INTRODUZIONE ALLA VITA E ALLE OPERE DI SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

da: R. D’ANTIGA (edd), Simeone il Nuovo Teologo. La visione della Luce, Padova 1992, 7-41.

 

1. L’epoca aurea dell’Impero Romano d’Oriente

Il periodo storico in cui visse Simeone il Nuovo Teologo è comunemente considerato dagli storici l’età dell’oro dell’impero romano d’Oriente, per lo splendore raggiunto sotto il potere della gloriosa dinastia macedone. La vita di Simeone si snoda lungo l’arco di tempo che va dal regno dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito fino agli ultimi anni di quello di Basilio II[1]. Il nome di Costantino VII (944-959) viene generalmente ricordato ancor oggi non tanto per la sua attività politica, quanto per il posto rilevante che egli occupò nel campo della cultura. Infatti, «fu l’autore di una enciclopedia di inestimabile valore filologico, nota sotto il titolo di Libro delle cerimonie, di un trattato storico-geografico sulle province dell’impero, di un importante trattato sui paesi e popoli stranieri, come pure di una biografia di suo nonno Basilio I»[2]. Nonostante il tiepido interessamento politico dimostrato dall’imperatore, sotto il suo regno si aprirono, con gli slavi dello stato di Kiev, quegli scambi proficui che culmineranno in seguito con la creazione di una «Slavia ortodossa». Essi si iniziarono con la conversione al cristianesimo della principessa Olga, reggente del giovane regno slavo, avvenuta durante una sua visita a Costantinopoli, suggellata dall’adozione spirituale che la coppia imperiale stipulò durante la cerimonia del battesimo. I sovrani, infatti, parteciparono al rito di iniziazione cristiana della principessa Olga in qualità di padrini[3]. Alla morte del Porfirogenito salì al trono di Costantinopoli suo figlio Romano II (959-963), uomo frivolo e insignificante, che morì prematuramente lasciando in eredità l’impero ai due figli Basilio e Costantino, sottoposti alla reggenza della madre Teofano, perché ancora minorenni. L’imperatrice, per motivi prevalentemente politici, si risposò con il glorioso generale Niceforo Foca, divenuto un potente e invidiato magnate in seguito alle sue gloriose campagne militari. Nel 961 egli espugnò Khandak (Candia), sottomessa da cinquant’anni al dominio degli arabi, e organizzò in seguito una campagna militare in Oriente che lo vide giungere trionfante sino ad Aleppo, capitale dell’emiro Saif ad Dawula, della dinastia degli Hamdanidi. Sotto il regno di Niceforo si sviluppò, attorno alla figura del monaco Atanasio, un movimento monastico che si propagò rapidamente sul monte Athos, dopo che, con l’aiuto dell’imperatore, il monaco ebbe fondato il monastero della Grande Lavra (963)[4].

Ben presto Atanasio si trovò in conflitto con gli anacoreti che già risiedevano sul luogo a causa della loro diversa concezione attorno alla vita monastica. Il monaco, infatti, fece innalzare grandi costruzioni in pietra suscitando la riprovazione degli anacoreti che reclamavano la medesima povertà e la medesima aderenza fisica con la desolazione terrificante del deserto, di cui avevano goduto i padri dei primi secoli[5]. Coloro che si lamentavano non erano pochi e fra loro c’era Paolo Xeropotamino, famoso per l’intransigente austerità dei suoi costumi. Atanasio e Paolo, al di là di queste tensioni estemporanee, rappresentano due aspetti, a volte fra loro in opposizione, della vita monastica ortodossa. Il primo, scegliendo la condizione di vita cenobitica, rappresenta un ideale aperto al mondo e alle sue afflizioni attraverso l’esercizio della compassione divina, acquisita dall’incessante pratica della carità; mentre la vita esicasta vissuta da Paolo presuppone il totale rifiuto del mondo, attraverso la rinuncia della propria volontà, e il completo rifiuto della mente per le immagini oggettive prodotte dal fuorviante pensiero girovago. Tali posizioni non sempre sono in contrasto fra loro: a volte possono essere armonicamente fuse insieme, come accadde in Simeone il Nuovo Teologo. Comunque le divergenze sorte fra Atanasio e Paolo non si appianarono facilmente. Quest’ultimo, infatti, si recò a Costantinopoli dal nuovo imperatore Giovanni Zimisce, salito al trono nel 969 con la complicità di Teofano, la quale aveva fatto assassinare Niceforo Foca dal nuovo imperatore. Paolo accusò Atanasio presso il sovrano di voler distruggere la vita monastica tradizionale e di aver introdotto un lusso malsano nelle sue fondazioni. L’imperatore, prima di pronunciarsi a favore dell’uno o dell’altro, inviò il monaco Eutimio lo Studita[6] al monte Athos con l’incarico di svolgere un’inchiesta sull’operato di Atanasio e dei suoi seguaci. Non essendo emerso nulla di contrario alle tradizioni monastiche, Giovanni Zimisce si convinse dell’autenticità del suo ideale ascetico, riconoscendo i diritti dei grandi centri monastici fondati da Atanasio.

Il typikon, redatto in questo periodo, che stabilisce le regole della vita monastica elaborate dal santo, rimane ancor oggi la legge fondamentale vigente sull’Athos. Le fondazioni monastiche si diffusero rapidamente e fra i numerosi discepoli che si raccolsero attorno ad Atanasio da ogni parte dell’impero, ve ne erano alcuni provenienti dall’Armenia e dalla Georgia. Sorse anche un monastero latino dedicato alla Vergine degli Amalfitani, espressione religiosa della comunità mercantile degli amalfitani residenti a Costantinopoli. In seguito l’edificio venne presto abbandonato a causa delle conseguenze dello scisma (1054); oggi dell’antica costruzione rimane soltanto una solitaria torre maestosa. Durante il regno dell’imperatore Giovanni Zimisce si appianarono i contrasti precedentemente sorti con l’Occidente latino e, come suggello della concordia raggiunta, l’imperatore diede in moglie una principessa sua parente, Teofano, ad Ottone II. Il matrimonio venne solennemente celebrato in Roma il 14 aprile 972. Il nome di Zimisce rimane legato anche a una campagna militare che egli organizzò per la riconquista dell’Oriente nel 975. Questa spedizione, considerata da alcuni storici una specie di crociata, lo vide giungere trionfante sin quasi alle porte di Gerusalemme, ma al suo ritorno egli morì colto da malattia, forse il tifo, dopo solo sei anni di regno, nel 976.

Alla morte di Zimisce, il figlio di Romano II, Basilio, ormai diciottenne, dopo aver avuto il potere dal fratello Costantino e dopo essersi disfatto della soffocante protezione del parakoimomenos[7] Basilio, concentrò nelle proprie mani tutto il potere da perfetto autocrate qual era. Nel 986 organizzò la sua prima campagna militare per contrastare la politica espansionistica dei bulgari guidati dall’intraprendente Samuele, il quale, dopo aver cinto la corona di zar, ripristinò anche, unilateralmente, il patriarcato bulgaro che ai suoi tempi Zimisce aveva soppresso. Improvvisamente però Basilio si trovò in una posizione disperata anche perché, approfittando delle difficoltà dell’imperatore, nel 987, Barda Sclero si proclamò imperatore e rivestì la porpora. L’imperatore chiamò Barda Foca per contrastare Sclero, ma anch’egli si ribellò all’autorità di Basilio e si accordò con l’antimperatore. Però, dopo aver rafforzato la propria posizione e le proprie forze, Foca fece arrestare il rivale e si incamminò verso la capitale imperiale per impadronirsi del trono. Barda Foca era molto più pericoloso di Sclero, perché godeva dell’aiuto e della simpatia di quei comandanti dell’esercito che disapprovavano il decisionismo dell’autocrate. L’imperatore Basilio II, in soccorso del quale era giunto nel frattempo il principe russo Vladimiro, dopo aver inferto ai ribelli una dura sconfitta a Crisopoli, il 13 aprile 989, sbaragliò definitivamente Barda Foca nella battaglia di Abido, dove quest’ultimo trovò la morte.

Il principe Vladimiro, dopo aver promesso che lui e il suo popolo si sarebbero convertiti al cristianesimo (988), come ricompensa per l’aiuto prestato, ricevette in moglie la principessa porfirogenita Anna, sorella dell’imperatore. «La cristianizzazione dello stato di Kiev non rappresenta soltanto l’inizio di una nuova era nello sviluppo della Russia, ma anche uno straordinario successo per Bisanzio. La sfera di influenza bizantina si allargò così in un modo insperato, e lo stato slavo più grande, e dalle più grandi prospettive per il futuro, si poneva sotto la direzione spirituale di Costantinopoli. La nuova chiesa russa era subordinata al patriarcato di Costantinopoli e venne diretta all’inizio da Bisanzio. Lo sviluppo culturale della Russia si sarebbe svolto per lungo tempo sotto una forte influenza bizantina»[8].

Durante il suo lungo regno, Basilio II perseguì il progetto di distruggere il potente impero creato da Samuele (976-1014) che gli impediva di rafforzare la sua azione politica e militare contro l’Oriente arabo. Nel 1005 conquistò la città di Skoplje e poi di Durazzo, aiutato dalla complicità di un traditore, ma soltanto nel 1014 riuscì ad infliggere una pesante sconfitta all’esercito bulgaro nell’alta valle dello Struma. Samuele scampò la morte rifugiandosi a Prilep. I suoi soldati, rimasti senza guida, si piegarono davanti alla forza dei romani e quelli che non morirono vennero condotti in cattività. Allora Basilio II «festeggiò la sua vittoria in modo terribile. I prigionieri – che sembra fossero quattordicimila – vennero accecati e inviati a gruppi di cento, guidati da un orbato di un solo occhio, allo zar a Prilep. Quando Samuele vide arrivare l’orribile processione cadde a terra privo di sensi, due giorni dopo il valoroso zar morì»[9] e con lui la potenza dell’impero bulgaro. Per queste campagne militari Basilio venne soprannominato il Bulgaroctono, cioè lo sterminatore dei bulgari. Alla sua morte (1025), l’impero aveva riconquistato i suoi confini, nella penisola balcanica, sino alla stessa linea di demarcazione esistente nel IV secolo, e nel V, fra Oriente e Occidente, e in Oriente sino ai territori della Palestina.

 

2. Vita di San Simeone il Nuovo Teologo

Simeone nacque nel 949 a Galata di Paflagonia da una nobile famiglia appartenente all’aristocrazia provinciale[10]. Come ci racconta l’agiografo, «ancora in tenera età venne portato, come un oggetto di valore, a Costantinopoli, ricevuto dai nonni, personaggi molto in vista a corte, e affidato a un grammatico per apprendere i primi rudimenti»[11] della cultura. Nei suoi studi non si preoccupò mai di coltivare le raffinatezze dell’ellenismo, perché la cultura profana era da lui percepita come un ostacolo alla sua formazione spirituale. Uno zio paterno, individuabile forse nel parakoimomenos Giuseppe Bringas, cubiculario imperiale molto stimato da Basilio II, nutrendo l’intenzione di avviare Simeone verso una splendida carriera amministrativa legata agli ambienti di corte, lo condusse a Palazzo dove ebbe contiguità con l’imperatore del tempo, forse Niceforo Foca. Ma il progetto dello zio non si realizzò per la ferma opposizione del ragazzo, il quale «non voleva entrare in contatto con uomini legati all’esercizio del potere per non perdere Dio e guadagnare cose di nessun conto»[12]. Simeone accettò solo il titolo di senatore e la dignità di spatarocubiculario, che gli dava l’onore di portare lo scettro imperiale durante le processioni. La morte «straordinaria»[13] dello zio, liberò il nipote dagli impegni mondani. Simeone allora «colse l’occasione, abbandonò tutto e si rifugiò in Dio. Così, con l’anima tutta ferita di amore per le cose celesti e preso dal desiderio della gioia ultraterrena, disprezzò lo splendore delle vanità visibili e si dedicò interamente alla speranza e alla gioia ultraterrena»[14]. Simeone si presentò al monastero di Studion per ritirarsi dal mondo, ma il suo padre spirituale, Simone il Pio, non glielo permise perché, a causa della sua giovane età (aveva appena quattordici anni), sarebbe facilmente caduto nelle reti tese dal Maligno. Doveva attendere. Simeone, allora, pur continuando a vivere nel mondo, «covava interiormente la fiamma dell’amore divino» e «si applicava con grande zelo alla preghiera e alla lettura». Durante questo periodo, su consiglio del maestro, meditò profondamente lo scritto di Marco il monaco, intitolato la Legge spirituale, e rimase particolarmente colpito da questo insegnamento: «Se cerchi la guarigione, datti cura della tua coscienza, fa’ quanto ti dice e ne trarrai vantaggio»[15]. Simeone, preso da furore spirituale, ogni notte prolungava le sue preghiere, come gli suggeriva la coscienza, «elemento divino nell’uomo»[16]. Egli, anche se giovane, ebbe la grazia di poter godere della visione della luce divina, una notte, mentre era assorto in preghiera nella sua stanza. Ecco come il suo discepolo e agiografo Niceta Stethatos ci narra questo mirabile evento accaduto a Simeone, udito dall’autore dalla viva voce del santo:

Una notte mentre era in preghiera e mentre il suo intelletto purificato era unito all’Intelligenza prima, vide una luce dall’alto gettare all’improvviso su di lui lo splendore dei cieli, luce pura e infinita che fa brillare ogni cosa e che ha uno splendore simile a quello del giorno. Da essa illuminato, gli sembrava che la casa, insieme alla stanza in cui si trovava, fosse interamente svanita e precipitata, seduta stante, nel nulla e che lui stesso fosse estasiato e dimentico del suo corpo. In questa condizione, come narrava e scriveva ai suoi intimi, era ripieno di grande gioia e inondato da lacrime; si stupiva di fronte alla stranezza di questo evento, poiché non era ancora stato iniziato a simili rivelazioni e diceva: «Signore, abbi pietà di me!», come si rese conto quando tornò in sé, perché in quel momento ignorava che la sua voce parlasse e che le sue parole venissero udite all’esterno. Nella luce ricevette la forza di vedere e dall’alto gli apparve una specie di nuvola luminosissima, senza forma e piena dell’ineffabile luce divina. Accanto ad essa egli scorse in piedi suo padre Simeone lo Studita vestito come era di solito[17].

Passata la visione, però, nel giovane Simeone si affievolì il fervore spirituale alimentato dalla preghiera continua e per questo motivo, come lui stesso narra, si abbandonò per un periodo alla negligenza dell’anima, dedicandosi agli illusori piaceri mondani. Ecco come egli stesso, se vogliamo vedere nella figura di Giorgio un’immagine autobiografica, ci narra l’accaduto:

Dopo quello straordinario cambiamento e l’aiuto divino ricevuto venivo continuamente aggredito da varie tentazioni per cui mi sentivo ostacolato nelle mie pratiche nascoste e lentamente privato dei beni celesti, e nello stesso tempo bramavo di trovarmi fuori dal mondo intero e ricercavo nella solitudine quello che avevo contemplato. Ma non avendo avuto la forza di compiere ciò senza esitazione, un po’ alla volta dimenticai quello di cui ti ho parlato e ripiombai nella più completa oscurità, tanto che non rammentavo nulla in nessun modo. O meglio, caddi in numerosi mali avuti precedentemente e mi trovavo nella stessa condizione di chi non ha mai udito le sante parole di Cristo[18].

Simeone, in seguito, toccato dalla misericordia divina, abbandonò i piaceri mondani e uscì dall’opacità in cui lo aveva avvolto e incatenato il peccato per riemergere nel mondo della luce. Volle allora ritirarsi dal mondo ed entrare come novizio nel monastero di Studion, perché, come egli diceva spesso al suo maestro spirituale:

Mi è impossibile rimanere più a lungo nel secolo, padre mio; infatti, non sappiamo cosa ci porterà il domani (Pro 3, 28 e 27, 1) e preferire qualcosa d’altro al servizio divino sarebbe per me quantomeno un rischio e un pericolo[19]. 

Dopo aver rifiutato i beni terreni, all’età di ventisette anni, circa, entrò come novizio nel celebre monastero costantinopolitano di San Giovanni di Studion e l’igumeno Paolo lo affidò subito alle cure del suo confessore e maestro Simeone il Pio, il quale per esercitarlo nella pratica dell’umiltà gli comandò di vivere nello stanzino del sottoscala della sua cella, facendogli svolgere le mansioni più faticose. Simeone cresceva spiritualmente in maniera progressiva e per questo motivo divenne vittima delle attenzioni del diavolo, il quale non trovando terreno fertile per insinuarsi tacitamente, lo attaccò, come di consueto fa con i principianti, frontalmente: al demone della pigrizia fecero seguito quello della paura e quello dell’impurità, ma il giovane novizio, perseverando nella preghiera, ne uscì vittorioso, perché:

aveva ricevuto contro i demoni una tale grazia divina che durante il sonno era come se fosse sveglio, anzi, combatteva contro di loro molto meglio di quando non dormiva[20].

Poco tempo dopo il suo ingresso nel monastero di Studion sorsero delle incomprensioni con i suoi confratelli, generate probabilmente dal comportamento di Simeone non sempre conforme alle rigide prescrizioni della regola studita che non ammetteva quel rapporto di paternità spirituale che è proprio della vita esicasta. L’igumeno Paolo gli ingiunse di abbandonare la guida di Simeone il vecchio, per il malumore sorto in seno alla comunità, ma il novizio rifiutò e per questo motivo venne espulso. Simeone venne allora condotto dal suo maestro nel monastero di San Mamas di Xylokerkos[21] e affidato alle cure dell’igumeno Antonio, il quale gli conferì la tonsura e gli fece amministrare l’ordinazione sacerdotale. Dopo appena tre anni di soggiorno nel monastero di San Mamas, Simeone venne eletto igumeno della comunità per volontà unanime dei monaci, a cui si accompagnò subito l’approvazione ecclesiastica del patriarca ecumenico Nicola Crysoberge (980). In questo periodo il nome di Simeone iniziò a diffondersi negli ambienti religiosi della capitale per la vita austera che egli conduceva e venne amato e conosciuto per la sua santità e per i suoi discorsi, testimonianze della sua elevata saggezza spirituale. L’opera a cui si accingeva il giovane abate si presentò subito onerosa, dato che il monastero che egli doveva dirigere versava in condizioni miserevoli sia per le costruzioni fatiscenti sia per la vita rilassata che conducevano i monaci. Con i pochi seguaci rimasti, Simeone iniziò la sua opera di ricostruzione restaurando le anime devastate che «in quel deserto avevano fame della parola di Dio»[22]. Parallelamente condusse a termine anche i lavori di ricostruzione del monastero e si pose alla guida della comunità di San Mamas con l’esercizio della carità, come egli stesso sottolinea con accenti lirici nel suo discorso programmatico al momento dell’elezione all’igumenato[23]. Simeone si pose, dunque, nei riguardi della comunità, come un padre spirituale che vuole indicare ai propri figli, attraverso un’attività terapeutica, la strada della perfezione; egli afferma:

Sì, fratelli miei, non trascurate mai la preghiera, non rifiutatemi la vostra volontà: privandovene sarete come dei martiri e degli atleti di Cristo e, da parte mia, sin d’ora, darò sempre di più la mia anima assieme al mio corpo ad una morte volontaria per il vostro maggior vantaggio[24].

La riforma avviata da Simeone, però, col tempo, creò all’interno della comunità una forte opposizione composta da una trentina di monaci che voleva cacciarlo dalla direzione spirituale del monastero di San Mamas. Non riuscendo a realizzare il loro intento, i ribelli fuggirono dal cenobio e si rivolsero, per aver soddisfazione, al patriarca ecumenico Sisinnio II (995-998). Questi manifestò apertamente la sua disapprovazione per il loro comportamento condannandoli all’esilio, ma grazie all’intervento di pacificazione compiuto da Simeone presso il patriarca, vennero puniti con la semplice dispersione. In seguito, Simeone riuscì con le sue cure e i suoi interessamenti paterni a ricondurli nel monastero. Egli esercitò la sua carica di igumeno per altri dieci anni, sino a quando nel 1005 si dimise per lasciare il comando spirituale al suo discepolo Arsenio.

Prima delle dimissioni di Simeone, forse verso il 1003, il sincello patriarcale Stefano di Nicomedia[25] entrò in polemica con l’igumeno di San Mamas per il culto che questi riservava al suo padre spirituale Simeone il Pio, morto nel 986/987. Il sincello, prima di entrare nel vivo della polemica, cercò di mettere in difficoltà Simeone sul piano dogmatico intorno alla dottrina trinitaria, ma Simeone non si fece intimidire e confutò l’avversario con i Trattati teologici ed etici difendendo la teologia mistica tradizionale. Stefano, allora, lo attaccò frontalmente per il culto che egli attribuiva ad un’icona che rappresentava Simeone il Pio assieme a Cristo e ad alcuni santi[26], negando che il suo padre spirituale fosse un santo. La polemica si protrasse per sei lunghi anni fino a quando la querelle non si risolse con la condanna di Simeone all’esilio, il 3 gennaio 1009. La sentenza venne immediatamente eseguita. Simeone fu costretto ad andare al di là del Bosforo e, «dopo aver attraversato la propontide di Crisopoli, davanti a Costantinopoli»[27], venne abbandonato nella cittadina di Palukitòn, in pieno inverno, privo di ogni cosa. Colà Simeone trovò un oratorio in rovina dedicato a Santa Marina, di proprietà di un suo discepolo, Cristoforo Fagura, e in quel rifugio tranquillo si stabilì. Il patriarca ecumenico Sergio II (1001-1019), dopo poco lo richiamò a Costantinopoli e per chiudere definitivamente il caso gli offrì «con il consenso unanime del santo Sinodo»[28] la cattedra episcopale di una metropoli. L’abate di San Mamas, però, non ne volle sapere ed oppose al patriarca ecumenico un fermo rifiuto alle sue speranze. Allora Sergio II con ammirazione gli disse: «Ecco, sei un vero studita pieno di amore per il tuo padre, il signore Simeone, tu possiedi la loro stessa ostinazione»[29]. Trascorsi pochi giorni da questo incontro con le più alte gerarchie ecclesiastiche (1010?), Simeone fece ritorno all’oratorio di Santa Marina, restaurò l’edificio e raccolse attorno a sé una nuova comunità monastica. Qui gli venne concesso di celebrare solennemente, ma solo nell’ambito del suo monastero, la festa del suo maestro spirituale Simeone il Pio. Simeone il Nuovo Teologo in questo lungo periodo di esilio si dedicò alla composizione degli Inni, capolavoro di poesia mistica che rispecchia lo splendore abbagliante della sua interiorità. Dopo tredici anni di esilio egli morì di malattia, in età avanzata, nel giorno da lui stesso predetto ai suoi discepoli: il 12 marzo 1022. Trent’anni dopo il suo corpo venne solennemente traslato a Costantinopoli.

 

3. Gli Scritti

Simeone il Nuovo Teologo sin dai primi anni di vita monastica si dedicò a un’intensa attività letteraria di carattere ascetico e mistico. I suoi scritti e le sue annotazioni vennero custoditi, dopo la sua morte, dal fedele discepolo, allora ancora molto giovane, Niceta Stethatos. Secondo quanto egli stesso ci tramanda[30], fu Simeone, attraverso un’apparizione, a consigliarlo di diffondere i suoi scritti, soprattutto all’interno dell’ambiente monastico. A tredici anni dalla scomparsa del maestro, Niceta, dopo un immenso lavoro di trascrizione e correzione, rese pubblici i suoi scritti. Ancor oggi le opere di Simeone sono le più lette nei monasteri e nei ritiri solitarii del monte Athos. Solo negli ultimi decenni è stata portata a termine l’edizione dei testi ascetici e mistici più importanti dell’igumeno di San Mamas.

1. Le Catechesi comprendono una raccolta di discorsi, trentaquattro, indirizzati ai monaci di San Mamas con lo scopo di educarli spiritualmente. In essi egli narra la sua esperienza ascetica e mistica non disgiunta da descrizioni di carattere autobiografico, tanto che, a volte, divengono vere e proprie confessioni. Esse furono composte tra il 980 e il 998, ma forse questo periodo va dilatato sino al 1005. Nella raccolta vanno inclusi anche due Ringraziamenti, dove l’autore esalta la magnificenza divina per le grazie ricevute dopo la sua conversione[31].

2. I Capitoli pratici, gnostici e teologici (226) sono espressi nella forma concisa ed esauriente della sentenza. L’opera è divisa in due centurie e si propone di suggerire degli spunti di riflessione o delle regole al monaco che percorre le varie tappe della vita spirituale. «Essi quindi spiegano lo sforzo etico attivo per la virtù (praxis), la conoscenza (gnosis) e la visione di Dio nella luce (theorìa/theologia[32]. Essi sono stati compilati nei diversi momenti della lunga esistenza di Simeone[33].

3. I Trattati teologici ed etici sono stati scritti durante la controversia che dovette sostenere contro Stefano di Nicomedia. In essi, Simeone, pur rivolgendosi ai monaci, espone in forma definitiva il suo pensiero dottrinale. Sono indirizzati contro quei circoli ecclesiastici dove si nascondevano i suoi detrattori[34].

4. Gli Inni (58) sono stati composti durante il suo ritiro nel monastero di Santa Marina a Crisopoli. In essi, scritti in versi popolari, l’autore espone le delizie spirituali da lui assaporate durante le sue numerose esperienze mistiche. L’ordine in cui ci sono pervenuti è quello stabilito da Niceta Stethatos e sono preceduti da una sua introduzione[35].

5. Altre opere attribuite a Simeone sono i trentatrè Discorsi[36], le cinque Lettere e un Dialogo tra lui e uno scolastico, attribuito da E. des Places al vescovo Diadoco di Fotica (V secolo)[37].

[I testi raccolti nel presente libro sono tratti dalle conferenze tenute da Simeone ai suoi monaci e raccolte col titolo Catechesi, dai Capitoli teologici gnostici e pratici (il termine gnostico qui non ha il medesimo significato di quello attribuito ad alcune sette, ma si riferisce a quei testi dove l’autore parla della conoscenza divina raggiunta grazie all’illuminazione) e dagli Inni. Con la scelta di questi scritti ci si propone di presentare per la prima volta al lettore italiano dei testi che offrano uno sguardo d’insieme alla profondità spirituale di questo eccezionale mistico ortodosso anche perché la loro meditazione fornisce oggigiorno validi strumenti contro il torpore dell’anima, frutto della noia esistenziale che ha avvolto il mondo contemporaneo ormai privo di ogni speranza escatologica e di valori fondanti.]

Il titolo di «teologo» nel corso della storia della chiesa d’Oriente, oltre che a Simeone, è stato attribuito anche a san Giovanni evangelista e a san Gregorio di Nazianzo. Esso non trova corrispondenza nella chiesa latina e sta ad indicare l’estrema «confidenza» che questi santi avevano con Dio per mezzo della preghiera ininterrotta.

 

4. La dottrina spirituale

La dottrina spirituale di Simeone il Nuovo Teologo non viene esposta in maniera sistematica e compiuta in nessuna delle sue opere, il grande mistico nei suoi scritti celebra con accenti lirici, e con un linguaggio squisitamente poetico, l’esperienza mistica personale, evitando generiche astrazioni concettuali. È comunque possibile ravvisare in ciascuno scritto una specifica concezione spirituale che pone a fondamento della realizzazione e del compimento dell’itinerario mistico che l’asceta deve percorrere, le tre tappe tradizionali elaborate dall’intensa esperienza spirituale vissuta dai padri nel deserto: la purificazione, l’illuminazione e l’unione. Questi tre stadi progressivi, necessari per la realizzazione dell’esperienza mistica, verranno ora descritti attraverso le argomentazioni e le parole stesse del grande mistico costantinopolitano.

Per Simeone colui che vuole intraprendere il cammino che lo condurrà all’unione mistica, deve convertirsi, evento interiore possibile solo se il cuore è posseduto dalla forza dell’amore. Ma il convincimento di questa necessità deve basarsi sulla fede, virtù pratica attraverso cui l’asceta interiorizza il comandamento divino di non anteporre nulla a Cristo, semmai di morire per lui. Simeone così insegna:

Fede è morire per Cristo a causa del suo comandamento e credere che questa morte procuri la vita; è considerare povertà la ricchezza, una vita oscura e il disprezzo come vera gloria e fama; è credere che nel non avere nulla si possiede tutto; è meglio possedere l’imperscrutabile ricchezza della conoscenza di Cristo e considerare tutte le cose visibili come fango e fumo[38].

La fede, infatti, da la certezza della Parusia e mantiene viva la speranza escatologica nel cuore del monaco, trasformato in martire, cioè in testimone dell’amore di Cristo per l’uomo, perché:

A causa sua (della carità) il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra di noi, per lei si è fatto uomo e volontariamente ha subito la vivificante passione, per liberare l’uomo, sua creatura, dai lacci dell’inferno, per rialzarlo e condurlo nei cieli[39].

Morire e immolarsi per Cristo vuol dire rinunciare alla propria volontà e morire al proprio io, luogo privilegiato dove l’uomo coltiva il suo indomabile orgoglio, per incorporarsi in Cristo attraverso l’obbedienza ai suoi comandamenti e ai suoi precetti. Figura importante e imprescindibile per la realizzazione spirituale e per il raggiungimento della pienezza della vita monastica, viene ad essere per Simeone, che si lega in questo modo ad una radicata tradizione, quella del maestro spirituale, esperto nel discernimento degli spiriti. Questa convinzione dell’igumeno di San Mamas, che egli stesso mise in pratica con la sua sottomissione alla paternità spirituale di Simeone il Pio, svolge all’interno della sua dottrina un ruolo importante e decisivo: l’eroica obbedienza verso il padre spirituale realizza il compimento della volontà divina; i suoi consigli devono essere subito messi in pratica come provenissero direttamente da Dio. Così egli insegna:

Chi ha acquistato una limpida fede nel suo padre secondo Dio, vedendolo pensa di vedere Cristo stesso e, stando con lui e seguendolo, crede fermamente di stare con Cristo e di seguirlo. Un tale uomo non desidererà di conversare con un altro, non preferirà alcuna delle cose del mondo al ricordo e insieme all’amore di Dio[40].

Obbedire al proprio padre spirituale significa, dunque, obbedire a Cristo e rinnegare la propria vita attraverso la morte al mondo e ai suoi illusori piaceri, rinnovando su se stessi la vivificante passione di Cristo.

La conversione (metanoia) interiore, fondata nella speranza escatologica scaturita dalla fede, presuppone nel cuore dell’asceta uno stato di compunzione da cui devono sgorgare in forma sensibile le catartiche lacrime del pentimento che sciolgono le scorie del peccato incrostate nell’anima. Questo stato di perenne metanoia deve essere accompagnato dalla scrupolosa osservanza dei comandamenti divini, anche la minima trasgressione può vanificare interamente l’opera già compiuta. Per Simeone, come già prima di lui per Isacco il Siro[41], le lacrime di purificazione, zampillate da un lacerante pentimento interiore, ottengono da Dio il perdono dei peccati e la percezione spirituale di essere ammessi sin d’ora al banchetto celeste. Grazie alla loro opera benefica esse rendono fertili gli aridi giardini dell’anima, trascurati per troppo tempo per l’opacità che li aveva resi impenetrabili. Le lacrime di purificazione sostituiscono l’aridità spirituale e la devastazione interiore con la tenerezza del cuore e i frutti della contemplazione. Da loro scaturisce l’ardore della carità, il quale compenetra sensibilmente tutta l’interiorità, rendendo il cuore umano ricettivo ai doni divinizzanti dello Spirito. Egli scrive:

Il pentimento fa sgorgare le lacrime dalle profondità dell’anima: esse purificano il cuore e fanno scomparire i grandi peccati. Cancellatili con le lacrime, l’anima si trova nella consolazione dello Spirito divino, viene bagnata dalle correnti della soave compunzione e grazie ad esse, ogni giorno, spiritualmente fertilizzata, essa si nutre con i frutti dello Spirito […]. Quando attraverso lo zelo, l’anima si trova in tale condizione, essa è familiare con Dio e diviene l’abitazione della divina Trinità e il suo soggiorno, vedendo chiaramente il proprio Creatore e Dio e conversando con lui quotidianamente[42].

Nello stato metanico l’asceta deve cercare di abbassarsi, imitando l’umiliazione del maestro, e prendere la propria croce per imitare Cristo. Per questo si inoltra nel mondo del dolore causato dal peccato, scoprendo la nudità dello spirito, non ancora rivestito con l’abito nuziale, davanti a Dio. Il monaco pone a fondamento della sua esperienza l’umiltà, perché esercitandola si identifica con Cristo, e si percepisce, in virtù della rivelazione della grazia divina, il più piccolo dei fratelli, l’ultimo del mondo di fronte allo splendore abbagliante della maestà divina. «Si trova cioè senza paludamenti dato che l’ultimo del mondo non vive più il susseguirsi del tempo della storia, ma quello sovratemporale dell’eternità. L’asceta non appartiene a nessuna epoca, ma le attraversa tutte nascondendosi nella propria interiorità per non essere ferito dagli sguardi degli uomini»[43]. San Simeone insegna:

Prima dell’afflizione spirituale e delle lacrime non c’è conversione né vero pentimento né timore di Dio nei nostri cuori; non abbiamo accusato noi stessi e la nostra anima non ha ancora la percezione del giudizio futuro e dei tormenti eterni. Se avessimo accusato noi stessi e la nostra anima e avessimo acquistati questi sentimenti, e vi fossimo entrati, subito avremmo versato anche le lacrime, senza le quali la durezza del nostro cuore non può ammorbidirsi, né la nostra anima acquistare l’umiltà spirituale e noi non potremo diventare umili. E chi non è divenuto tale non può essere unito allo Spirito Santo; chi non è unito a lui in seguito alla purificazione non può pervenire alla contemplazione e alla conoscenza di Dio né è degno di essere misticamente istruito sulla virtù dell’umiltà[44].

Durante il cammino di riconversione del cuore, il timor di Dio e la paura del castigo eterno lentamente trasformano le lacrime del pentimento e dell’afflizione in lacrime di gioia, preludio spirituale dell’avvicinarsi dei doni della contemplazione e del raggiungimento dell’età adulta secondo Cristo. Per questo Simeone il Nuovo Teologo insegna ai suoi monaci:

Chi non avrà cercato di evitare e sfuggire la pena generata dal timore della punizione eterna, ma si disporrà col cuore ad averla come compagna e stringerà per sé ancora di più i suoi vincoli, proporzionatamente compirà più in fretta il cammino e si presenterà dinanzi al Re dei re. A questo punto al primo contemplare, ancora indistintamente la sua gloria, subito si scioglieranno i vincoli, il timore che lo torturava fuggirà lontano da lui e la pena del suo cuore si muterà in gioia, e diverrà per i sensi una fonte zampillante lacrime come un fiume perenne, e, per lo spirito, tranquillità, mitezza e dolcezza indicibili, e ancora fortezza e il correre liberamente e senza impedimento, in ogni obbedienza dei comandamenti di Dio; cosa fino allora impossibile ai principianti e propria di coloro che sono già a metà sulla via del progresso; per i perfetti, invece, questa fonte diviene luce del cuore, così mutato e trasformato[45].

Per Simeone l’esercizio dell’umiltà e la condizione kenotica sono generati da un amore infinito nei riguardi del cosmo, il quale vive nel dolore lacerante del peccato causato dall’uomo. La pratica dell’abbassamento (kenosis), una volta portata a termine, segna il trionfo della croce nelle profondità del cuore dell’asceta e gli apre la porta verso la contemplazione luminosa di cui si è reso degno cristificandosi. Infatti, la realizzazione delle virtù cristiane – fede, speranza e carità – gli restituiscono la perfezione e la purezza dell’immagine divina, traguardi spirituali in cui l’uomo carnale è totalmente sconfitto in tutte le sue multiformi passioni. L’asceta, vedendo Cristo (unico volto visibile del Padre) in se stesso, lo vede anche in tutti gli altri uomini, soprattutto nei poveri di spirito, cioè di false ricchezze, e nei bisognosi. Per questo motivo per Simeone rifiutare un fratello bisognoso significa rifiutare Dio, perché Cristo, avendo assunto nella sua vita terrena il volto di ogni povero e di ogni sofferente, attraverso loro, è ancora in mezzo a noi, affinché nessun uomo si innalzi al di sopra di un altro[46]. L’uomo cristificato vive avvolto dalla tranquillità che proviene dal suo essere più profondo, dall’apàtheia, ricompensa divina per l’impietosa lotta ascetica compiuta. Quando l’asceta vive in questa condizione, pregusta sin d’ora i sapori e le delizie del banchetto celeste, perché può godere della contemplazione (theorìa) divina, manifestazione e partecipazione delle energie divinizzanti della Sovraessenzialità. L’esperienza mistica, autentico criterio per la certezza della santità, trova quindi la sua realizzazione principalmente nell’apàtheia. Infatti Simeone sostiene:

Colui che ha raggiunto la pienezza della perfezione è morto senza esserlo, poiché vive in Dio e a lui è unito come se non vivesse più per se stesso. È cieco perché non vede più con gli occhi terreni; ha superato ogni visione naturale, perché ha acquisito degli occhi nuovi e vede al di là del limite della natura. Egli rimane in se stesso senza alcuno sforzo, senza movimento, perché non è posseduto da alcun bisogno. Non è più tormentato dai pensieri, perché ha raggiunto l’unione con Colui che li oltrepassa e si riposa dove non c’è più attività dell’intelletto, cioè nessun movimento dovuto alla riflessione, al ragionamento e alla concettualizzazione. Infatti, egli è incapace di pensare l’impensabile e l’inconcepibile, dato che si trova in una condizione di quiete, ossia di immobilità nella sensazione prodotta dalle delizie e dai beni indicibili[47].

Nella contemplazione il monaco scorge e apprende la vera teologia, l’unica possibile: l’esperienza personale di Dio per partecipazione, sebbene egli rimanga inconoscibile, attraverso le energie divine fecondanti vivificanti. L’esperienza mistica intima del divino nel cuore purificato è il perno attorno a cui ruota tutta l’esistenza di Simeone. Egli per difenderla entrò in polemica; con i suoi detrattori, i quali pensavano che la strada da lui intrapresa fosse troppo radicale e li accusò di eresia perché nelle loro argomentazioni sostenevano la convinzione che la chiesa non possedesse più la pienezza dei doni carismatici dei primi secoli, tesi per lui inconcepibile; se così fosse, la chiesa non possederebbe più la pienezza dello Spirito concessale fino alla fine dei tempi dal giorno della prima Pentecoste. Secondo Simeone, nella visione Dio si manifesta nella sua semplicità e l’inabitazione dello Spirito Santo nel cuore purificato rivela sensibilmente la presenza trinitaria. Anche l’anima deve essere semplice perché così ritorna allo stato edenico. Si realizza così interiormente il dogma fondamentale del concilio di Calcedonia (451), il quale aveva posto in relazione la natura divina e quella umana di Cristo, mettendo l’accento sul carattere esperienziale di questa verità: per analogia l’uomo deificato realizza in se stesso il mistero dell’Incarnazione[48]. Infatti, il divino e l’umano si uniscono senza essere separati originando nell’anima umana quel processo di deificazione che rende fattibile la partecipazione dell’intelligenza umana a quella di Cristo, perché, come diceva Paolo, Non sono più io che vivo in me, ma è Cristo che vive in me (Gal 2, 20). La deificazione, perciò, grazie alle operazioni della grazia, pneumatizza l’essere umano nella sua totalità, poiché questi interiormente ha raggiunto quel grado di perfezione che lo rivela al mondo come un’icona di Cristo, e quindi come luogo di preghiera. «Nei suoi numerosissimi scritti Simeone esprime in immagini vissute – sottolinea J. Meyendorff – l’essenziale dell’esperienza cristiana: la comunione con l’Incomunicabile e la conoscenza dell’Inconoscibile, rese possibili dall’Incarnazione del Verbo che trae la creatura dal peccato e le accorda la vita divina»[49]. Simeone il Nuovo Teologo, aderendo a una mistica così fortemente cristocentrica, evidenziava nel suo insegnamento l’importanza dei sacramenti, particolarmente del battesimo e dell’eucaristia. Però «Simeone, unico fra i mistici ortodossi del medioevo, parla apertamente della sua esperienza personale e intima, descrivendo le sue visioni, non teme di opporre l’evento spirituale della mistica a certe istituzioni tradizionali della chiesa»[50].

 

5. Simeone il Nuovo Teologo e l’Esicasmo

Una tradizione molto antica tramandata da san Gregorio il Sinaita (1255-1346), e giunta sino a noi, attribuisce all’abate di San Mamas un’opera intitolata Metodo della preghiera e dell’attenzione. È stato dimostrato da padre I. Hausherr, curatore della edizione critica del testo[51], che questo scritto non appartiene a Simeone, bensì a un autore più tardo, forse Niceforo l’Athonita (XIII secolo). Anche se la paternità di quest’opera non gli può essere attribuita, tuttavia essa riflette quel clima mistico che Simeone aveva creato attorno a sé col suo straordinario cristocentrismo. Il Metodo è uno scritto in cui l’anonimo autore cerca di combinare, seguendo i consigli di san Giovanni Climaco, l’invocazione del Nome di Gesù con la respirazione. Infatti, l’austero asceta sinaitico aveva raccomandato ai suoi monaci zelanti «che la memoria di Gesù sia unita al tuo respiro, così conoscerai l’hesychia e la sua utilità» (27, 62). «La preghiera di Gesù – come è descritta nel Metodo – non sarebbe stata attribuita a Simeone il Nuovo Teologo in modo unanime e costante, se negli ambienti monastici, nei quali il ricordo di Simeone era particolarmente vivo, non avessero percepito una stretta corrispondenza tra questa preghiera e quella dell’igumeno di San Mamas […]. Bisogna osservare che Simeone, pur riservandosi alla vita studita, si era impregnato di quella spiritualità sinaitica nella quale il Nome di Gesù occupa un posto di privilegio; questa influenza sinaitica fu d’altronde una delle cause delle difficoltà che Simeone trovò nei suoi rapporti con l’ambiente studita»[52], come è già stato rilevato. Il Metodo descrive per i principianti tre pratiche di preghiera per innalzare lo spirito, dopo aver realizzato e raggiunto la quiete interiore, dal mondo creato e poi decaduto, a quello increato. L’asceta prima di pervenire a ulteriori gradi dell’orazione deve affinare la propria attenzione, per impedire in seguito che i pensieri e le immagini estranianti della mente si insinuino nel silenzio del cuore, attraverso la preghiera salmodica prima e quella monologica poi, perché:

L’attenzione e la preghiera vere e senza inganno si hanno quando la mente mantiene il cuore fisso nella preghiera in modo che essa si aggiri al suo interno e da quella profondità invia le sue suppliche al Signore[53].

La preghiera interiore, cuore dell’esicasmo, conduce l’orante all’hesychia, dopo che questi ha soggiogato le indomabili passioni e l’immaginazione generatrice del pensiero girovago. Per questo motivo l’asceta vive appartato, lontano dai rumori fuorvianti, e rinchiuso nella sua cella a coltivare l’impassibilità raggiunta. Come insegnava Isacco il Siro, le cui opere erano conosciute e meditate da Simeone:

Le fatiche e il lavoro ascetico aiutano l’anima a raggiungere la liberazione dalle passioni, mortificano le membra che sono sulla terra, danno pace di pensiero quando, raggiunto il silenzio, cessa il turbamento dei sensi esteriori. Né altra via esiste per raggiungere la pace. Può seccare la radice dell’albero innaffiato ogni giorno? Può mancare l’acqua dalla brocca se ogni giorno vi viene rimessa? Quando l’uomo raggiunge il silenzio, allora l’anima può facilmente discernere le passioni: l’uomo interiore si sveglia all’opera dello Spirito e, di giorno in giorno, avvicina l’anima sua alla perfetta mondezza di cuore[54].

Perciò l’autore del Metodo invita l’orante a rinchiudersi in un appartato ritiro durante la preghiera:

Chiuditi in una cella tranquilla e in un angolo solitario e fa’ attenzione a compiere tutto quanto ti dico: chiudi la porta e innalza la tua mente al centro del ventre, cioè all’ombelico, quindi trattieni l’inspirazione d’aria delle narici in modo da non respirare liberamente e indaga mentalmente all’interno delle viscere per trovare il «luogo del cuore» dove per natura amano intrattenersi le potenze dell’anima. Dapprima troverai un buio e uno spessore irremovibile, ma poi, se persevererai nel compiere questo lavoro, o meraviglia! Troverai una gioia senza fine[55].

In questo stato di quiete e di tranquillità interiore il cuore rimane puro e vivo nell’esultanza spirituale scaturita da una sovrabbondanza di amore, frutto dell’illuminazione divina elargita dallo Spirito consolatore. Per raggiungere la pace interiore e il silenzio della mente, presupposti necessari per vivere nella condizione esicasta, lo Pseudo-Simeone consiglia:

Come quando si costruisce una casa noi facciamo prima le fondamenta, poi il corpo della costruzione e su questo il tetto, così dovrai intendere anche queste cose. Prima di tutto, custodendo il cuore e facendone diminuire le passioni, gettando il fondamento spirituale della casa; poi, respingendo con la seconda attenzione la tempesta dei venti cattivi che si leva per via delle sensazioni interne, sfuggiamo più rapidamente alla guerra ed eleviamo ora le fondamenta le mura della casa spirituale; infine, con l’inclinazione perfetta verso Dio, cioè l’anacoresi, stendiamo il tetto della casa e così contempliamo la casa spirituale in Cristo nostro Signore[56].

Bisogna tener presente, per non assumere mentalmente limitanti pregiudizi, che l’autore del Metodo della preghiera e dell’attenzione non propone, come alcuni hanno impropriamente sostenuto, uno yoga cristiano, perché «la pratica psico-fisica della preghiera esicasta, largamente impiegata soprattutto dai principianti, non deve svuotare il cuore, ma riempirlo dell’immagine luminosa e divina che racchiude la pienezza della presenza di Dio. Il corpo, in questa pratica ascetica, occupa un posto rilevante, perché partecipa dei moti impercettibili dell’anima, e si trasfigura nel suo itinerario verso la perfezione. Dato che Dio ha assunto la carne umana per salvare gli uomini dal peccato, gli uomini devono assumere la carne divina e spiritualizzarsi, affinché il corpo divenga il tempio che custodisce la divinità. In questo modo il corpo congiuntamente all’anima partecipa delle manifestazioni della vita divina, la quale lo riempie facendolo divenire cristoforo, cioè portatore di Cristo»[57]. L’uomo trasfigurato restaura, così, la luminosa immagine divina primigenia oscurata dall’orgoglio di Adamo e diviene simile al suo Prototipo divino.

Anche se non si può più attribuire il Metodo della preghiera e dell’attenzione a san Simeone il Nuovo Teologo, non per questo dobbiamo escludere l’abate di San Mamas dal grande movimento esicasta che tuttora lo considera uno dei suoi più grandi profeti. È doveroso considerare che egli durante la sua formazione spirituale aveva nutrito la sua più profonda interiorità con la lettura delle opere ascetiche dei grandi maestri sinaiti quali Giovanni Climaco ed Esichio, molto meditate negli ambienti esicasti del tempo, come pure anche oggi. Alcuni momenti della vita interiore narratici da Simeone, inoltre, manifestano caratteri comuni con la vita esicasta, come ad esempio quando scopre, e realizza, la vita cristiana quale esperienza e partecipazione umana del divino. Simeone, con i suoi lirici scritti poeticamente ispirati, pur non possedendo il linguaggio puntuale e deciso di san Gregorio Palamas, si presenta purtuttavia come un suo importante precursore[58].

 

6. La fama di Simeone il Nuovo Teologo

La chiesa ortodossa celebra la festa di san Simeone il 12 marzo, giorno della sua morte, e il 3 gennaio ne commemora la cacciata in esilio al di là del Bosforo, avvenuta nel 1009. Tale festività non occupa un posto rilevante nel calendario ecclesiastico anche perché la memoria dell’igumeno di San Mamas venne per secoli coltivata solamente nell’ambito del movimento esicasta. Infatti, la fama di Simeone si accrebbe in conseguenza della definitiva vittoria dell’esicasmo (1351) e più tardi quando Nicodimo l’Aghiorita inserì alcuni suoi scritti nella raccolta di testi sulla preghiera del cuore intitolata Filocalia, stampata a Venezia nel 1782 nella tipografia della comunità ortodossa di San Giorgio dei Greci. Questi scrisse pure un Encomio di san Simeone il Nuovo Teologo e una acolutìa (ufficio), informandoci anche nel suo Synaxaristés che, a causa della quaresima, la festività del santo era stata posticipata al 12 ottobre[59].

Gli scritti di Simeone vennero pubblicati a stampa per la prima volta, sempre a Venezia nel 1790, solo otto anni dopo la prima edizione della Filocalia, a cura di Dionigi Zagorà, il quale nella sua raccolta diede alle stampe i testi di Simeone in prosa nella traduzione neogreca conservando nel testo originale gli Inni, per non far opera di volgarizzazione. Una seconda edizione apparve a Siros nel 1866.

Ai nostri giorni Simeone ha acquisito nuovamente una rilevante importanza all’interno della corrente mistica ortodossa, basti pensare che nei monasteri e nei romitaggi del monte Athos è ancora l’autore più letto e meditato. La sua influenza, però, non è rimasta limitata all’ambiente monastico, ma si è propagata anche in Occidente, come testimonia la diffusione dei suoi scritti e il moltiplicarsi di studi attorno alla sua figura[60].

RENATO D’ANTIGA

 

 

CRONOLOGIA ESSENZIALE

  949 – Nascita di Simeone a Galata di Paflagonia.

  963 – Sant’Atanasio fonda la Grande Lavra sul monte Athos.

  966 – Simeone entra come novizio nel monastero di San Giovanni di Studion a Costantinopoli.

  980 – Simeone viene eletto igumeno del monastero di San Mamas di Costantinopoli.

1005 – Simeone si dimette dalla carica di igumeno di San Mamas.

1003 – Polemica con il sincello patriarcale Stefano di Nicomedia.

1009 – 3 gennaio. Simeone viene cacciato in esilio.

1010 – Simeone restaura l’oratorio di Santa Marina a Crisopoli e fonda una nuova comunità monastica.

1022 – 12 marzo, morte di Simeone a Crisopoli.

1052 – Solenne traslazione del corpo di Simeone al monastero di San Mamas di Costantinopoli.

 

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

a) Fonti:

Cathéchèses, a cura di J. Paramelle, Sources Chrétiennes 96, 104, 113, Paris 1963, 1964, 1965.

Chapitres théologiques gnostiques et pratiques, a cura di J. Darrouzès, Sources Chrétiennes 51, Paris 1957.

Hymnes a cura di J. Korder, Sources Chrétiennes 156, 174, 196, Paris 1969, 1971, 1973.

Orationes XXXIII, a cura di J. Pontanus, PG 120, coll. 321-602.

Traités théologiques et éthiques, a cura di J. Paramelle, Sources Chrétiennes 122, 129, Paris 1966, 1971.

 

b) Studi:

Allatius, Diatriba de Symeonis scriptis, Paris 1664.

Biedermann H.M., Simeone il Nuovo Teologo (949-1022), in «Grandi Mistici», Dehoniane, Bologna 1987, pp. 115-131.

Chrestou P., Simeone il Nuovo Teologo, in «Enciclopedia religiosa e morale» (in greco), XI Atene 1967, coll. 537-545.

Grumel V., Nicola II Chrysobergès et la chronologie de la vie de Siméon le Nouveau Théologien, in «Revue des études byzantines», XXII (1964), pp. 253-254.

Krivocheine B., The Writing of St. Syméon the N. Th., in «Orientalia Christiana Periodica», XX (1954), pp. 298-328.

- La personalité spirituelle de St. Syméon le Nouveau Théologien, in Catéchèses, I, Paris 1963, pp. 15-54.

- Dans la lumière du Christ. St. Syméon le Nouveau Théologien. Vie. Spiritualité. Doctrine, Chevetogne 1980.

Petit L., La vie et les oeuvres de Syméon le Nouveau Théologien, in «Echos d’Orient», XXVII (1928), pp. 163-167.


 

[1] Per una visione più ampia del tempo in cui visse san Simeone il Nuovo Teologo cf. G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, pp. 238-271; di J.M. Hussey, Church and learning in the Byzantine Empire, 887-1185, Oxford 1937, e di G. Fedalto, Le chiese d’Oriente, Milano 1984, pp. 98-106.

[2] Ostrogorsky, o.c., p. 246.

[3] Primi cristiani della terra russa, testi scelti a cura di R. Maréchal, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 43-47.

[4] Per una più ampia conoscenza del monachesimo athonita cf. gli Atti del Convegno tenutosi a Venezia nel 1963, pubblicati col titolo Millenaire du Mont Athos (963-1963), Chevetogne-Venise 1963.

[5] Cf. la Vie de St. Athanase l’Athonite, Chevetogne 1963, pp. 58-60. Appartiene a questo periodo l’elaborazione della Vita Petri redatta da Nicola il Sinaita, tendente a dimostrare la superiorità della vita esicasta in rapporto a quella cenobitica. Quest’opera viene ripresa da san Gregorio Palamas nel XIV secolo con lo stesso scopo. Pietro l’Athonita rappresenta ancor oggi il perfetto modello del monaco che pratica l’hesychia.

[6] Appartenente, cioè, al monastero costantinopolitano di San Giovanni di Studion.

[7] Alto dignitario della corte imperiale.

[8] G. Ostrogorsky, o.c., pp. 264-265.

[9] Ivi, p. 269.

[10] La cronologia della vita di Simeone il Nuovo Teologo è tuttora oggetto di discussione. Si è qui accettata la datazione stabilita da padre I. Hausserr in Vie de Syméon le Nouveau Théologien, scritta dal suo discepolo N. Stethatos in «Orientalia Christiana», XII, 45, Roma 1928. D’ora in poi ci si riferirà a questa fonte semplicemente con Vita.

[11] Vita, 2.

[12] Vita, 3.

[13] Vita, 3.

[14] Vita, 3.

[15] De lege spirituali 69 (PG 65, col. 913). Marco l’asceta visse nel V secolo; non si posseggono notizie della sua vita, ma pare che prima di ritirarsi nel deserto palestinese sia stato igumeno di un monastero nei pressi di Ancira. Viene ricordato nel Codice 200 della Biblioteca del dotto patriarca costantinopolitano san Fozio. Cf. Filocalia, I, Gribaudi, Torino 1982, Pp. 172-227.

[16] Vita, 3; cf. anche la Catechesi XXII, 41-43, qui tradotta col titolo: Fede e illuminazione.

[17] Vita, 5.

[18] Catechesi XXII, 275-290.

[19] Vita, 8.

[20] Vita, 16.

[21] Il monastero di San Mamas si trovava nei pressi di quello di San Giovanni di Studion (Vita, 22); esso fu fondato nel VI secolo sotto il regno dell’imperatore Maurizio. Per la storia di questo monastero cf. R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’Empire Byzantin, I parte, Paris 1953, pp. 325-331.

[22] Vita, 34.

[23] Catechesi I. Qui tradotta con il titolo: La carità.

[24] Catechesi XII, 227-229.

[25] Stefano di Nicomedia probabilmente è l’autore del Menologio di Basilio II, testo in cui venne riordinato il culto dei santi a Costantinopoli.

[26] Vita, 87.

[27] Vita, 95.

[28] Vita, 108.

[29] L’ostinazione degli studiti nei confronti della gerarchia ecclesiastica si è sempre manifestata quando essa era troppo accondiscendente nei riguardi del potere terreno, secondo gli insegnamenti dell’abate san Teodoro lo Studita (IX secolo). Il monastero di San Giovanni di Studion, famoso per il suo Scriptorium, venne fondato dal patrizio Studio, nel 463, non lontano dalla Porta Aurea. I resti sono tuttora visibili nel più totale abbandono.

[30] Vita, 137-140.

[31] Cathechèses, a cura di J. Paramelle, Sources chrétiennes, 96, 104, 113, Paris 1963-1964.

[32] H. M. Biedermann, Simeone il Nuovo il Teologo, in AA.VV., I grandi mistici, Dehoniane, Bologna 1987, p. 121.

[33] Traités théologiques gnostiques et pratiques, a cura di J. Darzouzès, Sources chrétiennes, 51, Paris 1957.

[34] Traités théologiques et éthiques, a cura di J. Paramelle, Sources chrétiennes, 122, 129, Paris 1966, 1971.

[35] Hymnes, a cura di J. Koder, Sources chrétiennes, 156, 174, 196, Paris 1969, 1971, 1973.

[36] Orationes XXXIII, a cura di J. Pontanus, PG 120, coli. 321-602.

[37] Cf. E. Des Places, Diadoque de Photicé, Euvres spirituelles, Paris 1966, pp. 28-29; 80-81; 180-183. Di questo dialogo, attribuito invece da B. Krivocheine a Simeone, si può leggere la versione latina inserita in PG 120, coll. 709-712.

[38] Filocalia, III, Gribaudi, Torino 1985, p. 349.

[39] Passo tratto dalla prima Catechesi, qui tradotta col titolo: La carità.

[40] Filocalia, III, p. 352; cf. I. Hausherr, Direction spiriluel en Orient, in «Orientalia Christiana Analecta», 144, Roma 1955.

[41] Discorsi ascetici, I, a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, Città Nuova, Roma 1984, p. 280.

[42] Filocalia, III, pp. 352-353.

[43] Citazione tratta dal mio articolo La follia della carità, in «Palestra del clero» 6 (1990), p. 496. Cf. M. St. Tarangul, Le dernier du monde, in «Contacts» 134 (1986), pp. 108-127.

[44] Filocalia, III, pp. 363-364.

[45] Ivi, p. 364.

[46] III Centuria, 96.

[47] Ivi, 19.

[48] E. Behr-Sigel, Le lieu du coeur, Cerf, Paris 1989, p. 46; cf. B. Krivocheine, Dans la lumière du Christ. St. Syméon le Nouveau Théologien. Vie. Spiritualité. Doctrine, Chevetogne 1980.

[49] San Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Gribaudi, Tonno 1976, p. 30.

[50] Ivi, p. 28.

[51] Cf. I. Hausserr, La Méthode de l’oraison hésychaste in «Orientalia Christiana Analecta» IX (1927), pp. 150-172; IDEM, Note sur l’inventeur de la méthode hésychaste, in «Orientalia Christiana Analecta» XX (1930).

[52] Un monaco della Chiesa d’Oriente, La preghiera di Gesù, Morcelliana, Brescia 1964, p. 37.

[53] Le citazioni del Metodo sono tratte dall’antologia di M. Rozzi, La spiritualità dell’Oriente cristiano, Studium, Roma 1981, p. 109.

[54] Filocalia (piccola), a cura di G. Vannucci, ed Fiorentine, Firenze 1963, p. 248.

[55] Paparozzi, o. c., p. 111.

[56] Ivi, p. 114-115.

[57] Citazione tratta dal mio articolo Il metodo psicofisico nella preghiera esicasta, in «Quaderni di scienze antropologiche», 15, Padova 1989, p. 315.

[58] B. Krivocheineb, o.c., p. 170.

[59] Nicodimo l’Aghiorita, Synaxaristés, II, Venezia 1819, p. 210, nota 2.

[60] Nel mondo cattolico Simeone venne a lungo guardato con sospetto, nonostante il parere positivo sulla sua dottrina espresso dal gesuita Pontanus (†1542), il quale tuttavia non lo incluse nell’elenco dei santi nell’erronea convinzione che fosse vissuto in un periodo posteriore allo scisma del 1054.

 

 

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