Vita di sant’Elia lo Speleota

[11 settembre]

Sua Santità Bartolomeo I, il 23 marzo 2001 ha inaugurato a Melicuccà (RC) un Metochio presso la grotta in cui si santificò Elia lo Speleota. La Vita che qui pubblichiamo è fedele sintesi dell’edizione che V. SALETTA (La Vita di sant’Elia, Roma 1972), diede della traduzione fatta nel 1689 da G. CARNUCCIO (Cod. Crypt. B.b. XVII, ff. 15-35). Questi aveva trascritto l’unico manoscritto conosciuto (e difettoso), il Mess. Gr. 30, ff 29-49. Dal Mess. il gesuita Jean Stiltingh trasse il testo edito in Acta Sanctorum Septembris (III, Venezia 1761, 848\87), tradotto poi da G. MINASI, Lo Speleota, Napoli 1893.

 

Nasce a Reggio Calabria (circa 860)

Desideriamo raccontarvi dal principio la sublime vita del nostro santo e celeste padre Elia, e le ascetiche lotte che sin dalla fanciullezza affrontò contro gli spiriti maligni, proponendo solo quelle cose che ci hanno raccontato chi l’ha frequentato prima di noi, o che abbiamo toccato con le nostre mani. Ebbe per patria una città chiamata Reggio, situata alla frontiera con l’Occidente; non fu povero, essendo sufficientemente dotati i suoi genitori, Pietro e Leontìa. Fu chiamato Elia per provvidenza divina; poiché nascendo come un sole in Occidente, risplendette con i raggi delle virtù sino all’Oriente [Elia da elios, sole].

Un giorno, essendo andato al tempio del Signore per partecipare ai Divini Misteri, gli si accosta un monaco; avendo conosciuto che la Grazia stava per ricoprire il beato, gli dice: “Deponi questo tuo vestito, figlio! Indossa la veste della salvezza e la tunica dell’incorruttibilità”. Il ragazzo andò via, dicendo: “Io, giovane, robusto, come posso spegnere gli infuocati dardi del piacere? Come posso vivere la vita angelica?” E supplicava Dio affinché gli mostrasse la sua volontà. Applicatosi come laboriosa ape ai prati delle divine Scritture, raccoglieva da esse il nettare delle virtù, riponendolo, come in un alveare, nel suo cuore[1].

Essendo dunque giunto al diciottesimo anno, avendo saputo che i suoi genitori volevano che egli si unisse in matrimonio, venne in gran malinconia, egli che era sempre allegro. Egli, infatti, amava l’incorrotta e angelica vita, a imitazione del profeta del quale portava il nome, niente stimando le ricchezze che possedeva. Si partì dalla casa di suo padre e avendo trovato un giovane, suo congiunto di sangue, passato quel piccolo spazio di mare, arrivarono in Sicilia.

Il padre del beato, per la perdita del figlio cominciò a strapparsi la barba, e bagnare di lacrime le guance dicendo: “Dolcissimo figlio, volato dai nostri occhi come un pulcino dal nido! Se sapessi cosa ti è accaduto!” Gli appare in sogno una rivelazione divina: “Perché piangi, Pietro, e sei mesto?” Egli: “Come non piangere, essendo uscito nascostamente da casa mio figlio per andar in terra straniera! Solo! Senza portarsi niente! Ed è monco: come si procura il necessario?” Ma quello gli dice: “Io andrò con lui liberandolo da ogni tribolazione e cibandolo in tempo di fame, perché l’ho scelto per servirmi in santità e giustizia”. Avendo udito, il padre si alza dal sonno e racconta l’apparizione alla moglie, e insieme diedero gloria a Dio. Era realmente il santo privo d’una mano: da bambino era cascato da un luogo alto; gli si ruppero le dita; essendo sopraggiunto un medico privo di scienza e d’esperienza, e avendogli legato con stecche la mano, e con filo sottile stretta per giorni otto, gli cascarono le dita, perciò era soprannominato ‘il monco’.

 

Eremita a Taormina (Messina)

Avendo ricercato un luogo quieto e inaccessibile, collocano se stessi nel bel tempio di Sant’Aussenzio, che sta sotto la strada dell’alto colle di San Nikon; privi di ogni corporale refrigerio, nutriti solamente della divina parola. Avendo dunque dimorato del tempo, il compagno del santo andò via, per essersi annoiato della via che conduce alla vita. Tornò indietro, come cane al proprio vomito; fu ucciso dagli Ismaeliti; morì di doppia morte. Il nostro benedetto padre Elia, rattristato molto per la perdita di quello che aveva abbandonato l’ascetica palestra, piangeva: “Guai a chi è solo, perché se cade nel sonno non c’è chi lo svegli!”. Essendo dunque sceso al mare, trovata una nave che andava in Italia, con prospero vento giunse a Roma Antica. Si stabilì in una casupola; macerava il suo corpo con fame, sete, freddo: si era fatto simile all’ombra della morte. La fame prevaleva assai grandemente da quelle parti, di modo che i poveri cadevano nei vicoli e nei portoni, e morivano[2].

 

A Roma Antica col monaco Ignazio

Dimorando nella casupola, entrò da lui un monaco, ed avendogli guardato la faccia pallida e disseccata, gli dice: “Di dove sei, fratello? Mi pare che da poco sei venuto dall’estero”. Egli lo riverì e disse: “Sono di Reggio Calabria”. Quel gran padre gli dice: “E chi ti porta un poco di pane?” Allora il beato Elia, mostrandogli alcuni pezzi di pane, disse: “Dio ha detto per bocca dell’Apostolo: – Non ti lascerò né ti abbandonerò. È lui che dà il pane ai cani”. Ammirato dunque quello gli dice: “Seguimi, figlio, di niente curandoti, perché Dio si cura di noi”. Ed ecco il giovane seguire il ghèron, e ubbidirgli in tutto. Un giorno, essendo stato mandato fuori città, incontrò certi pastori i quali, vedendo il forestiero, stabilirono d’ucciderlo; ma il beato stese le mani al cielo: “Tu hai rato Daniele dalla bocca dei leoni; salvami!” E Dio che esaudisce le preghiere dei suoi servi, indurì come sassi le mani di quegli uomini, e si vedeva l’agnello tra le fiere senza essere leso o danneggiato. Stando quegli assassini immobili, il venerando santo andò via glorificando Dio che l’aveva liberato.

Avendo lungo tempo dimorato con quel maestro, fu addestrato nella monastica palestra, per distruggere i pensieri che si sollevano contro la scienza di Dio. Come un combattente ben munito con le armi della virtù, è mandato dal maestro alla sua patria.

 

Torna a Reggio Calabria

Correva lì la fama di un santo il cui nome era Arsenio. Dalla sua angelica vita colpito, il giovane va a lui, il quale tagliatigli i capelli, lo vestì dell’abito monastico. Stava dunque a lui soggetto e ubbidiente, tagliando legna e portando acqua, legandosi con uno spago l’accetta al braccio sinistro e con la destra zappava, digiuno fino al sabato: diceva che bisogna domare la gioventù con fatica e fame, affinché i vizi e gli stimoli non si alzino come cani e buttino a terra la mente. In tal modo vivendo i padri vicino alla città di Reggio [rione Condera?], in un Metochio del Monastero di Santa Lucia [?], detto Mindino [mulino?], e servendo Dio in isichìa, un sacerdote della metropoli s’impossessò di quello che era la proprietà principale di Santa Lucia. Con molti doni avendo accecato lo Stratega che aveva il governo della regione, Niceta Votherita [?[3]], lo fece inclinare all’ingiustizia. Ma Arsenio ed Elia, avendo conosciuto il fatto, subito vanno dal giudice, raccontandogli il furto, dicendo non esser giusto dare ai cani le cose consacrate a Dio e alla martire [Lucia]: “Giudica con giusto giudizio; rendi il maltolto!” Allora l’ingiusto giudice, ribollendo d’ira, comanda di picchiare il beato. Il divino Arsenio, guardando il cielo, mandò fuori questo lamento: “Santa martire di Cristo, noi siamo ingiustamente battuti! Signore, giudica con giustizia!” Quella stessa notte, l’iniquo giudice poco mancò che gli crepasse il ventre. Subito va ai nostri venerabili padri, portando loro molta cera e un otre d’olio, dicendo di volere restituire le proprietà ingiustamente tolte. Gli rispondono: “Così dice il Signore: Provvedi alla tua casa perché morirai e non vivrai” Tornato infatti al Pretorio [?], dopo tre giorni il poveretto si trovò nel numero dei morti, pagando con l’immatura morte la giusta pena della sua iniquità.

Dunque attristatisi molto, i santi partirono da lì, ed abitarono nel tempio del santo martire Eustrazio, vicino ad Armo [frazione di RC]. I due aumentarono i digiuni, le preghiere, le Veglie e la lettura dei salmi. Il grande Arsenio digiunava per tutta la settimana, perché era anziano; ma il divino Elia – giovane d’età – restava digiuno per dieci giorni, sicché i suoi occhi si erano molto incavati. Durante la Santa Quaresima, faceva ogni giorno due o tremila metanie. Il grande Arsenio, che era sacerdote e celebrava i Divini Misteri, quando s’accostava il popolo all’altare per la comunione, la faccia d’alcuni vedeva luminosa, d’altri vedeva nera come una pignatta. Perciò esortava tutti: “Se qualcuno è ottenebrato per il ricordo del male ricevuto; se qualcuno è tenuto da rapina o avarizia, se qualcuno è infangato nella carnalità o in ogni altra impurità, non osi accostarsi a questo fuoco divino”. Parlando ancora, diceva che chi con fatiche e stenti si guadagna il pane, e supplisce alle mancanze dei bisognosi, e con pura coscienza partecipa ai Divini Misteri, è purificato dai peccati, e risplende la faccia della sua anima; chi si abbellisce con vesti bianche e rosse ma è pieno d’odio, rapine e peccati carnali, ha la faccia dell’anima nera e indegnamente prende il divino pane.

Ci fu un commerciante di Armo che comprava e vendeva schiavi; era costui ammonito che smettesse quel commercio, ma niente stimava le parole dei santi. In breve tempo morì. Allora sua moglie, portata una moneta, pregava il divino Arsenio: “Prendi, santo padre, e celebra le consuete Liturgie per mio marito”. Egli dapprima non acconsentì; avendo poi iniziato la Liturgia, al momento di fare menzione del nome del morto, l’Angelo del Signore, mettendogli la mano sulla bocca, gli impediva di fare il nome di quell’infelice. Dopo due o tre volte, capì il santo che quello era stato condannato. Avendo reso la moneta alla donna, disse: “Dalla a un altro che celebri per tuo marito le Liturgie, perché io non ho tempo”. Nello stesso paese era morto in quei giorni un mendicante; il gran padre celebrò gratuitamente per il povero; avendo compiuto le sante e divine Liturgie, come si usa per i defunti, gli appare il morto e gli dice: “Eterna la tua memoria, santo padre: per le tue preghiere sono stato liberato dalle pene”[4]. Il divino Arsenio usava dire che i peccati leggeri sono cancellati facilmente dal sacerdote o da un intercessore presso Iddio, ma che adultèri, furti, omicidi, e simili, difficilmente conseguono perdono.

 

A Patrasso

Ma poiché per divina visione fu manifestato ai padri dover venire per mare gli Ismaeliti, navigarono da Reggio sino a Patrasso, dove supplicarono il vescovo e il clero, chiedendo un luogo solitario nel quale dedicarsi alla preghiera. Avendo visto i padri, dissero: “Si trova una torre dirimpetto alla città, luogo quieto e. comodo per abitazione di monaci. Ma avendo voluto non pochi dimorarvi, nessuno poté opporsi e resistere allo spirito che vi risiede e che, facendo fantasmi e strepiti, fa che tutti si spaventino e fuggano”. Dice il divino Arsenio: “Mi sono fatto monaco, fratelli miei, essendo quindicenne, e mai ho visto alcun demonio, tranne i cattivi pensieri”. I santi dunque, vanno ed entrano nella torre. Ed ecco sopraggiunge il tentatore, il quale cominciò prima a fare strepiti, e altre cose spaventevoli; quali in nessun conto avendone tenuto i padri, perseverarono tutta la notte nella Vigilia. Anche nella seguente notte viene il crudele spirito; e la terza notte fuori della porta della torre; ma d’allora in poi scomparve e fu sicura quell’abitazione, dove dimorarono i nostri padri per otto anni, divenendo sempre più illustri per il loro ascendere alle divine contemplazioni. Gli abitanti di Patrasso continuamente andavano a quelli, per interrogarli, ed esser da loro aiutati.

Una volta uno dei nobili della città, accostatosi al divino Arsenio, gli disse: “Se mi stimi essere fedele al Signore, vieni in casa mia”. Subito il ghèron disse ad Elia: “Seguimi, figlio”. Egli che in tutte le cose era ubbidiente, seguì prontamente il ghèron. Sedutisi già a tavola con chi li aveva invitati, e sua moglie, mangiavano con rendimento di grazie. Ma l’immonda e scostumata moglie, guardando la faccia del nostro padre Elia splendida e luminosa, fu ferita nel cuore. Sedendogli vicino, la disonesta e sfacciata toccava il santo. Ritornati nel monastero i padri, fu mandato a quella meschina un angelo crudele, il quale sbattendola a terra, la faceva tutta tremare e sbattere i denti. Compreso che per aver voluto turbare un uomo santo, giustamente era incorsa in quel travaglio, chiamava: “Santo padre, il mio spirito viene meno!”. Allora i servi mossero a compassione il beato Arsenio, ed egli, chiamato il casto Elia e molto avendolo esortato, gli dice: “Va’, figlio, alla casa di quello che oggi c’invitò, perché sua moglie chiama il tuo nome”. Uscì fuor di sé il santo; ma per ubbidienza andò ed entrato nella casa, la donna dice: “Perdona, imitatore di Cristo!” Il santo le dice: “Se da ora innanzi vivrai castamente, Dio laverà il tuo peccato, e sarai da questo flagello liberata”. E subito alzatasi, visse castamente. Ma egli tornato al divino Arsenio niente disse, e ancor più perseverava col vegliare notti intere; tutta la notte scriveva e pregava; finito il Mattutino si stendeva per terra e diceva al sonno: “Vieni, servo cattivo”.

Ora il divino Arsenio era d’età avanzata. Il vescovo del luogo gli dice: “Venerando padre, con desiderio grande ho desiderato fare un bagno con te”. Ed entrati nel bagno, e spogliatisi dei vestiti, dice il vescovo al santo: “Cala tu, padre, per primo e benedici l’acqua”. Il santo, fatto il segno della croce, si tuffò nell’acqua. Ed ecco diventa profumato tutto quel luogo di profumo divino, che superava ogni fragranza dell’arte profumiera. Il vescovo e il clero gridavano: “Kirie eleison!”. Nessuno si lavò più in quel bagno ma, come si ha per tradizione, restò chiuso per molti anni, di modo che quelli che s’accostavano alla porta, odoravano quel profumo. Si sparse la fama del miracolo per tutte le province che erano intorno.

Decisero allora di tornare nella loro patria, e il vescovo cominciò a distogliere i beati padri da un tal proposito. Convocò il clero e dice: “I santi padri vanno via!” Quelli risposero: “Non possiamo trovare altri santi! Siano proibiti di partire”. Essendo dunque giunta la festa della Santa Teofania – fece molta neve, quell’anno – e celebrata la Divina Liturgia, si radunò col vescovo quasi tutto il popolo, e uscirono dalla città per fare impeto ai santi padri, portando lo skevofilax della cattedrale con le mani legate dietro la schiena, fingendo di batterlo. Entrati dunque che furono nel kellìon, il vescovo cominciò a sgridare i padri: “E voi siete monaci? E voi temete Dio? avendo fatto contro di noi un tale sacrilegio? Come è vera la parola divina che dice: Molti entreranno a noi travestiti da pecore, e di dentro sono lupi rapaci!” Il divino Arsenio rispose: “Perdonami, signore, ma che tentazione è questa?” Allora il vescovo fece venire il finto accusatore del santo e gli dice: “Confessa che avete rubato i sacri vasi della chiesa!” E quello: “Ingannato da Elia monaco, li abbiamo rubati, venduti, e ci siamo divisi il ricavato”. Rispose il divino Arsenio piangendo: “Credimi, signore, ho preso con me Elia da ragazzo e non ha mai toccato un soldo”. Dice il vescovo: “Tu, santo padre, sei semplice e non ti accorgi degli astuti”. Ma il beato Elia, conoscendo che quella tentazione era per sua prova, stava in silenzio; allora il vescovo comanda che lo mettessero in prigione. Cominciò il divino Arsenio a piangere un fiume di lacrime, e il vescovo cominciò a consolarlo e placarlo; e subito mandò a cavare il santo dalla prigione. Il vescovo, avendo chiesto perdono con tutto l’animo, lasciò che se ne andassero in pace. Così, avendo felicemente navigato, vennero dalle parti di Reggio e di nuovo abitarono nel tempio di Sant’Eustrazio.

 

Di nuovo a Reggio Calabria

In quei giorni si trovava dalle parti di Reggio Elia [di Enna] col suo discepolo Daniele, in una grotta vicino al tempio di San Donato [?]: faceva molti prodigi e prediceva che Reggio sarebbe stata invasa. Il divino Arsenio gli mandò a dire: “Dio ha in odio le mie opere, santo padre, e perciò niente prevedo delle cose future”. Allora Elia [di Enna], gli disse: “Padre Arsenio, vuoi fare l’indovino? Che cosa cerchi più grande della grazia che è in te? Che vedi durante la Divina Liturgia?” Il divino Elia aveva testimoniato che Arsenio celebrava stando in mezzo a un fuoco spirituale, e vedeva la Grazia del Santo Spirito come fuoco che copriva l’altare, perciò non smetteva di piangere dall’Ingresso della Divina Liturgia sino alla fine. Quando il divino Elia [di Enna] stava per essere convocato dall’imperatore [Leone VI, 902 circa] disse a tutti: “Figli miei, non vi lascerò orfani; come siete stati ubbidienti a me, così sottomettetevi ad Elia [Speleota]”. E al suo discepolo Daniele disse: “Dopo la mia morte, portate il discepolo di Arsenio, perché guidi il mio gregge”[5]. Dunque il divino Arsenio, essendosi ammalato, avvisa Elia, il quale era stato mandato al Kastro di Pietracappa [presso RC]. Velocemente arriva e si getta in ginocchio accanto al letto dove il ghèron giaceva, e gli baciava piangendo i piedi, dicendo: “Santo padre, come ci divideremo?” Disse il ghèron al beato Elia: “Il tuo nome sta scritto nel libro della vita; ma io, che all’età d’anni quindici ho preso sulle spalle il giogo di Cristo, non so se sono stato a lui gradito una sola ora in tutta la mia vita”. Dopo aver pregato e abbracciato tutti, rese la sua luminosa anima nelle mani di Dio. Morì il divino Arsenio vecchio e pieno di giorni: era deposto il suo corpo nel tempio di Sant’Eustrazio. Ma dopo molti anni – raccontava Elia – essendo venuti gli Agareni, e avendo visto il sepolcro, stimarono esservi nascosto un tesoro; avendo scavato e trovato sano e intero il corpo del santo, vestito dell’abito sacerdotale, cominciarono a farsi beffe: “Questi sono quelli che ingannano gli infedeli, dicendo che Dio ha un figlio; venite, bruciamolo”. Avendo perciò portato frasche e canne, uniti soffiarono senza effetto, finché se n’andarono confusi. Dopo essersi partiti gli Agareni, Elia uscì dal Kastro, e depose dentro la chiesa il corpo[6].

 

Nella Regione delle Saline [“piana” di Gioia Tauro, RC]

Dopo questo, mentre attendeva alla preghiera in isichìa, lo mandò a chiamare Daniele. Viaggiando a piedi come era suo costume, verso sera arriva al Monastero delle Saline[7], afflitto dalla sete e dal caldo: era estate. Ma il divino Daniele gli chiude la porta del monastero; tramontato il sole, gli manda un poco di pane e un boccale d’acqua. Dopo che il divino Daniele l’ebbe messo alla prova, aprì e gli disse: “Ora so che sei un vero monaco, e imitatore del grande Arsenio!” E solo dopo aver discorso tra loro, il divino Daniele esortò Elia perché si riposasse un poco. Elia restò in preghiera, ripetendo i salmi. Ed ecco che il prossonario batte il simandro per il Mattutino. Durante l’Ufficiatura, essendo iniziata la Lettura, si stancò Daniele, ed essendo preso dal sonno, fece per uscire dalla chiesa. Allora Elia, afferrandolo per il mantello, sorridendo gli dice: “Fratello, resta con me a combattere sino al mattino, poiché dei violenti è il regno dei cieli”.

Dopo questo, avendo vissuto insieme un poco, gli viene desiderio al nostro padre Elia di abitare solitario, in isichìa. Subito il divino Cosma, assieme col suo discepolo Vitale, lo porta nella spelonca dove abitava (quella dove ora c’è la cantina). Esultò Elia per la comodità del luogo, che a quel tempo era deserto e inaccessibile. Ma il divino Cosma vide in sogno tutti i dintorni pieni di monaci, e dice al suo discepolo: “Alzati, fratello, andiamoci da qua, perché piace a Dio che qui si faccia un cenobio”, perciò parti e andò lontano.

Stava Elia nella spelonca, e avendo visto il luogo atto a ricevere più fratelli, stabilì d’accettare tutti coloro che s’accostavano alla vita monastica, attirandoli come la calamita il ferro. Egli era dolce nel parlare, paziente nelle tentazioni, allegro nelle tribolazioni. Insegnava a rinunciare al tempo presente, confessare gli errori fatti consapevolmente o inconsapevolmente, non avere propria volontà ma osservare ubbidienza all’igumeno, frenare la lingua e lo stomaco, faticare con le proprie mani e cibarsi delle proprie fatiche, distribuire ai poveri.

L’interno della grotta di Sant’Elia

Moltiplicandosi dunque i fratelli ed essendo stretti in quel buco, piacque a Dio che si manifestasse la divina e famosa grotta in questo modo: un gran numero di pipistrelli usciva per una fenditura, e di nuovo vi entrava; capirono perciò i padri che il monte era cavo. Avendo dunque accesi lumi, entrarono per la fenditura e vedono una spaziosa spelonca. Elia esultò nello spirito ma si attristava molto, perché non era possibile che per la fenditura entrasse raggio di sole ad illuminarla. Dio gli manda allora un uomo chiamato Cosma, in tutto pratico ed esperto, il quale avendo accuratamente osservato il colle, pagò molti operai perché scavassero e così aprì l’ingresso della spelonca facendo risplendere all’interno la luce. Lo stesso Cosma, lì rinunciò al mondo e, dopo aver fatto molte opere al Monastero, come la salina e il mulino, si riposò in pace. Il nostro benedetto padre Elia, dentro la spelonca avendo fabbricato un altare, vi fece un sacro tempio ai santi corifei degli Apostoli. Infuriatosi perciò il diavolo, si mette contro di lui; e gli appare con strepiti e fantasmi e fortissimi sibili. Uno dei discepoli del santo sentì dire al diavolo che non poteva sopportare che lì dimorasse lì il “monco” Elia.

Mentre Elia un giorno era in quella spelonca e, secondo la sua abitudine, scriveva, certi di Seminara [RC] venivano a lui, quando si fa loro incontro un tale che somigliava ad un etiope da loro conosciuto. Gli dicono: “Da dove vieni, Fotis, e dove vai?” Quello disse: “È venuto Elia il monco, e ci ha mandati via dalla nostra casa; ora andiamo a Mesobiano [Mesiano?]”. E avendo così detto, si sollevò in aria e se n’andava zoppicando e maledicendo il santo (c’è veramente una grande e tremenda spelonca, detta “Santa Cristina” [presso Oppido, RC]). Queste cose il santo avendo udito, rese grazie a Dio, esercitandosi in maggiori fatiche, salmeggiando a Vespro e Mattutino. Teneva i piedi immobili come se fossero radicati in terra, senza appoggiarsi al bastone o al cancello, senza nemmeno grattarsi per pidocchi o pulci o zanzare. Nella Divina Liturgia andava in estasi e comunicava alla celeste perla con ogni timore, come Isaia per mano del serafino.

 

Miracoli

Dio lo perfezionava intellettualmente e lo glorificava con divini segni. Una volta, vicino alla pietra su cui il santo scriveva, c’era una botte di vino per la celebrazione della Liturgia. Scese tanta pioggia che la botte si riempì. Il divino Luca il Calvo dice al santo: “Come celebreremo la Liturgia? La botte si è riempita d’acqua”. Il santo sorride, fece il segno della croce e dice: “Gustate e vedete che Cristo è Signore”. Subito l’acqua s’era fatta vino buono.

Un’orsa, uscendo dal monte di fronte al monastero, rubava i favi delle api; i monaci spaventati gridarono al gran padre, ma il taumaturgo cominciò con austera voce a rimproverarla così: “Non ti vergogni? Non temi Dio, tu che rubi ai padri? Va’e non venire più”. E la belva andò via. Elia diceva: “Figli miei, se noi osservassimo i precetti di Dio, tutte le cose sarebbero a noi soggette, come a Adamo prima di trasgredire al divino precetto. Ora le creature si sono ribellate contro di noi: non sono loro a temerci ma noi ad avere paura di loro”.

Il suddetto Luca mi raccontò: “Una volta il venerabile padre mi mandò a Sant’Agata [Oppido, RC] insieme al monaco Vitale. Mentre tornavo al monastero, un’orsa mi ferì, lasciandomi mezzo morto. Vitale mi caricò agonizzante sul suo giumento, e mi portò al monastero. Il padre avendomi segnato col segno della croce, e fatto preghiere, in pochi giorni fui sano”.

Una volta Saba, un discepolo del Santo, disubbidientemente uscito dal monastero andò a Mileto [?]. Impossessatosi di lui il cattivo spirito, lo portano legato al santo. Il compassionevole medico in pochi giorni lo guarì.

Gregorio di Bruzzano [di RC], avendogli dispiaciuto il regime del monastero, se ne voleva andare in altro luogo. Allora gli accade nella lingua un dolore insopportabile. Dopo molti giorni vede in sogno un angelo che gli dà uno schiaffo, dicendo: “Sottomettiti al padre, e unisciti ai fratelli”. Subito fu sanato.

Un’altra volta, stando accanto al monastero un albero, comandò Elia al suddetto Luca di tagliarlo per allargare l’ingresso. Durante il taglio, un ramo afferra la veste del monaco e quello cade giù, vicino alla sorgente. I monaci gridavano ma il nostro padre pregava Dio con le mani tese al cielo. E mentre i monaci calavano giù per prendere il cadavere, andò incontro loro Luca, dicendo allegro: “Non vi spaventate, fratelli; niente di male ho patito”.

Quando il patrizio Vitalone si ribellò all’imperatore [922?], i discepoli dicono a Elia: “Vedi, padre, che costruzioni e che fortezze; come potrà l’imperatore sottometterlo?” Ma egli dice loro: “Non passerà questo anno e saranno abbattuti questi edifici, sì che diventino luogo puzzolente della città e lo sciagurato morirà di pessima morte”. Non si era ancora compiuto l’anno, e proprio i suoi domestici scannarono Vitalone. Il santo conobbe il giorno e l’ora dell’omicidio, benché il luogo fosse lontano dal monastero 42 km circa, e disse: “In questo momento, figli miei, è stato ucciso il ribelle Vitalone”.

 

L’acqua prodigiosa

L’igumeno Lorenzo mi raccontò: “Una volta Elia mi chiamò e, chiuso il libro che leggeva, mi dice: – Lorenzo, se tu vedessi entrare qui uomini e donne, resteresti nel monastero? E io risposi: – Non sia mai. E lui mi dice: – Vedrai entrare tanta gente come per la festa di sant’Elia [d’Enna]. Meravigliato, gli dico: – Per quale motivo? Ed egli mi dice: – L’acqua che gocciola da quella pietra della spelonca, ha il potere di guarire; ma non voglio che ora faccia miracoli; pregate anche voi con me, perché non faccia miracoli per ora. Tu sarai il mio successore nel governo dei fratelli”[8].

 

Ancora miracoli

Un giovane era oppresso dal cattivo spirito: Elia, levate le mani al cielo, lo mandò via guarito.

Vicino Mesobiano c’è un luogo detto Asphaladeo [?]; vi abitava Epifanio, un sacerdote che scriveva incantesimi. Il giusto giudizio di Dio lo consegna a uno spirito. Egli, temendo d’essere deposto dal grado sacerdotale, va di nascosto e racconta al beato. Elia tocca il suo capo e gli dice: “Promettimi che non sarai curioso di queste cattive opere”. E vide un corvo uscirgli dalla bocca e scomparire, e così avendo mantenuto il patto di non fare più incantesimi, fu liberato dal cattivo spirito.

Una volta gli fu portato un fanciullo dal proprio padre, chiamato Giovanni. Aveva la bocca e gli occhi deformi, di continuo saltava e tremava. Elia prese nelle sue braccia il fanciullo, e lo segnò col segno della croce, dicendo: “Ecco, non ha alcun male”. Il volto era tornato allo stato naturale ed era cessato il tremore del corpo.

Una volta Luca mi raccontò che l’illustre Gaudioso era attanagliato dal cattivo spirito. Disse al padre: “Sono molestato dal tentatore; e invano mi sono affaticato non avendo ricevuto giovamento. Voglio dunque andare in Palermo dai medici”. Il santo gli disse: “Sopporta, figlio, il castigo mandato da Dio”. Ma quello s’imbarcò in una nave che andava a Palermo. Navigando, verso Milazzo si addormentò. Di poi svegliatosi, cominciò a gridare: “Fatemi scendere a terra, fatemi scendere!” I marinai gli dicono: “Perché vuoi scendere?” Ed egli dice: “È venuto il gran medico Elia, mi ha aperto la bocca e mi ha cavato dal ventre come un maiale, ed ecco sono guarito”.

Una volta, venne al monastero Pietro, un amico dei monaci. Senza sapere lasciò il cavallo nel cimitero dei monaci. Quella stessa notte gli apparve un giovane, tutto luminoso, che minacciava: “Hai fatto la nostra casa pascolo del tuo cavallo!” Alzatosi, vide il cavallo a terra mezzo morto, e così gonfio che stava per scoppiare. Udite queste cose, il santo mi disse: “Va’e portami un boccale dell’acqua che gocciola dalla pietra. Apri la bocca del cavallo ed infondi l’acqua”. Fatto questo, il cavallo s’alzò da terra.

Il monaco Giovanni di Gerusalemme, a quel tempo archontaris, mi raccontò: “Ero stato mandato a Reggio per necessità del monastero, e molto distratto qui e lì tutto il giorno, pensavo: È cosi che mi salverò? Essendomi addormentato, vedo il santo con la testa tagliata, il sangue scorreva per tre parti, e la testa mi parlò: – Non vedi che per voi ho buttato sangue? Obbedite ai vostri igumeni e siate loro soggetti, perché essi vegliano per le anime vostre”.

Un altro, tormentato dal demonio carnale, manifestò la tentazione al padre, il quale gli dice: “Domina il ventre, perché così si smorzano i dardi del nemico. In trenta anni di combattimento delle tentazioni, non ricordo d’essermi riempito lo stomaco di cibo”. La causa della soprannaturale castità del santo era perché affliggeva il corpo con freddo e nudità, coperto solo d’uno straccio d’inverno e d’estate, e di un mantello di pelle. Una volta gli abbiamo chiesto: “Padre, non si agghiaccia il tuo corpo per il freddo dell’inverno né si brucia con l’ardore del sole?” Rispose: “Figli miei, da tre anni il mio corpo non sente più né freddo né caldo”.

Egli aveva adottato nel battesimo un figlio, chiamato Elia, che si ammalò di cancro. Disse il santo, che non sarebbe guarito prima di farsi monaco. Guarì anche il fratello di questo, Giovanni, sacerdote.

Quando scoppiò l’incendio di Caveri [?], che divorò monti e boschi, un sacerdote del posto, a nome Lucio, salito sul tetto chiamò con grida il santo. Allora il fuoco, divisosi in due parti, consumò quanto si trovava attorno alla casa, senza toccare quello con le sue cose.

Il monaco Giovanni, figlio di Panteleimon, mi raccontò: “Per un morbo avevo tutte le membra inaridite; avendomi preso mio padre, mi portò a spalle e pregava dicendo: – Santo padre, imponi le mani sopra mio figlio. Il santo dice a mio padre: – Prendi tuo figlio e portalo al sacerdote perché preghi per lui. Subito mi sentii alleggerito dai dolori “. Anche sua madre, per un anno oppressa da febbre terzana, il santo la segnò con la croce, e nessuna infermità si accostò a lei per l’avvenire.

Elia diceva che vero miracolo è sopportare ingiurie e disprezzi, tenersi lontano dai piaceri carnali che fanno guerra all’anima, macerare il corpo con fame, sete, freddo e nudità, perché diventi malleabile e si sottometta allo spirito. Diceva di troncare la propria volontà, perché chi mette insieme rinuncia di sé e volontà, costui è un adultero.

Il parlare del padre era potente ed efficace. Quando comandava ai discepoli di tagliare alberi grandi, o rotolare macigni dalla cima del monte che sta sopra il monastero, egli entrando nella sua cella, supplicava Iddio. Si vedevano allora alberi e macigni scivolare come se fossero intelligenti, di modo che non sfioravano né celle, né alberi da frutta. Usciva il santo sorridendo al solito suo, e diceva: “Perché vi meravigliate? Se avrete fede come un granello di senape, direte a questo monte: passa da qui, ed egli passerà, e niente sarà a voi impossibile”.

Quando venivano gli Agareni, Elia si nascondeva nei monti intorno al monastero, vestito di una tunica di pelle; quando poi quelli partivano, usciva solo dopo essere stato cercato a lungo. In segreto disse che per quaranta giorni aveva preso solo un poco di pane e niente acqua. Anche nelle altre incursioni, si ritirava nel Kastro con i monaci, insegnando a pentirsi dei propri peccati. Una volta gli Arabi assaltarono il Monastero; all’improvviso s’aprì davanti a loro una voragine oscura e senza fondo: impauriti, tornarono indietro.

Entrando io una volta con un altro monaco, mentre il santo era in preghiera il suo aspetto era divenuto diverso, trasfigurato e divinamente luminoso[9]. Poi ci spiegò con molta circospezione: “Figli miei, desideravo sapere come l’anima, uscendo dal corpo, superi la carne, le potestà e i principati, i nemici dell’aria. Mentre così meditavo, in estasi vedo me stesso salire, e mi trovai al di sopra d’ogni principio e potere cattivo, senza impedimento e senza danno, e mi ritrovai dove prima ero seduto. Questa tremenda visione mi trova continuamente, quando pratico l’isichia”.

Il venerando padre, incurvato per la vecchiaia, mangiava una volta sola al giorno, assai poco. Intorno al mangiare carne e all’ingresso di donne nel monastero, era inflessibile. Una volta venne una monaca da lontano ed entrò nella grotta. Il santo, alza gli occhi e dice: “Chi sei? e che vuoi tu qui, femmina per mezzo della quale entrò nel mondo la morte?” Quella se ne andò umiliata e confusa.

Un suo discepolo mangiò carne di nascosto. S’alza il santo e trova alcuni pezzi di carne avanzati; il santo chiama i cani e getta loro la carne, e quelli non la toccarono. Cominciò a rimproverare: “Vedi come non la toccano i cani? E tu, fratello!… Quelli che mangiano carne sono simili alle bestie feroci; quelli che vivono d’erbe e legumi somigliano agli uccelli del cielo”.

Il padre da molti anni teneva sotto il letto, nella grotta in cui abitava, la bara, e non smetteva di bagnarla con calde lacrime, sperando nella risurrezione. Il padre aveva il dono delle lacrime, e non smetteva mai di piangere. Nelle feste vegliava per tutta la notte, e la sua faccia era illuminata dalla Grazia divina; per tutto il giorno mandava raggi.

Una notte un macigno si staccò dalla cima, rotolò poco a poco e si posò davanti alla porta del padre: chiaramente era segno che egli stava per separarsi da noi. Egli raccontò d’aver visto due persone, vestite di bianco, che lo accompagnarono dall’imperatore, lui che mai aveva visto un re. Arrivati davanti a una colonna, la cui altezza arrivava al cielo, facilmente e senza alcuna fatica vi salirono. Egli allora vede i gradini, sale, e si presenta al re. La colonna alta sin al cielo è la scala di Giacobbe; i gradini sono le virtù.

 

La morte d’Elia (960?)

Era già vecchio, e diceva: “Figli miei, è vicino il tempo della mia partenza. Voi restate sulla buona strada della vita monastica, perché non è la partenza ciò che incorona vittoriosi, ma il traguardo. Non profanate la santità del corpo con crapule e ubriachezza: stretta e angusta è la strada che conduce alla vita; l’anima che vive mollemente, è come morta. La vostra professione monastica, fatta alla presenza di Dio e degli angeli, portatela a compimento per mezzo di una sincera ubbidienza. Siate diligenti e ferventi di spirito nelle preghiere e salmodie notturne e nei servizi del cenobio, senza pigrizia o mormorazione. Chi serve per Cristo è più grande di chi siede a tavola. Somma e corona di tutto è l’umiltà: chi si umilia sarà esaltato. Sopra tutto ci sia la carità, miracolo della perfezione, perché la carità non opera male al prossimo. Chi conserva il ricordo del male ricevuto, vive nelle tenebre perché il ricordo delle offese conduce alla morte. Chi impera e domina sulla terra, e vive nella lussuria, al momento della morte inutilmente piangerà. Chi con digiuni e veglie avrà fatto morire le passioni, alla sua uscita l’anima risplenderà più delle stelle”.

Una volta il monaco Giovanni vide in sogno molti uomini vestiti di bianco, che cavalcavano cavalli bianchi, e in mezzo di loro una donna vestita di porpora, bellissima. Con cembali, chitarre e altri strumenti suonavano e battevano le mani, come a un matrimonio; aprirono la porta ed entrarono. Lui cercava d’impedire loro d’entrare, ma essi lo spinsero indietro: “Non opporti, o monaco: ecco le nozze del Re!” Svegliatosi il monaco, dice al santo: “Padre, queste cose ho visto in sogno”. Gli risponde il padre: “Tra pochi giorni quelli verranno a prendere la mia anima”.

Nell’annua ricorrenza di sant’Elia [d’Enna, 17 agosto], anche il nostro Elia salì [da Melicuccà], per abbracciare le sue preziose reliquie e, nello stesso tempo, licenziarsi spiritualmente dal suo sincero amico, a lui uguale di nome e di vita. Sentendo un poco di mal di stomaco, tornò al proprio monastero, sopportando con pazienza la malattia, senza alcun lamento. Anche se molto debole per l’emorragia, si nutriva solo con un poco d’orzo. Dopo venticinque giorni, pienamente lucido di mente, gioioso, con rendimenti di grazie sulle labbra, consegnò l’anima nelle mani di Dio.

Subito il suo volto diventò splendente, e per tutta la notte mandava raggi. Era alto, gli occhi ridenti, i denti bianchi, la barba grande e divisa in due, la faccia rossa e allegra, con tutti sempre ridente con divina grazia. Fu la sua morte l’11 settembre, essendo presente il vescovo Vitale [di Sant’Agata (Oppido) o di Tauriana?] con molti sacerdoti e laici. Dopo aver vegliato tutta la notte, deposero il suo venerabile corpo nel sepolcro nuovo, che egli stesso aveva scavato nella spelonca. Il tempo in cui visse corporalmente è questo: era ragazzo quando quel gran monaco, di cui si è detto, gli annunciò che avrebbe abbandonato il mondo; alla tonsura aveva 19 anni; si esercitò nella monastica palestra per 77 anni; sulla terra visse 96 anni.

Dopo non molto tempo, Elia apparve a un discepolo, risplendente di gloria divina. Quello chiese: “Dove sei, padre?” Rispose e disse: “Figlio, il re mi ha fatto entrare nel coro degli asceti”.

Il monaco Antonio raccontò: “Quando il santo morì, l’ho visto seduto sulla porta; teneva in mano una croce d’argento e tutti andavano a baciarla; guardai di nuovo indietro, ed ecco non era: ma sento una melodia soave e stupenda fuori la porta. Tento di uscire per seguire il canto, ma la porta era chiusa. Allora chiedo chi ha chiuso la porta, e mi rispondono: – La porta del monastero l’ha chiusa il padre. Mi sforzavo di uscire, e non potendo, mi svegliai”.

 

Le reliquie

Molti miracoli fece Dio per mezzo delle reliquie del nostro padre Elia[10]. Il sacerdote Pietro si prese il bastone d’Elia e lo portò al suo paese. Avendolo lavato con acqua, asperse con questa Niceta (il figlio d’Erotico), paralitico, e fu liberato dall’infermità che pativa. Avendo asperso con la detta acqua sua suocera, conseguì – come altri – la salute.

Il monaco Giacomo aveva una nipote pazza; non potendo farla entrare per baciare la tomba del santo, la fece venire travestita da uomo. Gli appare il santo che, sorridendo, dice: “Come un ladro hai rubato la guarigione! Apri la tua bocca”, ed ella sputò un serpentello. Subito svegliatasi, capì di essere guarita.

Teodoro di Melicuccà, al battesimo figlioccio del santo, aveva la moglie indemoniata: con timore e fede bacia la tomba e subito uscì da quella l’immondo spirito.

Giorgio, del paese dei Gaiani[11], aveva un figlio indemoniato. Avendolo preso lo portò e l’addormentò accanto alla tomba del miracoloso padre, e subito fu liberato dall’immondo spirito.

Un sacerdote della regione dei Mesi [Villa Mesa di RC], fu dato al demonio: si torceva tutto, e si mutava di faccia, e schiumava dalla bocca. Temendo d’essere deposto, si rifugia dal santo: lava con lacrime la tomba, la bacia, passa una notte intera in preghiera, e la mattina esce liberato dal demonio. Anche suo fratello fu liberato dal demonio.

Una bambina di Bruzzano, languida di mani e di piedi, fu portata dalla madre; il monaco Elia la depose accanto alla tomba di sant’Elia. Dopo poco la fanciulla sedeva a giocare.

Il monaco Giorgio – che un tempo abitava nelle grotte di Maratona [presso Castellace, RC?], aveva mal di denti; supplicò il monaco Luca che gli toccasse i denti con il coltellino del santo. Essendosi coricato, vede il padre, risplendente di luce, che l’incensava e gli levava il dolore dei denti. Così mi raccontò il monaco, rendendo grazie a Dio e al santo.

Cristoforo di Sicrò[12], era andato una volta per comprare grano, e per via fu percosso dal demonio meridiano: strabuzzava gli occhi, tremava tutto, restò quasi venti giorni senza mangiare né dormire. Fu portato con una barella e deposto presso la tomba del santo, e fu unto con olio della lampada. Essendosi assopito, vede il santo, risplendente di luce, che gli apre lo stomaco e ne tira fuori come un uovo d’oca, dicendo: “D’ora sarai sano e libero dal cattivo spirito”. Al mattino andò via guarito, lasciando la barella come prova della guarigione.

Un bellissimo ragazzo venne a morire. Suo padre, il sacerdote Pietro, si strappava le unghie, la barba, i capelli. Viene alla tomba del santo, la bagna con calde lacrime, la bacia, grida: “Santo padre, rendimi mio figlio sano e vivo!”. Dopo pianti e sospiri, si addormenta un poco, ed ecco, “mi parve – raccontò – che scendevo assieme a mio figlio e dietro di me un suono come d’uragano. Vedo il santo, risplendente di gloria. Gli dico: – Che suono tremendo è questo? E lui: – Non temere, Pietro, è una burrasca che passa; dille tre volte: – Dice il peccatore Elia, non ho paura di te. Così ho fatto, e quel tremendo suono che mi seguiva, subito andò via. Mi sono svegliato, e ho detto: “Lo strepito del lutto, per la pronta visita del santo, passò da noi. Infatti, il fanciullo che giaceva privo di spirito, aprì gli occhi, e chiese da bere”.

Due monache, una fu unta da me con l’olio, l’altra toccò di nascosto la tomba, e subito guarirono.

L’illustre Giovanni, figlio di Fagro [?], paralitico d’un braccio, unto con l’olio della lampada: guarì subito; perciò festeggia l’annua memoria del Santo raccontandolo a tutti.

Una ragazza di Bruzzano, figlia di Cordì, era cieca: la madre e lo zio, conducendola per mano la portano al monastero e la coricarono accanto al sepolcro. Le comparve il santo che gli pulì gli occhi con una spugna e subito ricuperò la vista.

Stefano, un giovane ch’era servo di Nicola di Plaka, nel territorio di Sivelliano [?[13]], impazzì. Stava nudo su una pietra accanto al lago; se vedeva avvicinarsi qualcuno, si buttava nell’acqua, nascondendosi come un ranocchio. Avendolo preso e legato con corde, lo caricarono sopra un giumento, e lo portarono a sua madre, Questa lo portò e di nascosto lo pose accanto al sepolcro del santo. Lo unsero con l’olio della lampada, “e io – raccontò – vedo una luce splendente più dello splendore del sole e un monaco, alto, con i capelli bianchi, una grande barba, risplendente di luce incomparabile. Mi toccò nel fianco con il piede e mi dice: – Non temere! Diventa servo di Cristo che ti ha guarito”. Non si parti più dal monastero; rinunciò al mondo, e preso il soave giogo, servì a Cristo Signore per quanto poteva.

Glauco, di Moro [Fiumara di Muro, RC?], idropico, dopo aver passato due giorni accanto al sepolcro del santo, lo vede in sogno, e gli disse: “Apri la bocca”, e gli estrasse un serpente attorcigliato. La mattina si alzò, non avendo in sé alcun male.

Il servo di Mailo [?] di Sicrò, era indemoniato e schiumava dalla bocca. Portato al monastero, mentre l’igumeno Lorenzo celebrava la Liturgia, nove volte lo spirito travagliò il ragazzo. I monaci portarono allora la spugna, con la quale – alla morte – avevano lavato il corpo del santo, e ne diedero a bere a quello, così che subito il cattivo spirito andò via.

Leontìa, figlia di Licasto, cugino del santo che abitava dalle parti di Plaka, essendo stata per un anno immobile come un sasso, una notte cominciò a litigare con il santo: “Tu liberi da ogni infermità gli estranei e i forestieri, e me, tua parente?” Il santo, per mezzo di sua madre le mandò un bicchiere di vino; si svegliò e non aveva più la paralisi. In compagnia d’Eleuteria, una nobildonna, andò allora al monastero, e non potendo entrare nella spelonca, si coricò fuori. Mentre dormiva gli apparve una donna vestita di bianco, per rimproverarla: “Questa nobile ma sordida donna ha imbrattato la santa casa”.

Il monaco Saba, spinto dalla fede, si prese gli zoccoli del santo e li portava sempre con sé. Una volta, mandato in montagna, a Pileo [?] per fare pece, accadde che a uno dei pastori che là si trovavano entrasse in corpo il cattivo spirito. Il monaco Saba, avendo visto, prese uno zoccolo e glielo pose sul petto. Cominciò allora il demonio: “Toglietemi da sopra lo zoccolo d’Elia, il monco, perché mi rompe le ossa!”. Quello poi essendosi assopito, la mattina si alzò sano.

Uno zoccolo il monaco Saba se lo portò nel Monastero dei Siracusani [?]; l’altra, quello destro, il monaco Ilarione l’ha portato a noialtri del Monastero di Malvito [?].

Il monaco Konon, mentre tornava al proprio monastero, fu percosso dal cattivo spirito che gli fece la faccia nera. Lo piangevano morto, ma per fortuna il monaco Vitale si ricordò dello zoccolo del santo: lavano lo zoccolo, lo aspergono e gli fanno bere quell’acqua: l’infermo subito ritornò in sé. Subito si addormentò, perché era sera, e gli appare il santo, splendente, che gli dice: “Konon, credi, e sarai salvo”. Preso un coltello, incise la mano dell’infermo, e avendo estratto un verme, gli dice: “Ecco il cattivo spirito che ti flagella”. Si svegliò il monaco, e saltò dal suo letto tutto sano. Queste cose le ha raccontate proprio lui.

Il sacerdote Giovanni viveva con sua moglie nel Kastro delle Tortore [?]. Sua figlia, sposata, impazzì: tentò di uccidere i propri figli. Il padre le fece bere l’acqua con cui era stato lavato lo zoccolo, e guarì. Fece bere di quell’acqua anche a una donna muta dalla nascita, a un’altra donna che da diciotto giorni non poteva dormire, e guarirono. Per questo, pensarono di tenersi lo zoccolo, e io ho dovuto scrivere lettere finché il sacerdote Giovanni non l’ha restituito.

Ora prego tutti quelli che leggeranno queste cose, di rendere grazie a Dio. Tu, Elia, che hai raggiunto la Luce divina, tu splendido sole dell’Occidente, fa’nascere in noi l’increata Luce divina. O luminare dei luminari, pastore dei pastori, non dimenticare questo tuo gregge.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Speleota.htm


 

[1] Con le stesse parole, Clemente Alessandrino parla del siciliano Panteno, un filosofo stoico convertito al cristianesimo, ritenuto fondatore del Didaskalion d’Alessandria.

[2] Gli storici definiscono quel secolo come oscuro: nella parte occidentale dell’Impero Romano, sotto il dominio dei re franco-tedeschi, decade ogni ordinamento statale ed ecclesiastico.

[3] Nella Vita di san Luca il Grammatico ricorre il toponimo Viotherito o Vitheorito.

[4] Non si sa quanto l’episodio sia ispirato ai Dialoghi, una raccolta d’episodi edificanti, composta all’inizio dell’8° secolo ma attribuita a Gregorio Magno.

[5] Elia il Nuovo nasce a Enna nell’823 circa. Convocato dall’imperatore Leone VI, morì a Tessalonica nel 903, in viaggio verso Nuova Roma.

[6] Nel 20° secolo Arsenio fu inserito tra i santi della diocesi cattolica di RC; non si hanno, tuttavia, tracce di culto negli antichi manoscritti liturgici ortodossi.

[7] Sua Santità Bartolomeo I, nel corso d’una recente Visita Pastorale in Sicilia e Grande Grecia ha posto a Seminara la prima pietra d’una chiesa ortodossa in ricordo dell’Imperiale Monastero, fondato (886 circa) da sant’Elia il Nuovo e che (11° secolo) fu palestra ascetica di san Filarete l’Ortolano.

[8] Del Monastero delle Grotte presso Melicuccà è rimasto solo un anfratto in cui, ancor oggi, gocciola l’acqua che ha il potere di guarire (vedi l’icona del santo speleota, venerata nell’omonima parrocchia ortodossa di Reggio).

[9] La “visione di Motovilov” nei dialoghi con san Serafino di Sarov è la più conosciuta, ma similari testimonianze sono disseminate in tutte le Vite dei santi ortodossi di Sicilia e Grande Grecia.

[10] Il capo, racchiuso in un settecentesco reliquiario d’argento, è conservato a Seminara.

[11] Un paese dei Gaiani è citato anche nella Vita di san Luca il Grammatico (nativo di Melicuccà e monaco nello stesso Monastero delle Grotte).

[12] Il toponimo ricorre anche nella citata Vita di san Luca e in quella di sant’Elia di Enna, dove indica un fiume: lo Xeropotamo? Di Sicrò era nativo san Nicodemo l’Umile.

[13] Il toponimo Plaka ricorre anche nella Vita di san Luca il Grammatico.

 

 

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