Alexandre Schmemann

Il momento della verità

per l’Ortodossia

 

È oramai datato l’interessante intervento del famoso teologo Alexandre Schmemann (†13/12/1983). Riproporlo significa rivisitare un momento storico del dialogo ecumenico e comprendere le ragioni di alcuni argomenti dai quali non si può prescindere. Le posizioni espresse in quest’articolo sono tutt’altro che banali. Comportano, infatti, la capacità di affrontare le sfide del nostro tempo, l’esposizione al confronto e al dialogo e, contemporaneamente, lo stabile fondamento sugli elementi basilari che caratterizzano la propria identità, elementi che non è possibile “negoziare”. Tale articolo offre, inoltre, la possibilità di verificare se il cammino da allora svolto risponde o meno ai suggerimenti proposti.

Se si potesse giudicare dalla partecipazione delle Chiese ortodosse al movimento ecumenico e, più precisamente, al Consiglio Ecumenico delle Chiese, basandosi unicamente sui rapporti, le dichiarazioni e le statistiche ufficiali il bilancio sarebbe senza dubbio positivo e ottimista[1]. Sul piano ufficiale questa partecipazione non ha cessato di crescere dai tempi eroici di Stoccolma e di Losanna. Oggi tutte le Chiese ortodosse, o quasi, hanno aderito al Consiglio Ecumenico. Il posto assunto dall’Ortodossia nel Consiglio è simbolizzato dall’elezione, divenuta tradizionale, di un vescovo ortodosso tra i cinque presidenti. L’Ortodossia sembra suggerire questo simbolo. Non è solo all’interno del movimento ecumenico ma vi riceve un ruolo importante e tende ad essere una delle sue forze direttrici.

Un drammatico malinteso

Ufficialmente la partecipazione ortodossa al Consiglio appare come una tradizione ben stabilita tale da non sollevare né domande né dubbi. Ma quest’ottimismo ufficiale corrisponde alla situazione reale? In piena onestà devo rispondere no. Questo breve scritto vuole giustamente mostrare in primo luogo l’esistenza di una differenza pericolosa tra la posizione ufficiale delle Chiese ortodosse ricevute nel Consiglio Ecumenico delle Chiese e l’Ortodossia “reale”; in secondo luogo, questa differenza costituisce, per il Consiglio Ecumenico delle Chiese, un urgente problema che, se non è compreso e oltrepassato in tempo, rischierà di comportare, presto o tardi, una drammatica crisi nel movimento ecumenico.

Chiunque abbia seguito gli sviluppi ecumenici all’interno della Chiesa ortodossa non negherà che, malgrado tutte le dichiarazioni e le azioni ufficiali, non solo la partecipazione ortodossa al Consiglio Ecumenico delle Chiese crea sempre problema ma suscita pure un tenace sospetto ossia un’ostilità che non si potrebbe attribuire semplicemente e puramente a un morto conservatorismo, ad una mancanza d’interesse, a reazioni provinciali. Questo sospetto è, effettivamente, largamente diffuso non solo presso i semplici laici ma pure nella gerarchia e tra i teologi. Esiste, ben inteso, una posizione ufficiale assunta dai responsabili dell’Ortodossia ma il lettore occidentale dev’essere subito preavvisato che, nella Chiesa ortodossa, non si può senz’altro identificare quant’è “ufficiale” con la voce della Chiesa. La storia ci ricorda che nessuna dichiarazione ufficiale ha avuto effetto costringente fintanto che non è stata accolta dall’intero corpo della Chiesa, nonostante sia molto difficile, se non impossibile, definire con precisione come tale accoglimento possa essere realizzato ed espresso. Ad esempio, chi potrebbe immaginare più “ufficiale” delle unioni con Roma firmate a Firenze nel 1438 e a Brest-Litovsk nel 1594? Eppure né l’una né l’altra furono accolte dalla Chiesa e il loro fallimento non fece altro che aumentare il numero dei tragici malintesi che rendono attualmente così difficili le nostre relazioni con Roma. Oggi, come allora, la posizione “ufficiale” sembra pericolosamente isolata non tanto dai sentimenti o dalle reazioni dell’ortodosso “medio” quanto dalla realtà ortodossa stessa, ossia dalla totalità dell’esperienza spirituale, teologica e liturgica. Solo questa può, infatti, vivificare e autenticare gli atti della politica ecclesiastica. Ora, la partecipazione ortodossa al Consiglio Ecumenico delle Chiese si situa precisamente al livello della “politica ecclesiastica”, nonostante il notevole lavoro compiuto dai teologi ortodossi. Se la partecipazione significa effettivamente sentimento vissuto d’un impegno e d’una responsabilità, certezza d’una irrevocabile appartenenza, identificazione con il movimento ecumenico nelle sue realizzazioni, nelle sue difficoltà, nella sua complessa realtà, allora bisogna apertamente ammettere che, malgrado la presenza nel movimento ecumenico di rappresentanti della Chiesa ortodossa, la Chiesa ortodossa intesa nella sua totalità resta certamente all’esterno. La rappresentazione non è stata ancora trasformata in reale partecipazione. Bisogna domandarsi perché.

Per sua stessa natura il movimento ecumenico è un incontro, un dialogo, l’accoglimento di una compagnia nella ricerca dell’unità cristiana e della sua pienezza. Per essere fruttuoso e significativo questo confronto esige un certo grado di mutua comprensione e un comune linguaggio anche se tale linguaggio è strumento d’una acuta controversia.

La tragedia, per l’Ortodossia, è che sin dall’inizio della sua partecipazione ecumenica, non c’è stato tra essa e la sua corrispettiva parte occidentale – almeno all’interno del movimento ecumenico in quanto organizzazione e istituzione – alcun linguaggio comune di tale sorta, alcuna “continuità” teologica. Non si è prodotto alcun reale incontro. Come dimostrerò, pure il contributo apparentemente più riuscito di teologi e di “ecumenisti” ortodossi è stato, in effetti, limitato, ossia predeterminato, imponendo un quadro teologico artificiale. Ciò non a causa di qualche malvagia volontà ma per la natura stessa che il movimento ecumenico ha dalle sue origini.

Le ragioni di un fallimento

Per spiegare quest’iniziale fallimento hanno un’importanza essenziale due fatti. Il primo è il plurisecolare isolamento della Chiesa ortodossa dall’Occidente cristiano, il secondo è il carattere, l’ethos, specificamente occidentale del movimento ecumenico.

Sviluppi paralleli

È totalmente impossibile comprendere l’originalità della situazione ecumenica dell’Ortodossia se non si prende coscienza che l’Oriente ortodosso, per molti secoli, fu concretamente assente dalla vita occidentale, non vi prese parte e, ciò che non è di minor importanza, non fu considerato come una realtà condivisibile dall’Occidente. Ciò significa che gli avvenimenti decisivi della storia spirituale e teologica dell’Occidente – la Riforma e la Contro-Riforma – eventi che hanno determinato la situazione religiosa e la mentalità teologica dell’Occidente cristiano contemporaneo, hanno avuto una minima influenza sulla Chiesa ortodossa e non sono stati significativi per la sua storia e la sua vita. Isolata dall’Occidente e dalla sua effervescenza religiosa, l’Ortodossia fu, d’altra parte, costretta ad una sorta d’immobilismo difensivo a causa delle condizioni esterne della sua esistenza: la dominazione turca e le sue diverse conseguenze. È così ch’essa rimase fondamentalmente invariata nella sua struttura, nella sua spiritualità, nella sua liturgia e nella sua intera tradizione[2]. La sola notabile eccezione fu l’“occidentalizzazione” profonda della sua teologia. Ma fu un’eccezione che confermava la regola. Effettivamente fu precisamente a causa del suo allontanamento dalle sorgenti e dai metodi tradizionali che questa teologia “occidentalizzante” non giunse ad influenzare in maniera significativa la vita della Chiesa e, dunque, non fu realmente accettata.

Quest’isolamento orientale della Chiesa ortodossa e la sua continuità, la sua reale identità con la tradizione formulata accolta prima dello scisma occidentale, esplicano i fondamentali presupposti che hanno condizionato inizialmente le attitudini e le reazioni dell’Ortodossia nel movimento ecumenico e hanno determinato l’ulteriore sviluppo della partecipazione ortodossa. Per coloro che si preoccupano dell’avvenire dell’ecumenismo è essenziale comprendere questi presupposti con quanto essi implicano.

Un solo Occidente

Il primo concerne l’orientamento stesso del movimento ecumenico. Un cristiano occidentale, a causa del contesto storico nel quale si trova, formula il problema ecumenico fondamentale – quello dell’Unità, della Divisione e della Riunione – prima di tutto in termini di separazione e d’opposizione tra cattolici e protestanti. Invece, per la Chiesa ortodossa, l’opposizione fondamentale si colloca tra l’Oriente e l’Occidente compresi come due “correnti”, due “universi” spirituali e teologici ed è questa opposizione che, secondo il pensiero ortodosso, dovrebbe determinare il quadro primordiale del dialogo ecumenico. Non dobbiamo dimenticare che la sola separazione, il solo scisma del quale la Chiesa ortodossa si ricordi e del quale parli esistenzialmente come di un avvenimento del suo passato è precisamente la separazione, da sé, dell’intero Occidente. Infatti al momento della fatale rottura tra Costantinopoli e Roma (1054), quest’ultima rappresentava molto bene sul piano istituzionale e teologico l’intero Occidente cristiano e fu come una totalità che l’Occidente ruppe con l’Ortodossia. Dal punto di vista ortodosso, fu la conseguenza d’una iniziale deviazione dalla comune tradizione, deviazione che accecò l’Occidente e gli fece accogliere dottrine incompatibili con l’insegnamento della Chiesa indivisa.

In questa prospettiva, la Riforma appare come una crisi all’interno della deviazione globale dell’Occidente nei riguardi dell’Ortodossia, come uno sviluppo specificamente occidentale, legato alle condizioni e ai presupposti propri all’Occidente. Ecco perché la questione ecumenica primordiale, il punto di partenza dell’intero movimento ecumenico è, dal punto di vista ortodosso, il seguente: cos’è successo tra Oriente e Occidente? Quando e come è iniziata questa separazione? Qual è la sua vera portata e il suo contenuto? Bisognerebbe, in altri termini, rivalorizzare il passato, questa storia che è terminata, ad un certo momento, d’essere la storia comune del Cristianesimo originale. Il movimento ecumenico per avere tutto il suo senso e la sua fecondità, dovrebbe porre al centro delle sue ricerche quest’iniziale tragedia che fu determinante per la Chiesa universale.

Il riferimento alla Tradizione

Il secondo presupposto discende logicamente dal primo. Esso riguarda il linguaggio, i temi, i riferimenti del confronto ecumenico. Dal punto di vista ortodosso, il solo autentico linguaggio comune, il solo schema di riferimento veramente utilizzabile in tale conversazione, potrebbe essere fornito dalla Tradizione che tutti i cristiani, per un lungo periodo, accettavano come l’insegnamento comune e universale della Chiesa. Tale è, giustamente, l’insegnamento rappresentato dall’Ortodossia. Bisogna ancora ricordarsi che, al momento dello scisma occidentale, la Tradizione orientale – quella dei Padri, dei concili ecumenici e la lex orandi – formava ancora la base comune e non era considerata come un’espressione “orientale” della fede cristiana, come qualche cosa di particolare, d’orientale in senso limitativo, ma veramente come la Tradizione universale della Chiesa. Questa Tradizione potrebbe, dunque, se fosse stata tale la concezione ortodossa dell’ecumenismo, dare al dialogo tra i cristiani un quadro autentico di riferimenti comuni, la possibilità di chiarire i fondamentali problemi. Estranea alle controversie e alle acute frustrazioni dell’Occidente, la Chiesa ortodossa potrebbe situarsi nell’ecumenismo come il tertium datum, apportadogli non la sua tradizione, ma l’indivisa eredità nella quale ciascuno può scoprire il punto di partenza del proprio sviluppo teologico e spirituale.

Verità ed unità

Così, ed è il terzo presupposto, il solo metodo ecumenico valido sarebbe, per l’Ortodossia, quello d’un confronto dottrinale totale e diretto, sfociante ineluttabilmente nell’accettazione della verità e nel rifiuto dell’errore. In tutta la sua storia, l’Ortodossia non ha conosciuto che due categorie: la vera fede (ortodossia) e l’eresia, senz’alcuna possibilità di compromesso tra le due. L’eresia era considerata non tanto come una distorsione intellettuale ma come una fede deficiente che pone in pericolo la salvezza stessa. È dunque la verità, non l’unità, che nell’opinione e nell’esperienza dell’Ortodossia, dovrebbe costituire il vero fine del Movimento ecumenico. In quest’esperienza l’unità non è altro che la naturale conseguenza della verità, il suo frutto, la sua benedizione.

Un movimento occidentale

Alcuni di questi presupposti non sono stati accettati e neppure compresi nel movimento ecumenico da quando la Chiesa ortodossa vi ha fatto la sua comparsa. Ciò significa che, dal suo inizio, il movimento ecumenico è pesantemente dominato dalla problematica spirituale e teologica dell’Occidente.

Gli ortodossi, in primo luogo, compresero il fenomeno ecumenico come un dialogo tra l’Oriente e l’Occidente considerati come due “metà” del mondo cristiano primitivo. Il fatto stesso di non essere che una “metà” era in pratica completamente estraneo sia ai protestanti, sia ai cattolici-romani. Il lungo isolamento dell’Ortodossia, da una parte, il dinamismo drammatico della storia religiosa dell’Occidente, dall’altra, hanno sviluppato presso gli occidentali una sufficienza che non lascia alcun spazio agli “orientali” arcaici e statici che, appena qualche decennio prima, erano oggetto del proselitismo missionario dell’Occidente. Per quest’ultimo la tragedia, sempre scottante e presente, non consisterebbe in una rottura con l’Oriente ma nella rottura della propria unità religiosa con la crisi della Riforma e della Contro-Riforma. L’idea ortodossa d’una tradizione primitiva universale come eredità comune fu ignorata poiché un’altra Tradizione si era sviluppata in Occidente: quella di una teologia polemica difensiva e offensiva nella quale la stessa nozione di “tradizione” si trovava radicalmente alterata. Per la Chiesa ortodossa, la Tradizione è l’esperienza vivente della Chiesa esistente prima delle sue formulazioni e definizioni e indipendentemente da esse. Ma l’Occidente la ridusse poco a poco a una categoria praticamente giuridica di autorità in maniera che non è più il contenuto ma la stessa esistenza della Tradizione che diviene il problema e la preoccupazione dell’ecumenismo.

Infine, l’affermazione ortodossa centrale che la verità, e solo essa, quale contemporaneo contenuto e forma dell’unità, deve costituire l’obiettivo fondamentale del movimento ecumenico, fu mal compresa e praticamente ignorata. Ciò si spiega per il fatto che, nell’esperienza occidentale, la verità è sentita prima di tutto come una “autorità” formale e conseguentemente non si oppone all’errore ma alla libertà. Le categorie stesse di “ortodossia” e di “eresia” hanno qui una risonanza molto differente da quella presente nello spirito dell’Ortodossia. E se, nella concezione ortodossa, il movimento ecumenico dovrebbe essere centrato sull’ultima scelta tra verità ed eresia, i suoi presupposti occidentali hanno posto come fine che tutte le “scelte” devono integrarsi in una sintesi nella quale si arricchiscano e si completino mutuamente. Il termine “eresia” è praticamente assente ancor oggi dal vocabolario ecumenico. Non vi esiste neppure come possibilità.

Per un’autentica partecipazione dell’Ortodossia

Mi sembra che quest’iniziale malinteso, da me brevemente analizzato, pone la Chiesa ortodossa in una posizione fondamentalmente falsa in rapporto al movimento ecumenico. La sua posizione è falsa sia teologicamente sia istituzionalmente e tale falsità spiega la costante “agonia” ortodossa nel movimento ecumenico, l’ansietà e i dubbi che questo provoca nella coscienza ortodossa.

Al di là della dicotomia: cattolici e protestanti

Nell’ambito teologico, la Chiesa ortodossa non ha saputo affermare la propria visione e i propri presupposti nel movimento ecumenico. Ha dunque dovuto accettare – e nei fatti ha accettato – che fosse formulata in termini di dicotomia tra cattolici e protestanti. Ciò non significava solo che l’Ortodossia fosse in qualche sorta costretta a identificarsi in una delle due posizioni antagoniste dell’Occidente ma che avrebbe pure dovuto adottare tutte le dicotomie che ne risultavano: parola e sacramento, verticale e orizzontale, autorità e libertà, ecc. (Ora, queste dicotomie tipiche della situazione teologica dell’Occidente sono fondamentalmente estranee alla vera Tradizione ortodossa). Nell’assenza di Roma, l’Ortodossia si vide assegnare il ruolo di un Cattolicesimo ecumenicamente accettabile all’estrema destra dello spettro delle “denominazioni” protestanti. È veramente tragico che i teologi e i “rappresentanti” dell’Ortodossia, con molte poche eccezioni, abbiano così facilmente accettato tale posto e con ciò si siano trovati accecati, senza forse neppure rendersene conto, nella controversia occidentale. Infatti il loro contributo autentico avrebbe potuto aprire le strade senza uscita e sorpassare le false dicotomie del Cristianesimo occidentale. È probabilmente qui che la lunga “occidentalizzazione” dei teologi ortodossi professionali ha prodotto i suoi frutti negativi. Poiché se è vero che la Chiesa ortodossa è gerarchica, sacramentale, tradizionale, “orizzontale”, dogmatica, “cattolica”, ecc., nessuna di queste “note” o caratteri – come li affermano o li difendono i cattolici romani e li negano o li criticano i protestanti –, non coincide realmente con l’approccio del mistero. L’Ortodossia non può senz’altro essere ridotta a una “dottrina ortodossa” della successione apostolica, dei sette sacramenti, dei tre gradi della gerarchia, ed è pure molto incerto che tali “dottrine” siano mai esistite presso di lei con una forma chiaramente definita. La maggior parte di tali termini sono stati molto semplicemente presi in prestito dai manuali occidentali ed è necessario che siano valutati alla luce della Tradizione ortodossa totale ed autentica. Purtroppo l’Ortodossia è stata sempre “presente” e “rappresentata” nelle conversazioni ecumeniche precisamente come “posizione” in rapporto a questa o quella questione. Praticamente non lo è mai stata come totalità organica, come vivente realtà spirituale in grado da sola di dare forza e senso a queste “posizioni” esterne. Il risultato è che queste posizioni furono sovente confuse con delle preliminari categorie occidentali finendo per rafforzare il loro quadro teologico. Le “dichiarazioni ortodosse separate”, aggiunte ai rapporti di quasi tutte le grandi conferenze ecumeniche, sono una buona illustrazione della loro stessa vanità, del sentimento di trovarsi in una posizione falsa, sentimento che fu quasi sempre quello dei delegati ortodossi.

Riconoscere la realtà della divisione

Tuttavia è nel terreno costituzionale che è più visibile la falsità della posizione ortodossa all’interno del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Essendosi stabilita la situazione religiosa dell’Occidente, non si poteva concepire alcuna altra struttura al Consiglio di quella che si fonda sul principio “denominazionale”. Dal momento che non si poteva avanzare alcuna definizione comune di “Chiesa”, ogni comunità che possiede una certa organizzazione autonoma doveva essere ammessa come “chiesa” anche se tale termine non apparteneva alla sua maniera di definirsi. Questo principio riflette adeguatamente il concetto protestante del movimento ecumenico ma è radicalmente incompatibile con il concetto sia ortodosso sia cattolico-romano. Quello che qui è in causa non è una questione di prestigio (la Chiesa ortodossa non avrebbe più “importanza” di una qualunque “denominazione” minore), ma una questione di verità e di realtà ecumenica. La separazione tra le “denominazioni” protestanti, effettivamente, differisce radicalmente per la sua stessa natura dalla separazione tra l’Ortodossia e il Protestantesimo, da una parte, e tra l’Ortodossia e il Cattolicesimo-romano, dall’altra. Nel primo caso esistono dei disaccordi all’interno di un accordo fondamentale, negli altri due casi, ci possono essere degli accordi parziali ma nel contesto di un disaccordo radicale la cui evidenza si fa dolorosa con l’impossibilità dell’intercomunione.

La realtà ecumenica ha tre aspetti: cattolico, protestante, ortodosso ma nulla di ciò si esprime nelle forme istituzionali del movimento ecumenico. Anche là il biasimo non tocca i protestanti, architetti del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che fanno del loro meglio per integrare, alla loro maniera, nella struttura del Consiglio le tensioni ecumeniche fondamentali (si pensi alla Dichiarazione di Toronto). Il biasimo ricade sugli ortodossi stessi che, accettando il principio “denominazionale” e applicandoselo, tradiscono una volta di più la loro missione e la loro funzione ecumenica propria: quella di rappresentare un “polo” totalmente differente dell’esperienza della Chiesa o, in altri termini, la Chiesa stessa, in tutta la sua realtà e la sua unità. Pertanto è questo che bisogna realizzare per nulla con la reiterata e meccanica proclamazione d’essere la “vera” Chiesa, ma con la ferma affermazione del semplice fatto che, in ogni confronto ecumenico, la Chiesa ortodossa costituisce sempre, per la sua stessa natura, l’altra “metà” che si situa simultaneamente con, ma anche sempre contro la totalità dei protestanti. E, fintanto che questa reale opposizione non sarà espressa nella struttura stessa del Consiglio Ecumenico delle Chiese, la posizione dell’Ortodossia all’interno di esso resterà sconcertante e si presterà a confusione sia per gli stessi ortodossi, sia per i loro fratelli protestanti.

Si vorrà ben comprendere, spero, che queste sottolineature, anche se irritano o dispiacciono, provengono da una vivissima preoccupazione per l’avvenire del movimento ecumenico e per la partecipazione ortodossa a questo movimento... Abbiamo toccato, mi sembra, il “momento della verità” ove si ha bisogno, prima di tutto, d’essere lucidi e responsabili. D'altronde, abbiamo già ricevuto molto dal confronto ecumenico, ci ha aperto molte possibilità e non abbiamo il diritto di tradirle.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Ecumenismo11.htm

 

[1] Traduzione dalloriginale: Schmemann A., Le moment de vérité pour lOrthodoxie in AA.VV., Un nouvel age oecumenique, Éditions du Centurion, 1966 Paris, pp. 183-195.

[2] Il lettore occidentale non pensi, tuttavia, che le basi tradizionali dellOrtodossia non siano state intaccate unicamente per motivi storico-sociali. Il perdurare nella medesima Tradizione ha avuto motivazioni prima di tutto di fede. Si trattava di conservare la fede e lesperienza dei Padri teofori (= portatori dell’esperienza di Dio) espressa anche nell’ordinamento dogmatico, liturgico ed ecclesiale. Nd.t.

 

 

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