FIGURE DEI MONACI CONTEMPORANEI DELLA MOLDAVIA

 

Ieromonaco I. Balan

 

 

 

Il monaco Galaction Elia del monastero di Sihastria[1]

 

Galaction Elia nacque nel villaggio di Pipirig. Abbandonò il mondo ancora in età giovanile e divenne un monaco esperto nella comunità di Sihastria. Non era un dotto, ma aveva molta fede. Quando Elia si trovava in chiesa per pregare o leggere la parola di Dio, cadeva in ginocchio con le lacrime agli occhi. Durante gli ultimi anni che trascorse al monastero, il monaco Galaction non ebbe che una sola mansione[2]: custodire le pecore, opera benedetta, solitaria e tranquilla che riempiva di profonda umiltà l’anima del pastore e lo manteneva in contatto spirituale con Dio e con la natura circostante. Senza dubbio è per questo motivo che il monaco Elia era calmo, placido, pieno di pazienza e carità. Amava soprattutto la Chiesa di Gesù Cristo Salvatore ed in modo particolare la lettura del Salterio fatta in solitudine. Egli provava un vivo affetto per le pecorelle dei pascoli, le montagne che si elevano verso il cielo, gli uccelli della foresta ed i fiori dei prati. Durante tutta la giornata conduceva il gregge sugli alti pianori digiunando sino a sera e recitando a memoria i salmi o la preghiera di Gesù. Terminato il suo lavoro, Galaction Elia mangiava al calare della notte per nascondersi subito dopo nella foresta e pregare sino alla fine del Mattutino celebrato nel Monastero nel fondo della valle. Ormai avanti negli anni, divenne infermo e fu riportato al monastero dove rese a Dio la sua anima serena e tranquilla nel 1946, nel giorno anniversario della sua nascita.

Il padre Galaction non mangiava mai solo. Tutto ciò che aveva divideva con i confratelli della stalla, con i passanti e con le pecorelle, gli uccelli ed i cani, poiché era solito dire: “È un gran peccato per un monaco mangiare di nascosto”.

Una volta un novizio gli chiese: “Reverendo Elia, come fate ad avere un viso così lieto ed un’anima tranquilla?”. Rispose: – “Eh, fratello Costantino, l’amore ed il senso della fratellanza superano di gran lunga la ricchezza”.

Questo umile monaco non voleva possedere alcun bene sulla terra. Un giorno un novizio gli domandò: “Reverendo Elia, perché non avete qualche buon abito, qualche libro, come tutti gli altri padri?”. Rispose: – “Eh, sì, perché il monaco non deve avere più bagaglio di quanto possa portare sulle sue spalle da una cella all’altra”.

Lo stesso novizio l’interrogò di nuovo: “Ditemi, padre, una parola di salvezza”. Rispose: – “Ascolta, fratello Costantino. Una volta, andando con il mio gregge verso gli alti pianori, incontrai un grande anacoreta, al quale mi confessai. Ecco quello che mi disse: “Tu, finché vivi, non dovrai possedere alcun abito oltre a quello che indossi, non devi mai lasciare non terminato il tuo canone di preghiere quotidiano; non devi mai cessare di recitare la preghiera di Gesù e devi far la pace con il tuo fratello prima che tramonti il sole. Se tu procederai in questa maniera, concluse l’anacoreta, Dio ti concederà la salvezza”. Un’altra volta, aggiunse il padre Elia, ho incontrato un eremita che amava Dio con tutto il cuore. Io gli parlai così: “Ditemi, reverendo padre, quando verrà la fine?”. Mi rispose: “Sapete quando, padre Galaction? Allorché non ci sarà più un sentiero vicino all’altro”.

Il giorno prima di morire, l’umile monaco Galaction Elia, chiamò a se l’igumeno del monastero e gli rivolse questa preghiera: – “Reverendo padre igumeno, è morto il monaco Nazario? Vi prego di non seppellirlo solo, poiché domani alle sei me ne andrò anche io… che entrambi partiamo assieme, affinché voi non abbiate a fare due spese”. L’indomani all’ora detta, il padre Galaction rese la sua anima a Dio.

 

 

Il monaco Paissij Nichitencu del monastero di Sihastria

 

Fu uno dei grandi monaci del nostro tempo. Entrato giovane nel monastero, durante i quarant’anni della vita comunitaria Paissij Nichitencu attese ad un solo compito, quello del cuoco. Non venne mai meno a questa sua funzione, non chiese mai di essere sostituito da qualcun’altro, non espresse mai una recriminazione. Manteneva continuamente il silenzio, recitava continuamente nella mente la preghiera di Gesù ed aveva sempre le lacrime agli occhi. Grazie alla sua umiltà ed alla sua obbedienza, padre Paissij aveva ricevuto da Dio il dono delle lacrime e della preghiera del cuore. Sia che sbucciasse legumi sia che accendesse il fuoco, sia che preparasse il cibo aveva sempre sulle labbra il nome del Signore e nell’anima il calore dello Spirito. Abbiamo trascorso assieme parecchi anni: ho visto il suo volto illuminato da una gioia indicibile; l’ho visto affaticarsi in cucina; l’ho osservato in Chiesa, sempre in piedi e con le lacrime che continuamente gli scendevano per il viso; l’ho inteso fare le metanie nella sua cella o piangere, come un bambino, per i suoi genitori davanti alle icone.

Malgrado tutto ciò, il monaco Paissij non aveva mai un’espressione triste; al contrario era sereno come il cielo in primavera, con il sorriso sulle labbra, dolce ed innocente come un figlio del Cristo. Allorché incontrava un confratello o un padre, era lui sempre il primo a salutare portando la destra del monaco alle sue labbra e chiedendo la benedizione. Successivamente Paissij prendeva le mani del confratello tra le sue palme, lo guardava un istante con gli occhi che esprimevano una gioia non terrena e, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, abbassava la fronte e le mani e diceva con una voce armoniosa: “Padre, venite a tavola, tutto è pronto”.

Il padre Paissij nutriva, come nessun altro, un grande amore per i suoi simili, per gli uccelli, per i fiori, per tutta la creazione. Pregava per tutto il mondo intero, versava lacrime per tutti, chiamava ciascuno a tavola e comunicava a tutti la pace dell’anima sua. Non sapeva che esistono su questa terra buoni e cattivi, giusti e peccatori egli li amava, tutti e si considerava come il più misero tra tutti. Non pretendeva di insegnare nulla a nessuno, non voleva mai dire una parola di edificazione né a voce né per iscritto. Fu la sua persona e la sua vita che furono esempio vivente e vero testamento dell’amore del Cristo.

– “Padre Paissij – gli chiesero i confratelli – dicci una parola di saluto”. Rispose: – “Perdonatemi, fratelli miei, sono un povero peccatore”.

Rese serenamente la sua anima a Dio, il 21 dicembre 1970, all’età di 77 anni.

 

 

Il protosingelo Vichentie Malau del monastero di Secu[3]

 

La vita del padre Vichentie si manifestò già dagli inizi come benedetta da Dio. Nel 1894 i suoi genitori ed i loro tre figli rinunciarono al mondo ed ai beni di questa terra ed andarono a servire il Cristo. Il figlio ed il padre partirono per l’Athos. Dopo dieci anni di noviziato trascorsi presso monaci provati, il futuro protosingelo ritornò al suo paese e si stabilì nel monastero di Secu. Nel 1912 egli prese l’abito monastico e tre anni dopo fu ordinato prete e designato come confessore. Ma non è facile parlare della sua vita monastica e delle prove alle quali si sottomise. Lo ieromonaco Vichentie si dimostrò dall’inizio come un penitente senza pietà nei propri riguardi: digiuno permanente, preghiera incessante e veglia notturna.

Egli non si asteneva soltanto dagli alimenti per tre giorni di seguito o durante i quattro periodi di digiuno dell’anno, ma anche ogni giorno, limitandosi a gustare qualche cucchiaio di ciò che c’era nei piatti. Nessuno sapeva quanto fossero rigorose le sue privazioni, poiché non toccava il cibo che per le insistenze dei novizi, dividendolo poi senza lasciar nulla per l’indomani. Un digiuno veramente reale e nascosto agli occhi degli uomini. Si può ben dire che padre Vichentie non s’è mai saziato a tavola. Al contrario nutriva giornalmente numerosi affamati, poveri e monaci erranti, poiché non ci fu alcun cenobita più misericordioso di lui in tutti i monasteri della Moldavia.

Non conservava nulla nella sua cella né riservava alcunché per se, poiché distribuiva tutto, cibo, denaro, vesti, biancheria, i regali che riceveva ed anche i suoi libri di preghiera. E quando non aveva più nulla, prendeva in prestito da quelli che avevano e dava generosamente a tutti; libero delle cose materiali, divenne il protettore dei diseredati e il consigliere, senza rivali, dei monaci e dei laici. Assieme all’elemosina, padre Vichentie distribuiva la gioia della sua anima, le sue parole di saggezza, la sua benedizione, le sue preghiere e tutto l’amore del suo cuore.

Il protosingelo Vichentie fu chiamato il padre della gioia e dell’amore nel Cristo, poiché sorrideva sempre a tutti, riceveva chiunque a lui si rivolgesse e non pregava mai senza versare lacrime. Ed è per questa ragione che molti malati guarirono grazie alle sue preghiere. Nella sua veste di padre spirituale e confessore, superò quasi tutti i monaci del suo tempo, riuscendo, come nessun altro, a cambiare la volontà e la vita interiore di quanti a lui si rivolgevano. Non imponeva penitenze severe, sebbene conducesse la vita di un asceta rigoroso. Per questo motivo era ricercato da tutti. Non si conformava ad alcun programma fisso, ma sempre era a disposizione del suo prossimo. E la notte, quando nessuno lo vedeva, pensava a se stesso sottoponendosi a dure prove.

La sua cella era una delle più spoglie. Non dormiva mai su un letto, né su una sedia, ma si riposava assopendosi in ginocchio. Praticava pure, con sommo impegno, la preghiera di Gesù, facendo sino a 1000 metanie, così come si segnava duemila volte nel corso della notte. Alle volte, quando i visitatori erano troppo numerosi, si nascondeva nella foresta per pregare.

Nel 1927 il monaco Vichentie fu nominato confessore del monastero di Agapia[4]. Dodici anni dopo partì, in qualità di missionario, nella provincia delle Banato[5] e rese la sua anima a Dio nell’estate del 1945, nel monastero di Basiova, pianto da migliaia di persone.

Nel 1953 le ossa di padre Vichentie furono traslate nel monastero di Secu; le sue mani furono trovate intatte.

Nel 1926, durante l’estate, il padre Vichentie, superiore del monastero di Secu, imbiancava con la calce la Chiesa. Un giorno alcune persone colte giunsero al monastero e chiesero ad un monaco: “Dove è il superiore del monastero? Desideriamo parlare con lui”. – “Eccolo lassù, sull’armatura. Sta restaurando la chiesa”, rispose il monaco. Vedendolo quelle persone esclamarono: – “È lui il superiore del monastero? Ebbene, andiamocene!”.

Un confratello, che aveva di recente vestito l’abito monastico, chiese al suo confessore ciò che dovesse fare per salvare l’anima; il padre Vichentie poiché era lui il prete, gli rispose: “Ascoltate, padre, cercate di fare tutto ciò che avete promesso e senza alcun dubbio vi salverete”. Quello replicò: – “Ma, reverendo padre, la professione monastica mi fa tremare di paura”. Il padre Vichentie gli disse: – “Non abbiate paura! Credete che avete ricevuto il Santo Spirito. Cominciate lavorando a poco a poco e andrete lontano. Cercate dapprima di avere la coscienza a posto, che nulla vi ispiri rimorsi al calare del sole. Mantenete la vostra mente libera da ogni cattivo pensiero, obbedite di buon animo e ripetete continuamente la preghiera di Gesù. Fate almeno questo ed io penso che vi salverete. Così, figlio mio, ascoltate ciò che vi dice il vostro padre, e non vi ingannerete. È in questo modo che si coltiva il campo dell’anima”.

Un’altro suo figlio spirituale gli chiese: –“Che cosa debbo fare per essere sicuro della salvezza?”. Gli disse il padre: – “Ecco: confessate il più spesso possibile i vostri peccati ed i vostri pensieri; rispettate fedelmente la regola ed il vostro canone penitenziale; recitate incessantemente la preghiera di Gesù; amate la solitudine in modo da essere preservato dal sentire, dal vedere, dal desiderare e dal criticare a torto o a ragione. Considerate tutti gli uomini come santi. Datevi la pena di fare tutto ciò e sarete vivo...”[6].

Alle volte padre Vichentie veniva invitato ad un banchetto funebre. Vi si recava di buon animo, recitava la preghiera e tutti gli invitati prendevano posto attorno alla tavola. Dopo aver inghiottito tre piccoli bocconi, ed aver appena accostato alle labbra il bicchiere del vino, diceva: “Dio sia lodato. Come ho mangiato bene! Che Dio perdoni il defunto!”. – “Ma restate e mangiate, padre”, gli dicevano per trattenerlo. Lui rispondeva: – “Quello che ho preso basta, scusatemi, io me ne vado, poiché il Cristo mi attende nella mia cella”. E se ne andava subito.

Una volta giunse da padre Vichentie un uomo molto turbato e gli disse: “Padre, il mio vicino non cessa di causarmi fastidi. Io non lo posso sopportare più. Ditemi quel che io debbo fare. Gli disse il padre: – “Fratello mio, ascolta questo consiglio. Non turbare inutilmente il tuo prossimo, poiché non è colpa sua, ma del demonio. Non spezzare il legame d’amore, che è la cosa più preziosa al mondo”.

Quando fu confessore al monastero di Agapia, le monache venivano alle volte da padre Vichentie per chiedergli consiglio. Un giorno esse gli dissero: “Reverendo padre, dei conoscenti, dei laici sono venuti a trovarci. Ci e permesso di ospitarli?”. Il padre disse all’igumena: – “Madre mia, ascoltate il consiglio di padre Vichentie. Non ricevete, neppure per un ora, dei laici nella vostra cella, ma soltanto nell’appartamento riservato ai visitatori del monastero. La cella è la chiesa del monaco, essa è un luogo di lacrime e di prove, una camera segreta dove si incontra il Cristo tramite la preghiera. Ma i laici mettono in fuga le lacrime del cenobita, poiché spengono la luce della preghiera segreta. Le chiacchiere con la gente di questo mondo turbano la mente ed allontanano il Cristo dal cuore del monaco”.

Il padre Vichentie dava in elemosina tutto ciò che possedeva, anche la camicia che portava, le scarpe ed il suo abito. Quando era privo di tutto, faceva attendere la gente nel monastero e correva dalle monache, bussava alla loro porta e pregava: “Madre, il Cristo è da me e non ho di che fargli la carità. Prestatemi, per favore, cento Lei[7] e quando riceverò il salario di questo mese, ve li renderò...”. L’igumena: – “Tenete, ecco cento Lei, padre mio: io li avevo ricevuti per acquistare vestiti”. Ma alla fine del mese, padre Vichentie non riusciva a pagare i suoi debiti, poiché prendeva in prestito sul suo salario sino al triplo del compenso mensile. Le monache, vedendo quanto grande fosse la sua carità, rinunciavano al denaro che era loro dovuto, e dicevano: “Padre Vichentie, non restituiteci i Lei; anche noi vogliamo fare la carità al Cristo”.

Spesso padre Vichentie ripeteva queste parole: “Ascoltate, padri, se voi ricevete oggi qualche cosa, dovete dividere ciò che avete ricevuto. Non conservate nulla per l’indomani né denaro, né pane, né due abiti, poiché il Cristo avrà cura di voi anche domani.

Prima che padre Vichentie partisse per il Banato, vennero da lui due discepoli fedeli e, con le lacrime agli occhi, gli dissero: “Reverendo padre, voi ci lasciate e non ci rivedremo più sulla terra. Diteci un’ultima parola di saluto”. Allora, posando una mano sul capo di uno dei suoi visitatori e battendo leggermente con l’altra il tavolo, padre Vichentie disse: “Ascoltate, padre Cleofas, ascoltate ciò che vi dice l’Anziano; ecco la mia ultima parola: pazienza, pazienza! E quando vi sembrerà che l’avrete perduta, ricominciate da bel principio. Ancora una volta: pazienza, pazienza, pazienza! Ed in seguito ricominciate da capo”. Ancora gli chiesero: – “Ma fin quando, padre Vichentie, bisogna avere pazienza?”.

Rispose: – “Ascoltate, padre Cleofas: sino alla soglia della tomba! E successivamente, figlio mio caro, andremo lassù, nel giardino dell’Eden. Giacché là gli uccelli cantano meravigliosamente, ci sono alberi fioriti e frutti d’oro sui campi eternamente in fiore, non lontano da sorgenti di acqua limpida… E tutto è bello e buono lassù… noi sentiremo il canto degli angeli e lì vedremo le schiere dei giusti e saremo per sempre con il Signore. È allora soltanto che avremo lasciato per sempre questa valle di lacrime e di tentazioni. E’ là che, fratelli miei, ci ritroveremo...”.

 

 

Il monaco Damiano Tziru del monastero di Secu

 

Non si sa molto del monaco Damiano Tziru, poiché nel monastero condusse una vita ritirata. Nato nel dipartimento di Bacau, già nei suoi primi anni si mostrò molto pio. Di notte si chiudeva nella chiesa del villaggio e pregava sino al mattino. Trascorse il noviziato nel celebre monastero di Frasinei; successivamente in Moldavia, dove entrò nel piccolo monastero di Tibucani-Neamtz.

Il suo ardente bisogno di tranquillità e di vita ascetica lo condusse al santo luogo di Secu, abbastanza lontano dai rumori del mondo, là il padre Damiano condusse una vita di solitario, di monaco affermato e provato. Sempre solo, pensando incessantemente alla morte ed al giudizio fanale, recitava senza interruzione la preghiera di Gesù, digiunando e mortificando il suo corpo con l’obbedienza e le veglie. Obbedienza, preghiera continua, silenzio, astinenza, uno spirito puro e profondamente umile, queste furono le virtù fondamentali del padre Damiano. Come i monaci di un tempo, egli pensava piuttosto all’inferno che al paradiso e si teneva sempre pronto alla morte. Avendo ottenuto dal Signore il dono della pace e della preghiera continua, il padre Damiano si teneva lontano da tutto ciò che accadeva intorno a lui. Non sollevava neppure gli occhi per ammirare il cielo stellato.

Faceva il carpentiere e lavorava tutto il giorno nel laboratorio del monastero ed anzi lavorava parecchie ore durante la notte, senza che ne fosse obbligato, per mortificare il suo corpo. Si ritirava poi nella sua piccola cella e solo il suo discepolo aveva il diritto di fargli visita. Là il padre Damiano leggeva il Salterio, recitava la preghiera di Gesù oppure si sedeva per leggere il più spesso possibile le parole dei Padri della Chiesa. Il monaco Damiano non mancava mai all’ufficio di mezzanotte dopo di che riprendeva il suo programma nella cella: preghiere, letture, meditazioni sino verso l’alba, per dormire poi una o due ore. Ma non si mise mai a dormire su un letto dal giorno che rivestì l’abito monastico: il padre Damiano si riposava seduto su una sedia. In chiesa stava sempre dietro a tutti gli altri e soltanto in piedi. Alle volte si avvicinava al coro per ascoltare la lettura della vita del Santo del giorno ed i canti della Divina Liturgia con le lacrime agli occhi. Confessava spesso i suoi pensieri al suo padre spirituale e si comunicava ogni quindici giorni. Negli ultimi anni della vita, riceveva i Santi Misteri ogni settimana: una gioia celeste ed innocente inondava allora la sua anima ed il suo volto. Nel gennaio del 1964 il padre Damiano s’addormentò nelle braccia del Signore.

Una volta l’igumeno del monastero gli chiese: “Fratello Damiano, quando volete prendere l’abito monastico?”. – “Padre igumeno – gli rispose – io non sono venuto in monastero per diventare monaco di nome, ma per le mie azioni. Così, quando avrò compiuto le opere, pronunzierò i voti”.

Alle volte diceva al suo discepolo: “Padre Nicodemo, io non sono venuto qui per amore del monastero di Secu, ma per amore del deserto. E’ nel profondo delle foreste che io avrei voluto nascondermi per non vedere alcun uomo, ma solamente parlare a Dio e nutrirmi di erbe del deserto. Ma, poiché non sono ancora all’altezza di farlo ho preferito scegliere la vita in comune. Tuttavia io cerco di realizzare qui ciò che avrei dovuto compiere nella solitudine!”.

Un’altra volta il padre Damiano disse al suo discepolo: “Non c’è che una sola cosa che io desidero nel mio cuore”. Gli chiese il discepolo: – “Qual è, Padre Damiano?”. Rispose: – “Essere estraneo al mio popolo, come lo sarei tra gli abitanti di un’altra nazione. Non comprendere la lingua degli altri e che essi non comprendano la mia... Ecco quello che è difficile ai giorni nostri”.

Quando si sentiva pienamente in pace con se stesso, il padre Damiano diceva al suo discepolo: “Fratello mio, vorrei murare definitivamente la porta della mia cella. Non vi lascerei che una piccola finestra attraverso la quale parlare con un solo uomo sino alla fine della vita”. Gli chiese il discepolo: – “Ed a chi parlereste, padre Damiano?”. Rispose: – “Solo al mio confessore”.

Un’altra volta così si espresse: – “Per lunghi anni ho cercato un padre spirituale saggio. Ma non l’ho trovato. Allora ho cominciato a leggere la Sacra Scrittura ed ho trovato quello che cercavo”.

Il padre Damiano aveva l’abitudine di leggere molto durante la notte, particolarmente le opere di san Efrem Siro e san Giovanni Climaco. Leggeva anche i libri liturgici, il “Rituale, il “Triodion”, il “Pentecostarion”, l’“Oktoichos”. Una sera disse al suo discepolo: “Padre Nicodemo, la lettura dei libri santi mi riempie molto di gioia e di saggezza. Non vorrei separarmi mai da essi. La preghiera e la lettura sono la mia unica consolazione”.

Il padre Damiano non mangiava mai seduto, ma si limitava a prendere qualche boccone al suo banco di lavoro. Quando Nicodemo gli portava un po’ di cibo dal refettorio il vecchio gli diceva alle volte: “Tu non smetti mai di darmi da mangiare”. Quello però insisteva: – “Prendete, padre, e mangiate finché è caldo...” Ma, dopo aver mangiato qualche boccone nella sua officina di falegname, rispondeva: – “Si direbbe che qualcosa manchi a questo piatto, poiché non ha nessun gusto. Mettilo nell’armadio non so chi lo migliorerà, ma stasera sarà molto buono”. Ma al calar della notte, il padre non pensava più di cibarsi e Nicodemo riportava il piatto in cucina.

La cella di padre Damiano esiste ancora ai nostri giorni. Essa si apre sul meleto del monastero, ma mai alcuno l’ha visto cibarsi di una mela del giardino.

Il padre Damiano era stato designato ad occuparsi dell’alveare del monastero. Durante i cinque anni in cui attese a questa occupazione, non gustò il miele che una volta sola e questo avvenne quando gli fu affidato il compito di apicoltore.

Per vent’anni padre Damiano non accettò mai denaro da nessuno, cosicché non conosceva le monete. E se qualcuno voleva pagarlo per un lavoro di falegnameria, egli diceva severamente: “Portate via dalla falegnameria queste cose”.

Qualche volta, vedendolo ancora sveglio, il discepolo gli diceva: “Coricatevi, padre Damiano, voi siete stanco e vecchio”. Il padre allora rispondeva: – “Io non posso dormire, padre Nicodemo, il sonno m’ha abbandonato. Riesco appena ad assopirmi due o tre ore alla notte. Poi mi levo di nuovo per pregare, leggere e portare a compimento il mio canone penitenziale”.

L’igumeno del monastero disse un giorno a padre Damiano: “Vedete, tutti i confratelli escono ogni tanto dalle loro celle per ammirare la bellezza della natura, per ascoltare il canto degli uccelli, o per scambiarsi parole di saggezza. Solo voi, padre, non lasciate mai la cella e tenete gli occhi incessantemente rivolti a terra ed evitate il prossimo con tristezza”. – “Padre igumeno – gli rispose padre Damiano, – io ho il mio campo da sarchiare. E’ esso che mi fa vivere, mi aiuta a pagare i miei debiti ed a pagare la mia pigione ed il mio cibo. Infatti è proprio per questa ragione che sono venuto qui: pagare tutti i miei debiti! Come dunque potrei uscire per passeggiare finché non ho terminato di lavorare il mio campo?”.

Il suo discepolo gli pose questa, domanda: “Che direste, padre Damiano, se qualcuno venisse e vi costringesse a farvi prete?”. Rispose: – “Io lo inviterei ad uscire immediatamente dalla mia officina”.

Un giorno l’anziano disse al suo discepolo: “Se tu sei in buona salute e non ti stanchi, ciò significherà certamente che tu sei ugualmente un peccatore”.

Un altro giorno, il padre Damiano fece al suo discepolo una rivelazione: “Questa notte, padre Nicodemo, mentre leggevo il mio Salterio, ho sentito ridere i demoni nella mia cella. Allora ho cominciato a pregare piangendo a calde lacrime e non li ho più intesi”.

Una volta, siccome i reumatismi lo facevano soffrire, il discepolo gli disse: “Poiché siete così malato, padre, non volete sottoporvi ad una cura di bagni?”. Gli rispose: – “No, padre Nicodemo, la malattia è la conseguenza dei miei peccati. Se voglio sfuggire ai mali corporali i peccati rimangono in me. Perciò preferisco accettare pazientemente tutto ciò che Dio mi manda”.

Siccome padre Damiano si trovava a letto, il suo discepolo entrò nella sua cella e gli chiese: “Volete che io vi porti del thè o dell’acqua bollente?”. – “Che Dio vi ricompensi – rispose – per la vostra carità, padre Nicodemo, ma voi avete forse altri impegni”. L’indomani l’Anziano aggiunse: “Perdonatemi ciò che ho detto ieri. Non posso soffrire le chiacchiere. Se anche un angelo fosse venuto ieri nella mia cella, non mi sarebbe piaciuto parlargli.

Un monaco venuto da molto lontano per vedere il padre Damiano entrò nella sua falegnameria, dove egli lavorava, e gli parlò così: “Ho inteso parlare molto di voi, reverendo padre, e sono venuto a vedervi”. Allora l’umile monaco, magro e di piccola statura, si volse lentamente verso il visitatore e gli rispose: “Ebbene, m’avete visto?”, e riprese il suo lavoro.

Un’altro monaco gli domandò un giorno una parola di edificazione. Il vecchio gli rispose: “Un tempo il faraone impose ai Giudei maggior lavoro perché non avessero il tempo per pensare a Dio ed invocarlo. Ai nostri giorni c’è un faraone invisibile che incita i monaci a moltiplicare i loro beni, le loro preoccupazioni e le loro fatiche, affinché non abbiano il tempo di pregare il loro Dio notte e giorno così come hanno promesso di fare”.

Quando fu vecchio, il suo discepolo si informò: “Come vi sentite, padre Damiano?”. Rispose: – “Attendo dalla mia giovinezza che venga la morte. Non so veramente perché essa tarda tanto a farmi visita”. Gli disse il discepolo: – “Noi preghiamo Dio che vi conservi in vita”. Gli rispose: – “Eh, padre Nicodemo, quale dono prezioso è la morte! E quale maledizione per l’uomo sarebbe non morire. La terra diventerebbe per lui un inferno!”.

 

 

Da: I. Balan: “Vies des moines de Moldavie”, Chevetogne 1986. Trad. A. S.

In: “Messaggero Ortodosso”, Roma, maggio-agosto 1987, p. 17-33.

 

 

 

Immagini: http://www.orthodoxphotos.com/Orthodox_Elders/Romanian/Others2/index.shtml

[1] Monastero ubicato in fondo alla vallata di Secu, è stato fondato verso il 1655 dal vescovo di Husi.

[2] L’obbedienza datagli dall’igumeno.

[3] Il monastero di Secu è ubicato nella contea di Neamt, ai piedi delle montagne di Stanisoara, sulla sponda del fiume di Secu. Fu fondato nel 1602.

[4] Dista 45 chilometri da Piatra Neamt, nella depressione di Neamt. Il nome del monastero deriva dall'eremita Agapia che inizialmente costruì un eremitaggio di legno nel luogo chiamato "frutteto dei genitori" verso la fine del quattordicesimo secolo (il Vecchio Agapia). Il nuovo monastero di Agapia è stato costruito durante il XVI secolo dall’abate Gavriil, il fratello di Vasile Lupu, il reggente di quel tempo.

[5] Regione situata nel cuore della penisola balcanica, tra la Romania occidentale e la Serbia nordorientale.

[6] Cfr. Apoftegmata Patrum, Antonio.

[7] Il Leu (Lei al plurale) è la moneta romena.

 

 

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