Mario Rossi

L’avvento di Cristo nel compimento del tempo

(Gal 4, 4)

 

Fratelli e sorelle in Cristo,

sono felice di trovarmi tra voi per esporvi come la Santa Chiesa Ortodossa vive e intende il passo di San Paolo ai Galati sul compimento del tempo e dell’attesa del popolo ebraico con la nascita di Cristo. Il mio intervento si articolerà nei seguenti punti:

a)      una breve presentazione esegetica del passo paolino Gal 4,4;

b)     l’importanza dei Padri della Chiesa quali testimoni e interpreti qualificati delle verità evangeliche;

c)     l’interpretazione patristica del passo in oggetto;

d)     il rapporto con Cristo: esperienza del divino;

e)     il rapporto Cristo-legge nella vita della Chiesa;

f)      l’esperienza di qualche santo ortodosso come attuale incarnazione del passo in esame.

 

a) Presentazione esegetica di Gal 4,4

Permettetemi innanzitutto di presentare, seppur brevemente, il contesto della lettera paolina dal quale è tratto il brano da me commentato.

San Paolo scrive questa lettera ai cristiani della Galazia, una regione dell’Asia Minore al centro dell’odierna Turchia, i quali dopo aver accolto con entusiasmo l’Apostolo ed aver abbracciato il Vangelo, hanno la tentazione di riprendere la Legge mosaica a causa delle prediche di alcuni cristiani giudaizzanti. Se essi avessero ceduto a questa tentazione avrebbero dovuto reintrodurre la circoncisione e con essa l’elaborato apparato di leggi al quale ancor oggi aderisce fermamente il pio giudeo.

L’apostolo Paolo, al quale non era estranea la tenerezza e l’affetto, davanti a questa prospettiva risponde con una forza e una fermezza che ci potrebbe meravigliare: “Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla [... poiché] in Cristo Gesù non ha valore l’essere circonciso o incirconciso, ma vale la fede operante per mezzo dell’amore” (Gal 5,2; 5,6).

Cristo si pone, quindi, in alternativa alla Legge poiché essa non era altro che una preparazione alla sua persona, un pedagogo (Gal 3,24), una semplice pregustazione e un annuncio della pienezza futura similmente alla luce dell’alba che annuncia il sorgere del sole.

Tornare a confrontarsi con la legge significa non aver conosciuto la libertà di essere figli di Dio, significa essere lontani da Lui esattamente come chi, nel buio, necessita della luce d’una candela. Perciò l’Apostolo rivolto ai Galati conclude categoricamente: “Siete stati abbandonati da Cristo” (Gal 5,4).

L’avvento di Cristo nella pienezza del tempo ci pone immediatamente davanti ad un confronto di capitale importanza: la legge e il Figlio di Dio. È per questo che esaminerò le sfaccettature di quest’argomento cercando di mostrare, seppure non esaurientemente, le profonde implicazioni che esso ha per ognuno di noi e per la nostra epoca.

 

b) I Padri della Chiesa: riferimento imprescindibile

La Santa Chiesa Ortodossa fonda la sua identità principalmente su due elementi:

§        la Tradizione patristica intesa come la katholikì cioè universale e globale comprensione del messaggio dei Padri;

§        i sette Concili Ecumenici, luogo di ricezione e di approfondimento di alcuni temi della riflessione patristica stessa.

Ciò significa che se vogliamo sapere cosa dice la Santa Ortodossia sul passo scritturistico in oggetto, dobbiamo rivolgerci in primo luogo agli scritti patristici. Con questo atteggiamento siamo ben lungi da far archeologia. La Chiesa ortodossa non si è fermata o, come talora si sente dire, fossilizzata all’epoca patristica. Si riferisce fermamente agli scritti dei Padri che compongono la Tradizione ecclesiastica perché sà che sono importanti e imprescindibili. L’importanza dei Padri non deriva dal fatto che essi siano stati uomini di ingegno e di cultura ma dal fatto che essi, prima di tutto, erano uomini di fede e di preghiera, uomini così partecipi della Redenzione di Cristo da viverla come una profonda e quotidiana esperienza personale. Ciò che li ha resi importanti è stato proprio questo. Se l’elemento indispensabile è la santità di vita, ossia l’esperienza del divino, non meraviglia constatare che quasi tutti i Padri hanno trascorso un periodo o tutta la loro esistenza in monastero divenendo, a loro volta, fondatori di monasteri. Il monastero nella Tradizione ortodossa è il luogo “per eccellenza” dove si impara a pregare, dove si è avvantaggiati a concentrare la propria vita sul divino e si è quotidianamente immersi nella vita liturgica della Chiesa. Infatti già San Gregorio Magno ricordava che:

Quando mi trovavo in monastero, riuscivo a trattenere la lingua anche dalle parole oziose, e mantenere quasi ininterrottamente la mente fissa nell’orazione.

 

Quest’ambiente, indipendentemente dalla santità dei suoi membri, mette a disposizione di ognuno degli strumenti con i quali l’uomo, a poco a poco, si può liberare dalla schiavitù del proprio orgoglio e può sperimentare la presenza di Dio e la forza della Sua Grazia.

I Padri della Chiesa, dopo aver purificato il loro cuore dalle passioni, essersi liberati dalla dispersione dei vani pensieri (Lc 1, 51) e aver raggiunto un buon livello di pratica nella preghiera, hanno iniziato a scrivere perché le necessità della Chiesa lo richiedevano. San Gregorio Palamas riassume l’atteggiamento di tutti i santi Padri che lo precedettero quando dice che:

Noi scriviamo per un dovere inderogabile. È da molto che ho abbandonato la ricerca e l’ambizione letteraria. [...] Il fatto che non utilizzi [la perfezione stilistica], pur avendo disposizioni naturali per parlare piacevolmente, è da considerarsi una prova evidente che le mie parole sono dovute alla necessità e non al desiderio dell’ostentazione.

 

Così la santità della vita, non l’acutezza dell’ingegno e la sublimità dello stile, permette di considerare i Padri come i “pilastri” della Santa Chiesa. Tale titolo non è esagerato. Vivendo la mentalità evangelica ed essendo essi stessi divenuti un vangelo incarnato sono per tutti una roccia stabile, roccia a sua volta ancorata solidamente sull’unica roccia di fondamento: Cristo (Mc 12,10). I Padri sono, in tal modo, i testimoni della forza dello Spirito Santo che agisce nella storia e che permette anche a noi di avvicinarci, se lo vogliamo, alla sublimità del loro livello spirituale. Essi sono paragonabili ad una guida alpina. Come la guida può condurre altri perché si è resa affidabile grazie alla sua lunga esperienza e alla conoscenza personale di molti percorsi montani, così i santi Padri, dopo aver conosciuto le impervie vie dello spirito possono condurci lontano da inganni e abbagli verso la faticosa e agognata meta.

 

c) Il cristianesimo per i Padri: un evento personale

Proprio perché i Padri hanno vissuto la Parola e sono divenuti loro stessi un’incarnazione del Vangelo, nei loro scritti si riscontra una visione del cristianesimo opposta a quella di un’astratta filosofia o di un elenco di buone maniere. I Padri descrivono il cristianesimo come un modo di vita che offre la possibilità di un rapporto immediato con Dio. Essi si pongono sulla linea dell’Apostolo Paolo per aver sperimentato che la loro vita “è Cristo e morire è un guadagno” (Fil 1, 21). Non esiste e non potrebbe mai sussistere un rapporto formale ed esteriore con Dio perché ciò significherebbe concepire il divino come una realtà priva di vita, come un oggetto manipolabile. Ancor meno si può ammettere l’atteggiamento del pio fariseo il quale prende gloria dalla sua coerenza ed adesione legalistica. San Gregorio Palamas, a tal proposito, commenta:

Il fariseo si vanta di aver digiunato per due giorni della settimana, e non sa che queste virtù sono umane, ma che la superbia è demoniaca; perciò questa le rende vane e, mescolandosi ad esse, le manda in mille pezzi, anche se sono autentiche. Quanto più, se sono false!

 

Il cristianesimo non è dunque un codice di leggi e un galateo ma l’incontro con il Dio vivente. San Simeone il nuovo Teologo sottolinea in modo particolare che nessuno può vivere in Cristo senza avere al tempo stesso anche esperienza della presenza di Cristo in sè. Il credente, dunque, non è colui che coltiva la sapienza umana ma colui che si intrattiene con Dio nella preghiera per elevarsi nella misura in cui si rende umile e semplice.

Tutto ciò ci viene indicato dalla vita e dagli scritti dei Padri della Chiesa che ci donano il criterio con il quale ci dobbiamo accostare alla lettura delle Sacre Scritture: non per il gusto dell’erudizione ma per cambiare la nostra vita vestendoci di Cristo (Voi che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo). Infatti Sant’Atanasio insegna che “il Verbo si è fatto carne per rendere l’uomo capace di ricevere la divinità”. I Padri dei Concili di Nicea e Costantinopoli hanno codificato nel simbolo di fede che Gesù Cristo “discese dal cielo per noi e per la nostra salvezza”. A quale altro frutto allude questa salvezza se non la ricezione della divinità nell’umanità del credente? E tutto ciò non implica un rapporto del credente con Dio? La stessa salvezza in Cristo alla quale il credente è chiamato è un fatto strettamente personale poiché nessuno può procurare la salvezza ad un altro. Solo il singolo può provvedere per se stesso rapportandosi liberamente e costantemente con Dio. È per consacrare questo nuovo modo di vivere la fede che Cristo non ha voluto chiamare i suoi discepoli servi ma amici (Gv 15,15) e ha sacrificato se stesso per riempire i credenti della stessa vita divina della quale si era svuotato sul legno della croce. Ne consegue che, come dice Clemente Alessandrino, il cristiano è “santo, portatore di Dio e portato da Dio”. La santità non costituisce dunque una questione etica, legata alla morale come se dipendesse da semplici sforzi ascetici, ma ontologica cioè legata all’essere. Il fedele diventa santo perché è membro di Cristo. La questione etica perciò non riguarda la conquista della santità, come si crede erroneamente, ma la sua conservazione.

 

d) Il rapporto con Cristo: esperienza del divino

Il rapporto con Cristo implica la conoscenza di Dio. Essa non si realizza solo nell’ambito delle possibilità conoscitive dell’uomo ma anche al di là di esse. Dionigi Areopagita dice che:

Dio si conosce attraverso la conoscenza e attraverso la non conoscenza; c’è di lui e pensiero e parola e scienza e contatto e sensazione e opinione e fantasia e nome e tutte le altre cose ma non è pensato né detto né nominato.

 

L’uomo che non ha la forza di conoscere Dio, è conosciuto da Dio stesso che si rivela a lui come persona operante la sua salvezza e il suo rinnovamento. Così l’impotenza dell’uomo a conoscere Dio si converte, attraverso la rivelazione e la discesa di Dio all’uomo, in possibilità di comunione personale e di conoscenza. Questo nuovo genere di comunione e di conoscenza va oltre “ogni intelletto” e si compie all’interno del mistero della grazia di Dio. Tuttavia come si rivela ed è conosciuto Dio nel mondo e in che modo rimane ignoto e incomprensibile?

La dottrina ortodossa su questo tema è chiara. Iddio si rivela nel mondo attraverso le sue operazioni o energie (energeiai), mentre la sua essenza rimane inconoscibile ed incomprensibile. Questa distinzione dell’essenza di Dio dalle sue operazioni ha un’importanza capitale per la fede e per la vita cristiana. Infatti dall’accettazione o no di questa distinzione dipende la conservazione o l’abbandono del carattere esperienziale della fede cristiana come vita di comunione tra l’umano e il divino oppure il suo ingabbiamento in ambiti secolaristici. A una teologia che non sa fondarsi sulla profonda distinzione essenza-operazioni in Dio non può che rimanere una base filosofica. Al contrario la teologia dei Padri non si è basata sulla filosofia ma sulla Scrittura e sull’esperienza della Chiesa. E la scrittura interpretata con autorità e competenza dalla Chiesa insegna chiaramente che il trascendente ed inaccessibile Dio opera nel mondo la salvezza dell’uomo. Dal momento, poi, che l’operazione salvifica di Dio manifestata all’uomo è data gratuitamente prende il nome di Grazia. Attraverso la Grazia Dio dona se stesso all’uomo e lo rende quindi dio. Quest’affermazione non deve parere ardita. Con la nascita di Cristo sono stati compiuti il rinnovamento e la divinizzazione della natura umana. È da ciò che deve sorgere lo stupore per il Natale, uno stupore che proibisce di pensare tale evento come una festa per l’infanzia quasi che il mistero dell’Incarnazione non debba riguardare tutti e possa essere deformato ad una sdolcinata sagra di buoni sentimenti! Tale rinnovamento e divinizzazione sono stati compiuti perché potessero essere personalmente partecipabili da tutti i fedeli. Senza questa personale appropriazione dell’opera salvifica di rinnovamento del Cristo la sua venuta storica non sarebbe di alcuna utilità per l’uomo: “Quale utilità per me – dice Origene – se il Verbo è venuto nel mondo ma io non lo possiedo?”.

San Giovanni Crisostomo commentando il passo paolino sulla pienezza del tempo (Gal 4, 4) dice:

[L’Apostolo] indica qui due motivi e benefici dell’Incarnazione, vale a dire la liberazione dai mali e l’elargizione dei beni, il che non poteva riuscire a nessuno se non a Lui solo. Quali erano questi benefici? La liberazione dalla maledizione della legge e l’adozione a figli.

 

La porta attraverso la quale possiamo conoscere Dio è stabilita, dunque, dall’evento dell’Incarnazione con il quale Dio sposa la carne umana. È in questa prospettiva che si devono collocare le categoriche ed esclusive asserzioni di Cristo: “Senza di me non potete fare nulla” (Gv 15, 5), “Chi non raccoglie con me disperde” (Mt 12, 30), “Io sono la porta” (Gv 10, 9), “Chi vede me, vede Colui che mi ha mandato” (Gv 12, 45) ...

Attraverso la porta rappresentata da Cristo il credente entra in comunione con la divinità la quale si manifesterà a lui “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).

A questo punto è bene puntualizzare rapidamente che la vera esperienza di Dio non ha e non può avere nulla a che fare con tutti quei fenomeni religiosi nei quali prevale l’affettività, la fantasia, il pietismo o la spettacolarità. I Padri vietano tassativamente ogni cosa del genere perché tutto ciò finisce per porre l’uomo davanti all’immagine di sè come se egli fosse davanti ad uno specchio. In questo caso non esiste relazione ma chiusura su se stessi, non apertura al mistero di Dio ma ricerca e amore di sé (filautia). Chiunque distribuisce consolazioni e sicurezze umane non fa crescere l’uomo né lo aiuta a comprendere che ci si può disporre in comunione con Colui che sostiene intimamente il cosmo. Chiunque chiude l’uomo narcisisticamente su stesso non può che attirarsi il monito di Cristo: “Guai a voi guide cieche!” (Mt 23,16). Solo spogliandosi dalle consolazioni e dalle sicurezze umane, nella preghiera e nella purificazione del cuore, l’uomo fa spazio alla Grazia divina che finisce per abitare in lui e per trasfigurarlo.

Le icone che vedete ogni volta che entrate in una chiesa ortodossa non sono fatte per essere belle, anche se lo fossero. Sono fatte per confessare una verità: la carne umana abitata dalla Grazia divina diviene splendente perché è illuminata da una luce che non è creata e che, di tanto in tanto, appare chiaramente sul viso dei santi. È per questo che i primi cristiani erano chiamati fotismoi, termine greco che significa “illuminati”.

 

e) Cristo e la Legge

Da quanto abbiamo appena detto risulta evidente che non è possibile concepire ideologicamente il cristianesimo perché ciò che si sacrifica è proprio il rapporto del credente con Cristo. Una simile concezione riduce la teologia a filosofia e fa decadere la Chiesa ad una realtà alienante. Per San Giovanni Crisostomo la Chiesa è un ospedale spirituale. Se i presupposti ecclesiali vengono alterati, la Chiesa diviene un luogo dove ci si illude e ci si ammala. L’eccessiva attenzione alla norma trasforma il cristianesimo in una macchina perfettamente organizzata ma finisce per penalizzare la vita mistica intesa come il rapporto personale tra Dio e il credente. Quando prevale l’ideologia, tutto ciò che è secondario e che esiste solo in funzione di uno scopo essenziale, diviene centrale e le istituzioni ecclesiastiche divengono fine a loro stesse. Procedendo in questa direzione il cristianesimo si secolarizza. La secolarizzazione del cristianesimo è riscontrabile quando all’interno della Chiesa appaiono e si impongono dei modi di vita che non hanno a che fare con la Chiesa stessa ma sono esclusivi di club se non proprio di aziende o di società per azioni. La testimonianza ne patisce, i costumi si rilassano e la presenza di Dio nel nostro mondo viene solo affermata, non cercata o contemplata.

L’adesione legalistica pone l’uomo di fronte alla sua giustizia, davanti al suo criterio individuale con il quale si giustifica condannando chi non è come lui. In questa situazione l’uomo decade come persona, cioè come essere di relazione, divenendo individuo poiché distoglie il suo sguardo da Dio e se ne allontana. Un cristianesimo individualista a sua volta non è più cristianesimo perché non riflette nella vita il mistero trinitario dell’unità divina nella trinità delle Persone. Non è dunque eccessivo che l’Apostolo Paolo dica “Siete stati abbandonati da Cristo” (Gal 5,4). Lontano da Cristo l’uomo miete una ricompensa che è esclusivo frutto delle sue mani: “Io non sono come gli altri uomini!” (Lc 18, 11) afferma il fariseo con un atteggiamento che possiamo benissimo avere anche noi. Eppure alla fine della vita tutta la pietà di uomini come costui si rivelerà empia dal momento che Dio dirà: “Che volete da me? Avete già avuto la vostra ricompensa!” (cfr. Mt 6, 16).

Tutto ciò spiega perché la legge venga considerata come un’introduzione, come un pedagogo a Cristo e spiega, altresì, la fatale pericolosità di farla coesistere e prevalere su Cristo stesso. Infatti, con l’avvento di Cristo, la Grazia dello Spirito è stata diffusa nel cuore dei credenti. La vecchia legge è stata abolita proprio perché è lo Spirito stesso che ci “insegnerà ogni cosa” (Gv 14, 26).

 

f) L’attualizzazione del Vangelo nell’esperienza dei santi

Il fatto che lo Spirito Santo insegni ogni cosa non vuole consacrare il soggettivismo o l’anarchia. Con ciò ricadremo in un cristianesimo individualista. La retta comprensione del passo evangelico la otteniamo se osserviamo la testimonianza dei santi nella Chiesa. I Santi vengono anche detti theofori cioè “portatori di Dio”, non perché sono stati più bravi di noi ma perché sono stati più generosi. Essi hanno offerto loro stessi e, in cambio, hanno ricevuto Dio stesso. “Dai il sangue e ricevi lo Spirito” commenta a tal proposito un eloquente detto ecclesiastico. Solo attraverso questa spoliazione, questa kenosis, è stato possibile realizzare lo straordinario miracolo di ignoranti trasformati in dotti e di semplici divenuti consiglieri di uomini molto importanti. In tempi recenti abbiamo rivisto questo miracolo nella persona di padre Paisios del Monte Athos un uomo che per molti versi ricorda San Seraphim di Sarov.

Come San Seraphim, Paisios era un uomo semplice e ignorante. Come San Seraphim, egli era un uomo che per Cristo non conosceva mezze misure. Dando se stesso nella preghiera e nell’esigente obbedienza monastica è pian piano entrato in intimità con Dio e Dio stesso si compiaceva di manifestarsi attraverso l’umile carne d’un semplice povero monaco. Verso gli ultimi anni della sua vita riusciva a stento a trovare un po’ di tranquillità perché molte persone desideravano parlargli e vederlo. Diverse testimonianze ci riportano che la sua presenza infondeva una profonda e indescrivibile sensazione di pace e la sua parola illuminava. Non di rado egli indovinava la storia di chi aveva di fronte o prevedeva fatti futuri. Talora egli diceva: “... per poter accogliere in noi la conoscenza divina bisogna abolire la conoscenza secondo il mondo. Bisogna diventare semplici come bambini, non vantarsi della propria conoscenza perché la conoscenza gonfia”. In padre Paisios come in San Seraphim di Sarov lo Spirito “insegnava ogni cosa” perché le radici dell’esistenza di questo monaco si affondavano in una sorgente di vita perenne, non in un arido schema di leggi.

 

Epilogo

Quanto è stato fin ora esposto mi pare commenti sufficientemente il passo paolino in oggetto. Dicendo che Cristo nella pienezza del tempo nasce sotto la legge per riscattare quelli che stanno sotto la legge significa che ogni uomo viene portato dalla promessa ad una concreta possibilità di salvezza: il peccato e la morte sono superabili nella persona di Cristo e grazie a Lui. L’esortazione di San Paolo ai Galati non è quindi un problema di quasi duemila anni fa ma ci riguarda intimamente. Quello che è in questione non è più l’alternativa tra la legge mosaica o Cristo ma i nostri ricorrenti tentativi di trasformare il cristianesimo in un elenco di norme e comportamenti esteriori per sottrarci dal nostro quotidiano impegno di conversione al Dio vivente. Nella misura in cui, lungo la storia, abbiamo posto eccessiva confidenza nelle nostre forze e nelle nostre organizzazioni abbiamo fatto prevalere la legge e i nostri criteri umani al riconoscimento dell’attiva presenza di Dio. I santi e i Padri della Chiesa ci scuotono dal nostro torpore e ci aprono alla speranza invitandoci ad accogliere quella vita divina che è pegno e promessa della futura gloria di cui possiamo pregustare la dolcezza già su questa terra, dolcezza della quale i santi sono i fedeli arladi e custodi.

Grazie.

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Conferenza.htm

 

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