LA SPIRITUALITà ORTODOSSA

 

Conferenza tenuta da Jean-Claude Larchet
il 03.03.2001 a Strasburgo su invito
del movimento della gioventù ortodossa Syndesmos.

 

Mi è parso interessante fornire a quest’esposizione un titolo molto generale perché credo sia augurabile precisare o riprecisare cosa sia la spiritualità ortodossa nella sua specificità, dal momento che viviamo in un’epoca di confusione nella quale la nozione di spiritualità viene discretamente denigrata.

Il termine “spiritualità” è oggi molto diffuso ed è impiegato in un senso molto ampio. “Spiritualità” proviene da “spirito” (con la s minuscola). In noi lo spirito è la facoltà più elevata, quella che ci eleva verso l’alto, che ispira i nostri ideali e ci guida alla loro realizzazione. A differenza dell’“intelligenza”, che oggi ha una connotazione intellettuale, lo “spirito” ha una valenza religiosa; è quanto ci dona il senso di Dio e delle realtà superiori alla natura, quanto ci fa aspirare a Dio e al bene, al giusto, al buono, al bello, valori che, per un credente, hanno fondamento in Dio.

Allo stesso tempo, nella nozione di spirito (pneuma in greco, spiritus in latino), c’è la nozione di soffio; ora il soffio è un mezzo attraverso il quale si mantiene la vita ed è uno dei segni della vita stessa.

Ciò indica che la spiritualità ha un legame con la vita; significa che essa è per noi la condizione d’una vita che s’intreccia assieme alla vita biologica e, allo stesso tempo, la trascende. Ciò significa ancora che la spiritualità è un’attività che riguarda e abbraccia tutta la vita o, detto diversamente, tutta la nostra esistenza.

Se ora si riconsiderano le due valenze precedentemente accennate riguardanti il termine “spirito”, la spiritualità si può generalmente definire come un’attività vitale che, in tutta la nostra esistenza, ci pone in relazione con Dio.

Tutte le religioni, sia quelle che considerano Dio quale creatore dell’uomo, sia quelle che considerano l’uomo quale manifestazione di Dio, ritengono che l’uomo ha, per il fatto stesso d’esistere, un oggettivo legame con la Divinità e che, quindi, la relazione con Dio appartiene alla natura e a tutta l’esistenza umana indipendentemente dall’averne coscienza o meno o dal tipo di relazione avuta.

Si può dunque dire che la spiritualità è una realtà universale nel tempo e nello spazio e che pure quelle espressioni che negano Dio esprimono di fatto una certa forma di relazione nei suoi riguardi, con una certa modalità spirituale. Ecco la ragione per cui, ad esempio, definiamo le “passioni” – che sono stati e disposizioni con le quali ci allontaniamo da Dio – come “malattie spirituali”.

Sappiamo anche che gli uomini rappresentano Dio in modi differenti, la qual cosa implica, evidentemente [per loro], molteplici maniere di entrare in relazione con Lui. Per questo motivo la nozione di spiritualità diviene evanescente, suscettibile d’assumere differenti valenze.

Ora si deve definire più precisamente cosa caratterizza la spiritualità ortodossa.

Inizialmente, e prima di tutto, la spiritualità ortodossa è una spiritualità cristiana, ossia una spiritualità che ha Cristo come fondamento e centro.

E, dal momento che Cristo ci ha rivelato Dio come Padre e ci ha fatto conoscere lo Spirito Santo rivelandoci che le Tre divine Persone sono un solo Dio, la spiritualità ortodossa ha la Santa Trinità come principio e come fine. Essa si può dunque definire come una relazione al Padre nel Cristo per lo Spirito Santo.

La nozione di “spiritualità”, dal momento in cui si accoglie la Rivelazione, non si riferisce più soltanto allo “spirito” come ad una facoltà umana ma allo Spirito con la S maiuscola, ossia allo Spirito Santo. La spiritualità ortodossa è una vita attraverso lo Spirito Santo e nello Spirito Santo. Questa caratteristica appartiene in maniera netta e costante all’opera di uno dei grandi maestri della spiritualità ortodossa, san Macario d’Egitto, ma anche agli scritti di un grande santo del ventesimo secolo, san Silvano l’athonita. Bisogna pure ricordare il fondamentale insegnamento di san Serafino di Sarov secondo il quale “il fine della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito Santo”. Senz’alcun dubbio quest’essenziale legame della spiritualità ortodossa con lo Spirito Santo evidenzia maggiormente la tradizione spirituale ortodossa rispetto alle tradizioni spirituali del cattolicesimo o del protestantesimo che, sviluppando la teologia del Filioque, hanno assegnato allo Spirito Santo un ruolo subordinato e secondario. I recenti tentativi di riconoscerGli il posto che ha non sfuggono sempre all’anarchia o all’illusione (penso ai movimenti “pentecostali” e “carismatici”).

A causa del suo fondamentale legame con la Trinità, cioè con un Dio tripersonale, Padre, Figlio e Spirito Santo, la spiritualità ortodossa è fondata su una personale relazione con Dio[1]. Essa si distingue dunque profondamente dalle forme di spiritualità dove Dio è considerato come un’entità, un’energia, una forza o uno spirito impersonale. Nella nostra relazione con Dio ci rivolgiamo a Lui come a una persona[2]. Da questo fatto è stabilita una certa prossimità ma, allo stesso tempo, sussiste la distinzione. Possiamo essere strettamente uniti a Dio ma, allo stesso tempo, la relazione che stabiliamo con Lui non è fusionale (come nel caso delle spiritualità dell’estremo Oriente): in questa relazione conserviamo la nostra identità personale, dal momento che sussiste sempre la differenza tra la natura umana e quella divina: la nostra natura resta ciò che è anche se la vita spirituale le permette, come vedremo, di accedere a un’altra modalità d’esistenza.

Nella spiritualità ortodossa, Dio è adorato come l’”Onnipotente” e l’”Altissimo” ma, allo stesso tempo, appare completamente vicino e accessibile perché il Verbo, il Figlio di Dio, si è fatto uomo divenendo tutto quello che noi siamo, vivendo tutto quello che noi viviamo e provando tutto quello che noi proviamo senza però assumere il peccato. Nella persona di Cristo, dove la divinità e l’umanità si trovano intimamente unite, Dio si fa infinitamente prossimo all’uomo e l’uomo diviene infinitamente prossimo a Dio. La spiritualità ortodossa che è, secondo l’espressione di san Nicola Cabasilas e di san Giovanni di Cronstadt, “vita in Cristo” è anche una spiritualità che si caratterizza per la prossimità e l’intimità con Dio, nel quadro di una relazione personale dove noi possiamo avere la certezza che Cristo, il quale si è fatto pienamente uomo, soffrendo, morendo e discendendo agli inferi, comprende le nostre difficoltà e conosce i nostri bisogni. Allo stesso tempo, dal momento che è pienamente Dio unito alla nostra umanità, ha il potere di risolvere queste difficoltà e di rispondere a questi bisogni in maniera adatta alla personalità e alla situazione di ciascuno di noi.

La “vita in Cristo” nella quale consiste fondamentalmente la spiritualità ortodossa, non è una semplice adesione di fede al messaggio di Cristo oppure alla Sua persona; tale unica iniziale adesione della volontà non è sufficiente alla salvezza.

Abbiamo detto che la spiritualità è in principio un’attività che implica tutto l’essere umano e tutta la sua esistenza. La spiritualità ortodossa mira ad un’unione con Cristo di tutto il nostro essere e di tutta la nostra vita.

Per il cristiano l’unione con Cristo è obiettivamente realizzata attraverso il battesimo che lo “innesta” nel Corpo di Cristo facendone una nuova creatura e donandogli una nuova vita spirituale ed eterna. Essendo unito al Corpo di Cristo, attraverso il battesimo nella Chiesa, il cristiano riceve la grazia della salvezza e della deificazione che il Cristo ha assicurato in Se stesso all’umanità che ha assunto nella Sua Persona.

Ma il cristiano deve assimilare personalmente questa grazia ricevuta dalla sua natura e ciò avviene facendo coincidere la sua persona con quanto Cristo ha dato di essere alla sua natura. È a questo che serve tutta la vita spirituale: a unirsi volontariamente, liberamente e coscientemente con Cristo.

Quest’unione personale con Cristo non si realizza se non con l’acquisizione della somiglianza a Lui il che, a sua volta, non può realizzarsi se non nel compimento dei comandamenti di Cristo. Si può dunque dire che la spiritualità ortodossa, scaturente dalla fede, consiste inizialmente nella pratica dei comandamenti di Cristo. È nella pratica dei comandamenti che, a sua volta, si misura l’adesione personale del cristiano a Cristo, che si sollecitano e si provano costantemente la sua volontà, libertà, coscienza ed è nella pratica assidua dei comandamenti che si compie progressivamente la somiglianza del Cristiano a Cristo, una somiglianza che non è semplicemente morale ma ontologica.

La pratica dei comandamenti, nella spiritualità ortodossa, non ha nulla di legalistico. I comandamenti non sono delle leggi quanto, piuttosto, delle regole di vita e, più esattamente ancora, dei modi di vita. Sono dei precetti che devono aiutare il cristiano non solo a compiere la volontà di Dio, ma a somigliare a Cristo dal momento che i comandamenti di Cristo provengono dalle Sue parole e le sue parole esprimono ciò che Egli è.

I santi Padri, che hanno spiegato le sante Scritture e che, a partire da queste e dalla loro esperienza profonda di Dio, ci hanno insegnato cos’è la vita spirituale, hanno l’abitudine di dire che la pratica dei comandamenti si compie attraverso due attività tra loro correlate: la lotta contro le passioni e la pratica delle virtù.

Le passioni e le virtù sono, prima di tutto, delle attitudini e delle disposizioni interiori che hanno una certa consistenza e prendono una forma abituale. È per questo che i Padri le chiamano “stati” (in greco exeis); tali stati si traducono esteriormente con degli atti puntuali che, quando determinano le passioni, sono chiamati “peccati” e, quando determinano le virtù, sono chiamati “opere buone”. La spiritualità cristiana occidentale (cattolica e protestante) insiste molto sui “peccati” e sulle “buone azioni” dimenticando che queste sono la manifestazione di disposizioni e di stati interiori e che i peccati sono preceduti da tendenze, da immaginazioni e da “pensieri malvagi” (che i santi Padri chiamano logismoi) e che pure le buone opere sono precedute da pensieri e buone disposizioni.

Da questo punto di vista esiste, dunque, un’importante differenza tra la spiritualità ortodossa e la spiritualità cattolica o protestante. Quest’ultime sono – generalmente parlando – delle spiritualità molto esteriorizzate che, da una parte, si manifestano soprattutto in un’attività esteriore (da qui l’importanza delle “opere sociali”) e, dall’altra, considerano i peccati e le “opere buone” come degli atti. Per loro si tratta, dunque, d’evitare gli atti malvagi e di moltiplicare le buone azioni.

La spiritualità ortodossa non nega, evidentemente, che la vita spirituale deve avere la sua espressione in comportamenti esteriori e nella vita sociale traducendosi in azioni ma, avendo coscienza che gli atti hanno la loro sorgente nei pensieri, in moti e disposizioni interiori, essa considera che la vita spirituale s’esercita, prima di tutto, nella vita interiore.

Come definire le passioni e le virtù, nozioni così importanti per la spiritualità ortodossa rinvenibili in tutti i trattati sulla vita spirituale scritti dai santi Padri?

Si può dire che le passioni sono delle disposizioni abituali o delle attitudini stabili attraverso le quali ci attacchiamo a noi stessi (più precisamente al nostro io egoistico) e al mondo e attraverso le quali ci distacchiamo e distanziamo da Dio. Ugualmente, le virtù rappresentano tutte le disposizioni e le attitudini attraverso le quali ci rivolgiamo a Dio attaccandoci a Lui e somigliandoGli.

Nella spiritualità ortodossa le virtù precedono le passioni. Esse, cioè, corrispondono alla profonda e vera natura umana: Dio, creando l’uomo, ha posto in lui i semi di tutte le virtù senza aggiungergli alcuna passione. Le passioni sono apparse nell’uomo a causa della sua caduta dal momento che egli ha scelto, utilizzando male la libertà che Dio gli aveva data, di attaccarsi a se stesso e al mondo piuttosto che a Dio, lasciandosi sedurre da un piacere sensibile immediatamente accessibile, piuttosto che d’attendere la gioia spirituale che lo avrebbe coinvolto quando, attraverso la sua attività spirituale, avrebbe raggiunto un certo grado di sviluppo.

Le passioni hanno la stessa base delle virtù: consistono, l’abbiamo detto, in attitudini, disposizioni del nostro essere, ma orientate in senso opposto. Ecco perché si può dire che le passioni corrispondono a uno sviamento delle nostre facoltà e, dunque, di tutto il nostro essere ed è perciò che i Padri dicono costantemente che queste sono contro natura o che sono delle malattie spirituali. Le passioni costituiscono il nostro stato decaduto, con le quali siamo stornati da Dio, allontanati da Lui, privati per la nostra caduta, della Sua grazia. L’uomo decaduto è dunque un uomo che si trova in un profondo stato di malattia, che vive, in qualche maniera, fuori dalla sua vera natura la quale gli è diviene alienata, ossia estranea.

Ma le virtù non sono distanti dalle passioni: sono da esse coperte e nascoste. È necessario, infatti, riorientare tutte le nostre facoltà verso Dio per ritrovarle, rifarle nuovamente vivere e coltivarle affinché esse si sviluppino.

Tale ritorno di tutte le nostre facoltà, e dunque di tutto il nostro essere verso Dio, è la conversione (in greco métanoia) nel senso profondo del termine, è il pentimento che sta alla base della spiritualità ortodossa. Non si deve dimenticare che le prime parole di san Giovanni Battista quando annunciava la venuta di Cristo, come pure le prime parole di Cristo quando inaugurava la Sua vita pubblica sono: “Pentitevi!”

La conversione non è solo il primo movimento di adesione a una nuova religione o a una nuova forma di vita spirituale, come si pensa generalmente, e il pentimento non è solo un’attitudine puntuale legata al dispiacere di questo o quell’altro peccato. Entrambi sono delle attitudini che, secondo la spiritualità ortodossa, devono animare tutta la vita spirituale dell’uomo dall’inizio fino alla fine della sua esistenza e in qualsiasi momento di essa.

Questa conversione compie, nella realtà, una profonda trasformazione del nostro essere ed esiste, qui, un’altra delle caratteristiche della spiritualità ortodossa in rapporto alle spiritualità delle altre confessioni cristiane. La spiritualità ortodossa compie realmente quello che san Paolo chiama “la morte dell’uomo vecchio” (ossia dell’uomo decaduto, sottomesso alle passioni) e la nascita e la vita dell’uomo nuovo, ossia vivente in Cristo attraverso la pratica delle virtù. Essa realizza uno sviluppo, un compimento, un’espansione del nostro essere, realizzando il passaggio da uno stato di malattia e di alienazione a uno stato di salute e di liberazione, facendoci passare, come dice san Paolo, dalla condizione di schiavi di fronte al peccato e alle passioni alla condizione di uomini liberi, donandoci di realizzare in Cristo per lo Spirito, la pienezza di quanto la nostra natura è chiamata ad essere dal suo Creatore e di quanto la nostra persona ha la vocazione di realizzare.

Questa permanente conversione, questa rinuncia alle passioni e questa vita secondo le virtù nell’obbedienza ai comandamenti di Cristo, esige uno sforzo importante e costante. Dal momento che in noi le passioni hanno costituito a seguito del peccato ancestrale una seconda natura, è difficile liberarci dall’attaccamento a sè e al mondo. Ecco perché i Padri qualificano la vita spirituale con il termine di “ascesi” che significa etimologicamente sia sforzo, sia combattimento.

La vita spirituale assume, per gran parte, la forma d’una lotta interiore contro le tendenze e i pensieri malvagi che alimentano le nostre passioni. Questa lotta dev’essere costante per essere efficace e raggiungere un risultato. Ecco perché la spiritualità ortodossa non è fatta, come nel caso della spiritualità cattolica o protestante, di azioni puntuali, di periodi riservati alla vita interiore nel corso della giornata e della settimana, o di “tempi forti”, fossero pure parecchi. È l’attività di ogni minuto, di ogni secondo. Da qui deriva l’importanza, nella spiritualità ortodossa, della preghiera continua o della “preghiera di Gesù” che, da una parte, ci aiuta a lottare incessantemente contro i pensieri malvagi e le cattive tendenze combattendoli con il nome di Gesù, e, dall’altra, ci permette d’avere costantemente un’attitudine di pentimento (domandando a Cristo d’avere pietà di noi, peccatori), per attaccarci costantemente a Dio. È rifiutando le cattive pulsioni del nostro cuore e i malvagi pensieri del nostro spirito che potremo finalmente essere liberati dalle passioni conducendo nelle virtù la vita in Cristo e permettendoci d’ereditare i Beni divini che ci sono riservati.

Questa lotta interiore non è solo lunga e difficile ma pure dolorosa perché le passioni sono intimamente legate al piacere sensibile al quale siamo spontaneamente e fortemente attaccati dalla nostra più tenera infanzia. Tra le passioni alcune ci permettono d’ottenere piacere, altre d’evitare il dolore. Rinunciare alle passioni significa, dunque, rinunciare al piacere che è loro connesso e accettare la parte del dolore che esse ci permettono d’evitare.

La vita spirituale è, dunque, almeno nei suoi primi tempi, un compito penoso, doloroso ed è evidente che gli uomini odierni sono piuttosto tentati di rivolgersi alle spiritualità che gli paiono assicurare uno sviluppo delle loro potenzialità senza che abbiano da rinunciare a nulla. È evidente che questa è un’illusione.

Tutto ciò non significa, ovviamente, che la spiritualità cristiana comincia e finisce nella sofferenza. Dopo la passione il cristiano è atteso dalla resurrezione, dopo la morte dalla vita, dopo il dolore, limitato e temporaneo, gli sono promesse una gioia e una beatitudine illimitate e senza fine. Tutti i santi ne danno testimonianza.

La lotta interiore è piena di trabocchetti e di difficoltà, prima di tutto perché le passioni sono sovente sottili, si nascondono, prendono molteplici forme, s’incatenano le une alle altre. Secondariamente perché siamo vittime di numerose astuzie dei demoni che non desiderano l’eliminazione delle passioni dal momento che, se viviamo secondo quest’ultime, nutriamo coloro che le ispirano e seguiamo la loro volontà. La lotta interiore è difficile anche perché le passioni oscurano la nostra coscienza e c’impediscono d’avere quel discernimento utile ad individuarle e a combatterle.

D’altronde, non possiamo ottenere il discernimento se non nella progressiva purificazione interiore. Attendendo quel momento, ci dobbiamo affidare al discernimento di un affidabile padre spirituale che ha vinto le proprie passioni. La lettura delle sante Scritture e degli scritti dei santi Padri ci reca pure un aiuto indispensabile.

Gli stessi Padri hanno praticato, durante tutta la loro vita, la lotta interiore e hanno ottenuto il discernimento trasmettendo di generazione in generazione il loro sapere e il loro saper fare. Attraverso gli scritti dei santi Padri – dei quali la Filocalia dei Padri neptici ci fornisce un’eccellente antologia – troviamo l’espressione della preziosa esperienza che generazioni di spirituali hanno accumulato in numerosi secoli.

I Padri, per facilitarci la vita spirituale, hanno minuziosamente analizzato le passioni e le virtù. Evidentemente, la dettagliata descrizione delle passioni, rinvenibile nei loro scritti, non è il segno d’un generico compiacimento delle bassezze dell’animo umano; è simile alla descrizione delle malattie alle quali si dedica la medicina per meglio individuarle e curarle.

Non posso riprendere la descrizione della passioni che ho lungamente presentato nel mio libro Thérapeutique des maladies spirituelles.

Non posso neppure riconsiderare la descrizione delle virtù. Mi limiterò a dire che esse sono numerose come le passioni che ne sono la negazione e ricorderò che le virtù cristiane per eccellenza sono l’umiltà e l’amore di Dio e del prossimo.

In un certo modo, tutte le passioni derivano da una sola: dall’amore patologico di sé che i Padri chiamano philaytia, e tutte le virtù si riassumono e culminano in una sola: l’amore di Dio.

Ma bisogna comprendere che non si può amare veramente Dio fintanto che si è attaccati al mondo e a se stessi. Ecco perché, secondo la spiritualità ortodossa, l’amore spirituale non è un’attitudine affettiva della quale siamo spontaneamente capaci. Se Cristo ci ha comandato d’amare Dio e il nostro prossimo è perché non è un’azione che possiamo compiere spontaneamente. In effetti, per poter amare Dio (e il prossimo in Dio), bisogna essere distaccati dal mondo e da se stessi. Ecco perché l’impassibilità (in greco apatheia) è la porta dell’amore spirituale ed ecco perché, dicendolo diversamente, è necessario aver combattuto e vinto tutte le passioni per poter amare veramente Dio e il prossimo.

La lotta contro le passioni e l’acquisizione delle virtù necessitano, l’abbiamo visto, dell’intervento costante dell’intelligenza e della volontà, della facoltà combattiva e della facoltà desiderante dell’uomo. La lotta fa costantemente appello alla sua libera scelta e ai suoi sforzi. Ma, allo stesso tempo, quest’ultimi non possono compiersi efficacemente e giungere ad un risultato positivo senza il permanente aiuto della grazia. Il Cristo ci ha detto: “Senza di me non potete fare nulla” e ancora: “Chi non raccoglie con me disperde”. Una delle caratteristiche fondamentali della spiritualità ortodossa è considerare che la vita spirituale implica una collaborazione o una sinergia (in greco synergeia) dell’uomo e di Dio, dello sforzo umano e della grazia. Cadendo da una concezione molto equilibrata, la spiritualità protestante e cattolica sono state sballottate tra due idee ugualmente inesatte:

– la prima deriva da una concezione agostiniana per cui la volontà è impotente ed è incapace di compiere il minimo bene. Secondo questa concezione la grazia compierebbe tutto al punto che la dovremo ricevere passivamente senz’alcuna attività da parte nostra[3];

– la seconda per la quale il cristiano, moltiplicando le buone opere, accumulerebbe dei meriti che, alla fine, gli assicurerebbero la salvezza[4]

La necessità della grazia per progredire nella vita spirituale fa in modo che la spiritualità ortodossa s’appoggi fortemente sulla vita sacramentale, da una parte, e sulla vita di preghiera, dall’altra.

È attraverso il battesimo, l’abbiamo detto, che il cristiano riceve la grazia che lo salva e lo deifica. La lotta contro le passioni non ha altro scopo che quello di purificarlo permettendogli di ricevere personalmente questa grazia. La vita secondo le virtù non ha altro scopo che quello di permettere di vivere in conformità con la grazia.

La santa comunione è, evidentemente, un’altra sorgente essenziale della grazia dal momento che, attraverso di essa, riceviamo Cristo stesso. Ma anche qui la vita ascetica ci permette d’assimilare la grazia, di riceverla non per la nostra condanna, se l’abbiamo ricevuta indegnamente come dice la preghiera prima della comunione, ma per la nostra guarigione, la nostra salvezza e la nostra eterna vita in Dio.

Vediamo così che la spiritualità ortodossa è una vita ecclesiale. Non può esistere che nella Chiesa perché è nei sacramenti donatici dalla Chiesa che riceviamo la grazia presente solamente in essa. È la Chiesa, Corpo di Cristo, che ci può unire a Cristo per mezzo dello Spirito Santo.

Ho ricordato la preghiera quale condizione per la ricezione della grazia. È attraverso la preghiera che domandiamo la grazia e che, nella misura in cui siamo purificati, la riceviamo.

La preghiera è anche il mezzo privilegiato d’incontro con Dio e d’unione con Lui.

Ho già ricordato la “preghiera di Gesù”. Si sa quale importanza essa abbia nella spiritualità ortodossa. È una forma di preghiera che favorisce la nostra concentrazione e dunque il nostro aiuto per pregare meglio (con più attenzione e con l’intelligenza unita al cuore, dunque con tutto il nostro essere), ma è anche e soprattutto una preghiera che ci aiuta a pregare incessantemente. Attraverso questa continua preghiera possiamo chiedere la grazia della quale abbiamo costantemente bisogno. Attraverso di essa possiamo preservarci dal male richiedendo l’aiuto di Dio. Possiamo compiere ogni nostra attività quotidiana con Dio, per Dio e in Dio e così integrare nella nostra vita spirituale la totalità della nostra esistenza.

Una delle caratteristiche della spiritualità ortodossa (che la distingue in generale dalle spiritualità cattoliche e protestanti), è questa capacità di mischiarsi tra le attività della nostra vita quotidiana e, alla fine, di giungere a fare una cosa sola con la vita ordinaria finendo propriamente per trasfigurarla e renderla straordinaria. Quando dei visitatori occidentali si recano in Grecia o nei paesi di tradizione ortodossa sono colpiti e spesso scioccati dal fatto che le persone entrano ed escono incessantemente dalle chiese durante le ufficiature liturgiche mentre in Occidente tutti vi entrano e vi escono allo stesso momento per la messa o il culto domenicale. Costoro non comprendono che questa pratica ortodossa testimonia, alla sua maniera, che la liturgia non è solo una pratica domenicale e che non esiste alcuna frontiera ma, al contrario, una perfetta continuità tra la vita della chiesa e la vita quotidiana.

Collegato a quest’osservazione termino la mia relazione evidenziando che nella spiritualità ortodossa non esiste discontinuità tra il piano naturale e quello soprannaturale, tra il creato e l’increato, tra il mondo umano e quello divino. Da una parte esiste, infatti, l’incarnazione del Verbo di Dio divenuto uomo che, come dice san Massimo il Confessore, permette all’uomo di “divenire dio per grazia dal momento che Lui si è fatto uomo”. Dall’altra, esiste il fatto che Dio, comunicandoci la sua grazia, non ci comunica qualcosa di creato, come ritiene la teologia cattolica, ma la grazia increata, le energie divine stesse come ha fortemente sottolineato la teologia di san Gregorio Palamas in accordo con i Padri greci che l’hanno preceduto. Nelle sue energie increate, Dio pur rimanendo interamente inconoscibile ed inaccessibile nella Sua essenza, Si fa conoscere e Si comunica pienamente rendendo dei per grazia coloro ai quali Si comunica, come lo rileviamo dai santi ai quali Egli ha dato di vedere la Sua Luce.

È così che la spiritualità ortodossa è interamente impregnata da questa teologia delle energie divine e della Luce increata nella quale esse si esprimono. Questo fonda la possibilità d’una vera deificazione dell’uomo in Cristo, fine verso la quale è orientata tutta la spiritualità ortodossa nella perfetta coscienza che, come dicono numerosi Padri greci, “Dio si è fatto uomo affinché l’uomo divenga dio”.

 


 

[1] Quest’affermazione non deve far pensare che il cristiano possa entrare in rapporto con le Persone trinitarie come se si trattasse di rapportarsi con degli esseri umani. Qualche teologo ortodosso suggerisce ingenuamente che la persona umana consiste nel suo rapportarsi agli altri e, dal momento ch’essa è ad immagine e somiglianza divina, ne segue che le Persone divine si costituiscono nel rapporto ch’esse hanno tra loro e con il mondo (Joannis Zizioulas). Ma questa, oltre ad essere un’esposizione banale, cozza evidentemente con l’opinione patristica in merito. Come l’Autore accennerà più avanti, la Trinità, è e rimane un mistero. Ciò non significa che non se ne possa essere coinvolti. Ma il coinvolgimento umano con la Trinità non si può esprimere tout-court nella categoria di un rapporto personale come se ci si potesse rapportare direttamente alla persona del Padre e a quella dello Spirito o come se i Tre componessero de facto una sola persona con la quale ci rapportiamo. La terminologia rapporto personale, mediata dalla filosofia occidentale personalista, se usata in ambito teologico è molto problematica dal momento che nell’uomo l’unico suo essere è determinato dalla sua unica persona mentre in Dio dalle tre persone che i Padri definiscono nel senso di distinzioni, non di relazioni e rapporti. In realtà solo Cristo è la porta attraverso la quale la vita trinitaria stessa ci raggiunge nelle sue manifestazioni esterne o, per dirla con il linguaggio teologico ortodosso, nelle sue energie salvifiche. Tutto quello che riguarda la vita intratrinitaria, al di là dei dati strettamente rivelati, ci sfugge e ci sfuggirà sempre. Per questo i Padri rifuggono da ogni spiegazione semplificativa, banale e antropomorfica e spesso si esprimono apofaticamente quando trattano quelle realtà divine che giungono fino all’uomo. Riguardo alla vita intratrinitaria tacciono completamente e irridono gli eretici che, con i loro vani ragionamenti, s’illudono di penetrare in essa. Sulla base di quanto esposto, risulta evidente che, piuttosto del concetto di rapporto personale, nei riguardi di Dio è molto meglio parlare di rapporto esistenziale. [N.d.t.]

[2] L’espressione dev’essere precisata nel senso della nota precedente e dev’essere ritenuta pensando che il rapporto con Dio non è il rapporto con un’idea o con una realtà astratta ma è come il rapporto con una persona o con un essere vivente. In realtà è molto più del rapporto con un essere vivente dal momento che, rapportarsi con Dio, significa rapportarsi con la sorgente della vita stessa. [N.d.t.]

[3] È la classica concezione della Riforma protestante nella quale emerge evidente un forte pessimismo antropologico. [N.d.t.]

[4] È la concezione in contrapposizione polemica alla precedente e contraddistingue il Cattolicesimo di marca post-tridentina. È evidente come quest’impostazione si presti a una banale interpretazione meritocratica: i meriti guadagnati personalmente e quelli dei santi divengono un capitale con il quale riscattarsi davanti a Dio. Sui meriti dei santi si basa la tuttora vigente dottrina delle indulgenze. [N.d.t.]

 

 

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