e tuttavia essi, senza riconciliarsi, osavano offrire la vittima incruenta a Dio. Sebbene i confratelli li consigliassero di porre fine alla loro inimicizia e che vivessero tra loro in pace ed amicizia, i loro tentativi erano inutili. Un giorno lo ieromonaco Tito si ammalò gravemente. Disperando di guarire, egli cominciò a piangere amaramente per il suo peccato e mandò a chiedere perdono al suo nemico. Ma Evagrio non voleva neppure sentirne parlare e si mise a maledirlo violentemente. I confratelli, addolorati per un siffatto ostinato errore, con la forza lo trascinarono dal morente. Tito, quando vide il suo nemico, con l’aiuto dei confratelli si levò dal letto e cadde in ginocchio davanti a lui chiedendogli perdono. Ma Evagrio era talmente inumano che gli voltò le spalle e gli gridò: “Né in questa né nella vita futura voglio riconciliarmi con lui”. E, sfuggito dalle mani dei confratelli, cadde a terra. I monaci volevano sollevarlo, ma rimasero interdetti constatando che era morto ed ormai talmente freddo, come se fosse morto da lungo tempo. Il loro stupore s’accrebbe quando lo ieromonaco Tito, nello stesso momento, si levò dal letto guarito, come se mai fosse stato malato. In preda al terrore per un avvenimento così inconsueto, i monaci circondarono Tito chiedendogli: “Che cosa significa ciò?” Ed egli rispose: “Essendo in preda ad una grave malattia, finché io, peccatore, mi adiravo con il mio confratello, vedevo gli Angeli che da me si allontanavano e piangevano per la dannazione della mia anima, mentre gli spiriti impuri si rallegravano; questa è la causa per cui desideravo riconciliarmi con il mio confratello. Ma appena lo portaste qui ed io m’inchinai davanti a lui, mentre egli mi malediva, vidi un Angelo minaccioso colpirlo con una lancia di fuoco e l’infelice cadde morto a terra. A me lo stesso Angelo diede la mano e mi sollevò dal letto”. I monaci piansero sull’amara morte di Evagrio e da quel tempo cominciarono ad osservare la regola che il sole non tramontasse mentre avevano l’animo in preda all’ira.

 

Fratelli e sorelle! Il ricordo dei torti ricevuti è un vizio tremendo e quanto è abominevole davanti a Dio, altrettanto è rovinoso nella società. Noi siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio; la mitezza e l’assenza dell’ira debbono essere le nostre immutabili caratteristiche. Infatti anche Dio con noi procede con la sua misericordia; sopporta e perdona innumerevoli volte. Ed anche noi dobbiamo perdonare. Chi invece ricorda i torti ricevuti non ha in sé l’immagine e la somiglianza di Dio: esso è piuttosto una fiera che un uomo. Amìn.

 

 

Da: “Velikij Post”, pp. 52-56.

In: “Messaggero Ortodosso”, Roma, febbraio-marzo 1985, 1-4. trad. di A. S.


 

[1] I Giovanni 4, 8.

[2] I Corinti 13, 4-8.

[3] Marco 7, 21-22.

[4] Matteo 5, 39-40.

[5] Matteo 5, 7: “Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia!”.

 

 

Pagina iniziale