Léonide Ouspensky

 

Il senso dogmatico dell’icona

 

 

 

Ø     L’Icona, teologia ispirata.

Ø     L’Icona, trasmissione oggettiva della Rivelazione.

Ø     L’Icona, visione del mondo spirituale.

Ø     L’Icona, realtà del regno.

 

 

L’interesse per l’arte liturgica ortodossa, in particolare per l’icona, non finisce di aumentare in Occidente. I libri, le conferenze, gli articoli, le mostre, le collezioni si moltiplicano. Tutti questi sforzi hanno, certamente, il merito di rivelare a molti l’esistenza di un modo di esprimersi rimasto quasi sconosciuto al pubblico occidentale. Tuttavia, la maggior parte delle opere dedicate all’arte liturgica ortodossa è costituita da opere laiche che trattano un soggetto religioso: relegano questa arte o negli ammirevoli ricordi dell’archeologia o nella sfera dell’estetica pura, riconducendola così ad uno solo dei suoi aspetti, l’aspetto umano – il suo valore artistico, le influenze reciproche degli stili, delle scuole, etc…

Gli ortodossi che vivono e si nutrono spiritualmente di questa arte vedono, nell’atteggiamento generale verso di essa, una grande incomprensione di ciò che vi è di essenziale

 

 

Ø     L’Icona, teologia ispirata.

L’icona è una santa immagine e non una «immagine santa» o una immagine devota. Ha un suo carattere che le è proprio, i suoi canoni particolari e non si definisce attraverso l’arte del secolo o di un genio nazionale, ma attraverso la fedeltà al suo destino che è universale. È un’espressione dell’economia divina, sintetizzata nell’insegnamento della Chiesa ortodossa: “Dio è diventato uomo affinché l’uomo diventasse dio”. L’importanza che la Chiesa attribuisce all’icona è tale che la vittoria sull’iconoclastia fu dichiarata solennemente Trionfo dell’Ortodossia, trionfo che viene sempre festeggiato nella prima settimana della Grande Quaresima.

Per la Chiesa ortodossa l’immagine, così come la parola, è un linguaggio che esprime i suoi dogmi e il suo insegnamento. È una teologia ispirata, presentata in forma visiva. È lo specchio che riflette la vita spirituale della Chiesa, che permette di giudicare sulle lotte dogmatiche di una o di un’altra un’epoca. Le epoche della fioritura dell’arte liturgica corrispondono sempre ad uno sforzo della vita spirituale: fu il caso di Bisanzio, degli altri paesi ortodossi e dell’Occidente in epoca romana. In quei momenti, la vita liturgica si è realizzata pienamente nel suo insieme armonico così come in ciascuno dei suoi campi particolari.

Tuttavia, l’immagine non si limita ad esprimere la vita dogmatica e spirituale della Chiesa, la sua vita interiore. Attraverso la Chiesa, l’immagine riflette anche la civiltà che la circonda. Questa arte, legata da suoi creatori al mondo di quaggiù, è così uno specchio della vita del popolo, del tempo, dell’ambiente e pure della vita personale dell’artista. E così in qualche modo è anche la storia del paese e del popolo. Perciò, una icona russa, pur avendo la stessa iconografia di una icona bizantina, è diversa da questa per i suoi tipi ed il suo carattere nazionale: una icona di Novgorod non somiglia affatto ad una icona di Mosca, etc… È precisamente questo aspetto esterno dell’arte sacra ad essere oggetto della maggior parte degli studi attuali.

Il contenuto liturgico dell’immagine sacra si perdette in Occidente nel secolo XIII e nel mondo ortodosso, a secondo dei paesi, nei secoli XV, XVI e XVII. Soltanto verso la fine del secolo XIX gli studiosi, i dotti, gli esteti scoprirono l’icona. Ciò che prima sembrava una macchia scura, infagottata con un ricco rivestimento dorato, apparve improvvisamente nella sua miracolosa bellezza. Gli antenati iconografi si rivelarono non solo pittori geniali, ma maestri di vita spirituale, che hanno saputo dare forme alla parola del Signore: il mio regno non è di questo mondo (Giovanni 18, 36).

Ebbene, la mancata comprensione di questa arte non è dovuta a superiorità, né a perdita della sua forza vitale o della sua importanza, ma alla nostra profonda decadenza spirituale. Per non parlare di coloro che sono completamente al di fuori della Chiesa, siamo, anche tra i credenti, di fronte ad un peccato essenziale dei nostri tempi: la secolarizzazione dello spirito, la deformazione completa dell’idea stessa della Chiesa e della Liturgia.

Si può dire in via generale che oggi della vita spirituale non si vede più che il suo lato morale. Il suo fondo dogmatico, divenuto campo esclusivo dei “sapienti teologi”, è considerato come una scienza astratta e non ha più alcun rapporto con la realtà della nostra vita quotidiana. Per quanto riguarda la Liturgia, guida infallibile del cammino spirituale, professione della nostra fede, per molti è solo un rito tradizionale oppure una pia e commovente usanza. L’unità organica del dogma e della legge morale nella Liturgia si è spezzata, disgregata. Questa assenza di unità interna distrugge la pienezza liturgica degli uffici divini. Gli elementi che li compongono e di cui non cogliamo più lo scopo comune – la parola, il canto, l’immagine, l’architettura, la luce, etc…– se ne vanno, ciascuno per la propria via, alla ricerca del loro senso proprio e dei loro effetti particolari. A tenerli insieme sono rimasti la moda dell’epoca (barocca, classica, etc…) o il gusto personale. Perciò, l’arte della Chiesa non vive più della rivelazione dello Spirito Santo, della vita dogmatica della Chiesa, ma si nutre della civiltà di questo o quel momento storico. Non insegna più; cerca e brancola con il mondo.

Si sentono spesso voci indignate che protestano contro le immagini sdolcinate e sentimentali “Genere Sulpiziano”, o contro brani di concerto che vengono a sostituire il canto liturgico. Non si tratta, come si ammette correntemente, di una decadenza del nostro gusto. Il guaio del nostro tempo è dato dal fatto che il gusto personale, buono o cattivo che sia, viene ammesso generalmente come criterio nella Chiesa, essendo andato perduto il criterio oggettivo.

 

Ø     L’Icona, trasmissione oggettiva della Rivelazione.

Per cogliere il significato e il contenuto dell’arte sacra, in particolare dell’icona, cominciamo a studiare brevemente l’insieme di cui essa è solo una parte: da un lato la chiesa e il suo significato simbolico e dall’altro l’atteggiamento della Chiesa ortodossa di fronte all’arte.

Il principio ortodosso della costruzione delle chiese si basa sulla tradizione tramandata dai Padri. Ebbene, la tradizione non è un principio conservatore: è la vita stessa della Chiesa nello Spirito Santo. È la rivelazione divina che continua a vivere. All’esperienza di chi la riceve e trasmette, si aggiunge l’esperienza di colui che la vivrà dopo di lui. Perciò, l’unità della verità rivelata coabita con la pluralità dei comprendimenti personali.

Nel secondo Trattato in difesa delle sante icone, san Giovanni Damasceno dice: “La Legge e tutto ciò che fu costituito con la Legge (l’Antico Testamento) era una sorta di prefigurazione dell’immagine che doveva venire, cioè il nostro attuale culto. Il culto che attualmente rendiamo è una immagine dei beni che dovranno venire. Per quanto riguarda gli stessi oggetti, essi rappresentano la Gerusalemme celeste, immateriale che, seguendo la parola dell’Apostolo, non è fatta da mano umana: Quaggiù non abbiamo dimora permanente, ma cerchiamo quella futura (Ebrei 13, 14) cioè la Gerusalemme celeste, il cui architetto e costruttore è Dio (Ebrei 11, 10). Una chiesa, con tutto ciò che essa contiene, è dunque l’immagine dei “beni futuri”, della Gerusalemme celeste”.

Secondo i Padri liturgisti, ed in particolare san Germano di Costantinopoli, grande confessore dell’Ortodossia nel periodo iconoclasta, “la chiesa è il cielo sulla terra, dove abita e vive Dio che è più alto del cielo”. “Essa è stata prefigurata nella persona dei patriarchi, annunciata in quella dei profeti, fondata in quella degli Apostoli, ornata in quella dei vescovi, santificata in quella dei martiri…”. “Essa è l’immagine della Chiesa divina e rappresenta ciò che è sulla terra, ciò che è in cielo e ciò che supera il cielo” (san Simeone di Salonicco). “Il nartece – precisa il santo – corrisponde alla terra, la navata al cielo e il tabernacolo a ciò che è più alto del cielo”.

Così, per i Padri, la chiesa è il nuovo cielo e la nuova terra, il mondo trasfigurato, la pace futura, dove tutte le creature si riuniranno nell’ordine gerarchico attorno al loro Creatore.

Su questa immagine si basano la costruzione e la decorazione delle chiese. Sono due simboli dogmatici che si limitano a fissare i principi generali essenziali. I Padri non prescrivono alcun stile architettonico, non indicano come adornare l’edificio, né in che modo devono essere dipinte le icone. Tutto questo deriva dall’idea generale della Chiesa e segue una regola d’arte analoga alla regola liturgica. In altre parole, si ha uno schema generale assai nitido e chiaro che guida i nostri sforzi, lasciando completa libertà all’azione dello Spirito Santo su di noi.

A fondamento del principio che definisce l’aspetto della chiesa, la forma degli oggetti e la loro collocazione, il carattere dei canti liturgici c’è dunque l’immagine del mondo trasfigurato, che regola l’ordine dei soggetti della decorazione, così come l’aspetto esterno dell’immagine.

È chiaro che tale concetto di chiesa richiede una perfetta armonia di tutti gli elementi che la formano, cioè la loro unità e pienezza liturgica. L’architettura, l’immagine, il canto, tutto deve ricordare al fedele che si trova in un luogo sacro. Ogni parte dell’edificio, attraverso il suo aspetto, deve mostrargli il suo senso e la sua destinazione.

Per formare un insieme armonico, ogni elemento che compone una chiesa deve, innanzi tutto, essere subordinato all’idea generale e rinunciare pertanto ad ogni ambizione di avere un ruolo proprio, di valere per se stesso. L’immagine, il canto cessano di essere arti aventi ciascuno la propria vita, indipendente dalle altre arti, per diventare forme variegate che esprimono, ciascuna a proprio modo, l’idea generale della chiesa, universo trasfigurato, prefigurazione della pace futura. Questa via è la sola in cui ogni arte, formando parte di un tutto armonico, possa acquistare la pienezza del proprio valore ed arricchirsi infinitamente di un contenuto sempre nuovo.

Questa armonia che fa della chiesa e del servizio divino un tutto omogeneo realizza, nell’ambito che le appartiene, quella «unità nella diversità» e quella «ricchezza nell’unità», che esprimono, nell’insieme ed in ciascun dettaglio, il principio di cattolicità della Chiesa ortodossa.

Perciò, l’arte della Chiesa, per sua essenza, è un’arte liturgica. Non solo essa serve da quadro al servizio divino e lo completa, ma gli è perfettamente conforme. L’arte sacra e la Liturgia formano un tutt’uno, tanto per il contenuto quanto per i simboli che servono ad esprimerlo. L’immagine deriva dal testo, da questo essa prende in prestito i propri temi iconografici e il modo di esprimerli.

La corrispondenza perfetta dell’immagine al testo è stato il principio dell’arte sacra, sin dai primi secoli del cristianesimo. Nelle catacombe e nelle prime chiese, non vediamo mai immagini di carattere aneddotico o psicologico. Come la Liturgia, esse uniscono la realtà più concreta ad un simbolo profondo.

Ebbene, ciò che vediamo nelle chiese sovente è ben lontano da ciò che dovrebbe essere l’arte liturgica. C’è confusione fra due cose assolutamente distinte: la santa immagine e l’immagine santa, cioè tra l’arte liturgica e quella che comunemente chiamiamo arte “religiosa”, arte che, tanto per la sua essenza quanto per la sua destinazione, per la sua maniera di esprimersi e per il suo modo di trattare la materia, è un’arte profana avente soggetto religioso. A causa di questa confusione, l’arte sacra è stata quasi completamente esclusa dalle nostre chiese e sostituita dall’arte religiosa.

Questa arte è di concezione relativa e soggettiva: espressione di uno stato d’animo dell’artista e della sua devozione e non, come l’arte liturgica, trasmissione oggettiva della rivelazione. Essa riflette il mondo sensibile ed emotivo, concepisce Dio ad immagine dell’uomo. Non è più la Chiesa che insegna, ma la personalità umana che impone ai credenti le proprie ricerche individuali. Scopo dell’arte religiosa è procurare una certa emozione. Ebbene, l’arte liturgica non si propone di emozionare, ma di trasfigurare ogni sentimento umano.

Parimenti la concezione della bellezza, nell’arte religiosa, è completamente diversa da quella dell’arte liturgica. Per la Chiesa Ortodossa, la bellezza è l’abito regale di Dio trionfante: Il Signore regna, Egli si è vestito di splendore (Psalmo 92, 1). Sul piano umano, è il coronamento divino di un’opera, la corrispondenza dell’immagine al suo prototipo. Ebbene, nell’arte religiosa, come nell’arte profana, la bellezza ha un valore proprio in sé: è lo scopo dell’opera. Non è più la bellezza nel senso ortodosso del termine, ma piuttosto una deformazione di quella bellezza, che finisce nell’immagine del mondo decaduto, giungendo talora sino all’immagine del mondo decomposto (Picasso, i surrealisti…). Qui la bellezza dell’immagine è qualcosa di soggettivo, tanto per l’artista che l’ha creata quanto per lo spettatore che la osserva. Nella maniera di creare, come nella maniera di apprezzare, coscientemente o incoscientemente, si afferma la personalità umana. Questo è ciò che comunemente chiamiamo “libertà” (dell’artista).

Essa consiste in una espressione della personalità dell’artista, del suo io; la devozione personale, i sentimenti individuali, l’esperienza di tale o tal altra persona umana passano davanti rispetto alla testimonianza della verità oggettiva della rivelazione divina. In realtà, è il culto dell’arbitrarietà. E aggiungiamo pure che, in una immagine religiosa, questa libertà si esercita a spese della libertà degli spettatori: l’artista presenta ad essi la sua personalità che si colloca tra loro e la realtà della Chiesa. Questo non può causare altro che un rifiuto, e ciò che era destinato a stimolare la devozione dei credenti conferma i non credenti nella loro empietà. Un artista che, coscientemente o incoscientemente, si impegna in questa via è schiavo della sua emotività, delle sue impressioni sentimentali. L’immagine da lui creata perde inevitabilmente il suo valore liturgico. Anzi, la concezione individualistica dell’arte distrugge forzatamente la sua unità e priva gli artisti del legame che li unisce gli uni agli altri e alla Chiesa. La cattolicità cede il passo al culto del personale, dell’esclusivo, dell’originale.

Ben diverso è il cammino seguito dalla pittura liturgica ortodossa. È la via della sottomissione ascetica, della preghiera contemplativa. La bellezza di una icona, anche se compresa da ciascuno di coloro che la guardano in maniera personale, nella misura delle proprie possibilità, è espressa dall’artista oggettivamente, secondo il rifiuto del suo io, che si ritira dinanzi alla verità rivelata. La libertà, seguendo Simeone il Nuovo Teologo (Sermone 87), consiste nella “liberazione di ogni passione e desiderio di questo mondo e della carne”. È la libertà spirituale, quella di cui parla San Paolo : Là dov’è lo Spirito del Signore, là è la libertà (2 Corinti 3, 17). La qualità liturgica e spirituale dell’arte è proporzionata al grado di libertà spirituale dell’artista. Questa è l’unica via che conduce la personalità dell’artista alla pienezza della sua importanza reale.

Il compito del pittore di icone e quello del sacerdote hanno parecchi punti in comune. Secondo san Teodosio l’Eremita, ad esempio, “l’uno compone il Corpo e il Sangue del Signore e l’altro lo rappresenta”. Come il sacerdote, il pittore ha il dovere, nella sua arte, di metterci dinanzi alla realtà, lasciando a ciascuno la libertà di reagire in misura dei propri mezzi, secondo il proprio carattere e le circostanze

Un altro punto in cui l’arte liturgica si distingue essenzialmente dall’arte religiosa è il modo in cui tratta la materia. Anche qui, essa segue il principio essenziale della Chiesa. L’immagine del mondo trasfigurato, innanzi tutto, non potrebbe tollerare alcuna menzogna: essa è l’opposto dell’illusione, la verità per eccellenza. Per questo la materia, quando entra nella composizione, deve essere autentica. Occorre che il trattamento sia conforme alla materia in questione e che, da parte sua, la materia sia conforme all’uso dell’oggetto. È essenziale che l’oggetto non dia l’illusione di essere altra cosa diversa da quel che esso è. Perciò, nell’icona, lo spazio è limitato dalla superficie piana della tavola e non deve dare l’impressione artificiale di oltrepassarla.

Vediamo dunque che il principio stesso della creazione nell’arte liturgica è diametralmente opposto a quello dell’arte religiosa. Per questo un’immagine religiosa può essere interessante ed utile al suo posto, ma quel posto non è nella chiesa.

 

Ø     L’Icona, visione del mondo spirituale.

La portata dogmatica dell’icona viene formulata chiaramente dalla Chiesa durante il periodo iconoclasta dei secoli VIII e IX. Difendendo le immagini, la Chiesa ortodossa difendeva non solamente il loro ruolo didattico o il loro lato estetico, ma la base stessa della fede cristiana: il dogma dell’Incarnazione di Dio. Di fatto, l’icona di nostro Signore è insieme testimonianza della sua Incarnazione e della nostra confessione della sua divinità: “Ho visto l’immagine umana di Dio e la mia anima è salva”, dice san Giovanni Damasceno (Primo trattato in difesa delle sante icone, cap. 22).

Da un lato, rappresentando la Persona del Verbo incarnato, l’icona testimonia la realtà e la pienezza della sua Incarnazione; dall’altro, attraverso questa immagine sacra noi confessiamo che questo “Figlio dell’Uomo” è realmente Dio, la verità rivelata. Così, in san Pietro, che per primo confessò la divinità di Cristo, vediamo non una conoscenza naturale umana, ma una conoscenza di ordine superiore, secondo la parola di nostro Signore: Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli (Matteo 16, 17).

Lo slancio dell’uomo verso Dio, il lato soggettivo della fede, si incontra qui con la risposta di Dio all’uomo, una conoscenza spirituale oggettiva, espressa sia con la parola, sia con l’immagine. Così l’arte liturgica non è soltanto la nostra offerta a Dio, ma anche la discesa di Dio verso di noi, una forma in cui si opera l’incontro di “Dio con l’uomo, della grazia con la natura, dell’eternità con il tempo”. Le forme di questa interpenetrazione del divino e dell’umano sono perpetuamente trasmesse e sempre vive nella tradizione.

La tradizione nell’arte liturgica, come nella Chiesa stessa, si basa su due realtà: un avvenimento storico da un lato, e la rivelazione che oltrepassa i limiti del tempo dall’altro. È così che l’immagine di una festa o di un santo riproduce il più fedelmente possibile la realtà storica e ci riconduce al suo prototipo, se manca questo essa non è una icona. Da qui il potere delle immagini di operare miracoli, perché “i santi, nel corso della loro vita erano pieni dello Spirito Santo. Ugualmente dopo la loro morte, la grazia dello Spirito Santo dimora perpetuamente nelle loro anime, nei loro corpi sepolti, nel loro aspetto e nelle loro sante immagini” (san Giovanni Damasceno). Nel caso in cui non dovesse essere raggiunta una somiglianza fisica assoluta, la realtà storica viene espressa con simboli perfettamente adeguati. Per questo la Chiesa ortodossa non consente le immagini dipinte da un modello vivente a secondo l’immaginazione dell’artista. Una immagine simile, a parte la sua inevitabile menzogna, esprime solo il fatto che ad esempio san Pietro era un uomo e la Santa Vergine una donna. I concili prescrivono di dipingere come dipingevano gli antichi iconografi. Esistono, a tal proposito, raccolte che fissano i tratti iconografici di ogni santo.

Da un altro lato, un’immagine sacra non rappresenta solo un avvenimento storico o un essere umano tra gli altri: essa ci mostra di quell’avvenimento o di quell’essere umano il suo volto eterno, ci rivela il senso dogmatico e il rango nella catena degli avvenimenti salvifici dell’economia divina. Le immagini di nostro Signore e della Vergine, da sole, liberano la pienezza di quell’economia. Attraverso l’icona di un santo vediamo il suo posto e la sua importanza nella Chiesa, così come la sua maniera particolare di servire Dio come profeta, martire, apostolo, etc…, espresse mediante gli attributi iconografici i colori simbolici. Così l’icona, proprio come la Sacra Scrittura, ci mostra il termine supremo e il senso profondo di tutta la vita umana: vita di martire, vita contemplativa, attiva o altro. Essa ci rivela il cammino da seguire e i mezzi per compierlo e ci aiuta a scoprire il senso della nostra propria vita.

Come l’Evangelo, l’arte sacra è laconica. La Sacra Scrittura dedica solo poche righe ad avvenimenti che decisero della storia dell’umanità. L’immagine sacra ugualmente ci mostra solo ciò che è essenziale. I dettagli, qua e là, sono ammessi solo quando sono indispensabili e sufficienti, come ad esempio nel racconto e nell’immagine della Resurrezione, le bende che giacevano distese a terra e il sudario che avevano messo sul capo di Gesù, non accanto alle bende, ma piegato in un angolo a parte (Giovanni 20, 6-7).

Se l’icona supera i limiti del tempo non interrompe però i rapporti con il mondo, non si chiude in se stessa. I santi sono sempre rappresentati frontalmente o per tre quarti verso l’osservatore. Non sono quasi mai visti di profilo, anche nelle composizioni complicate, dove il loro movimento è diretto verso il centro della composizione. Il profilo infatti interrompe in qualche modo la comunione, è come un inizio di assenza. Lo si tollera nella rappresentazione dei personaggi che non hanno acquisito la santità, come ad esempio i pastori o i magi nell’icona della Natività di nostro Signore.

Questa assenza di profilo è una delle espressioni della relazione intima tra chi prega e il santo raffigurato. In una chiesa dove la decorazione, come abbiamo detto, non è un assemblaggio più o meno arbitrario di icone, ma forma in qualche modo una icona generale della Chiesa, la Liturgia, che significa “azione comune”, ingloba l’assemblea dei santi raffigurati e quella dei fedeli, i santi rivolti insieme verso di loro e verso il Signore, essendo oggetto di preghiera e mediatori presso Dio.

Se oggi abbiamo smesso di comprendere il messaggio che ci porta l’icona, il motivo è che abbiamo perduto la chiave del suo linguaggio. Questa chiave è il senso concreto e vivo della Trasfigurazione, idea centrale dell’insegnamento cristiano. Come diceva un vescovo russo del secolo XIX sant’Ignazio Braintchaninov, “è stata persa dagli uomini anche la conoscenza della capacità del corpo umano di essere spiritualmente santificato” (Saggio ascetico, vol. 1).

L’icona è esattamente la testimonianza di questa conoscenza concreta, vissuta della santificazione del corpo umano, della sua trasfigurazione. Allo stesso modo della parola, ma attraverso immagini visibili, essa ci mostra la creatura penetrata e deificata dalla grazia incerata. “L’uomo, la cui anima è divenuta tutta fuoco, trasmette ugualmente al suo corpo una parte della gloria acquisita interiormente, proprio come il fuoco materiale trasmette la sua azione al ferro” (san Simeone il Nuovo Teologo, Sermone 83).

Sant’Ignazio Briantchaninov descrive questo stato in un modo per noi più accessibile: «Quando la preghiera è santificata dalla grazia divina, l’anima intera è attratta verso Dio da una forza sconosciuta, che trascina con sé il corpo… A riempirsi di consolazione e felicità spirituali, nell’uomo nato a nuova vita, non è solo l’anima, o soltanto il cuore, ma anche la carne: la gioia di Dio vivente… Quando l’uomo prega veramente, grida: Signore chi può esserti uguale? Tu liberi il povero dai potenti che l’opprimono. Tu liberi l’infelice e l’indigente da coloro che gli portano via la preghiera e la speranza: provenendo i pensieri e le sensazioni dalla natura decaduta ed essendo procurati dai demoni».

Così, l’intero essere partecipa alla preghiera: il corpo, i sensi, i sentimenti, sono santificati dalla grazia. La dispersione abituale, “i pensieri e le sensazioni che provengono dalla natura decaduta” cedono il posto ad una preghiera concentrata, tutto si fonde nello slancio dell’uomo intero verso Dio. I nostri sensi rigenerati diventano altri. Ad essere rappresentato nell’icona è questo corpo trasformato. Ma ciò non vuol dire che il corpo umano divenga un’altra cosa diversa da quello che esso è. Al contrario, il corpo resta corpo e conserva tutte le particolarità fisiche della persona. Ma il cambiamento del suo stato viene rappresentato con tratti che, non essendo naturali, ci sono spesso incomprensibili.

L’icona è dunque, come abbiamo detto, una testimonianza della deificazione dell’uomo, della pienezza della vita spirituale, una comunicazione attraverso l’immagine di ciò che l’uomo è nello stato di preghiera santificata dalla grazia. Con l’aiuto di simboli, è in qualche modo pittura secondo natura, ma secondo la natura rinnovata. Essa è la via ed il mezzo; è preghiera in sé. Da qui la maestà dell’icona, la sua semplicità, la calma del movimento, da qui il ritmo delle sue linee e dei suoi colori che discende da una perfetta armonia interiore.

È opportuno precisare che questo stato di santificazione non va confuso con quello dell’estasi. Lo stato di estasi, infatti, non è unione della natura umana con Dio, esso non trasfigura la creatura. È una cesura dell’anima dall’organismo sensibile (raptus), una visione che capita talvolta ai principianti nella vita spirituale. Man mano che il principiante cresce nella grazia, la sua natura se ne penetra interamente; non è più abbagliato dalla visione del mondo soprannaturale; egli “conosce già da quaggiù, sin dalla vita presente, il mistero della sua deificazione” (san Simeone il Nuovo Teologo, Sermone 83, cap. 3)

Solo gli uomini che per esperienza personale conoscono questo stato possono creare immagini simili, rivelanti la partecipazione dell’uomo alla vita del mondo trasfigurato che egli contempla. E solo una simile immagine, autentica e convincente, può comunicarci il suo slancio verso Dio. Nessuna immaginazione artistica e nessuna perfezione tecnica possono qui sostituire la conoscenza positiva “proveniente dalla visione della contemplazione”.

È facile capire adesso perché tutto ciò che richiama la carne corruttibile dell’uomo e lo spazio fisico è contrario alla natura stessa dell’icona, poiché la carne e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio e la corruzione non eredita l’incorruttibilità (1 Corinti 15, 50).

Da tutto quello che è stato detto in precedenza non risulta affatto che soltanto i santi possano fare icone. La Chiesa è fatta di santi. Tutti ne facciamo parte con i sacramenti e questo ci conferisce il dovere, il diritto, l’audacia di camminare sulle orme dei santi. Ogni pittore ortodosso vivendo nella tradizione può fare icone autentiche. Ciò spiega l’esigenza della Chiesa, per quanto riguarda l’aspetto morale della vita dei pittori di icone. La pittura di icone non è solo un’arte, è una ascesi quotidiana. Ma la sorgente inesauribile che alimenta l’arte sacra è lo Spirito Santo attraverso l’intermediazione della Chiesa, mediante la contemplazione degli uomini, la cui preghiera è stata santificata dalla grazia divina. Per questo motivo la Chiesa Ortodossa, tra i diversi ordini di santi, dottori, martiri, etc…, ha un ordine di santi pittori di icone canonizzati per la loro arte.

 

Ø     L’Icona, realtà del regno.

Per concludere, riassumiamo. L’arte liturgica è teologia ispirata, espressa attraverso le forme, le linee e i colori. Essa contiene i tre elementi che formano la religione cristiana: il dogma, che essa confessa con l’immagine; l’insegnamento spirituale e morale, che essa traduce con il soggetto e il contenuto; il culto, di cui essa fa parte integrante.

Come nostro Signore sul Monte Tabor mostrò ai discepoli la verità del tempo futuro e li fece partecipi del mistero della sua Trasfigurazione “nella misura in cui ne erano capaci”, l’arte liturgica, mettendoci sotto gli occhi l’immagine di quella stessa verità del tempo futuro [il Regno di Dio venuto nella sua potenza (Matteo 16, 28; Marco 9, 1)], santifica tutto il nostro essere secondo le nostre capacità.

Dimenticando la capacità del corpo umano di essere santificato, si è arrivati ad applicare all’arte sacra le stesse misure e le stesse esigenze dell’arte profana, abbassando così il soprannaturale fino all’umano. L’uomo decaduto è diventato la misura di tutte le cose, anziché trovare nell’uomo l’immagine di Dio egli crea Dio a sua immagine.

Se al tempo dell’iconoclastia dei secoli VIII e IX, nella lotta per l’esistenza stessa dell’immagine, era il dogma dell’Incarnazione di Dio che veniva difeso, “Dio si è fatto uomo”, oggi, ad essere in gioco è lo scopo dell’Incarnazione: “Perché l’uomo diventi Dio”. L’iconoclastia dei nostri giorni, senza dubbio non cosciente, non tanto negazione dell’immagine quanto la sua sfigurazione, cioè la sua corruzione, una non comprensione della sua portata dogmatica e educatrice. Per lo più, l’immagine è considerata una cosa secondaria; la parola da sola viene ritenuta sufficiente. Si dimentica che nostro Signore non è solo il Verbo del Padre, ma anche l’Immagine del Padre e che, ai tempi remoti, la missione della Chiesa nel mondo veniva esercitata attraverso l’immagine così come dalla parola.

Lungi dall’essere per noi oggetto di diletto estetico o di curiosità scientifica, l’icona ha un significato teologico molto chiaro: essa, così come l’arte profana rappresenta la realtà del mondo sensibile ed emotivo, nella maniera vista personalmente dall’artista, rappresenta la realtà del Regno che non è di questo mondo, nella maniera in cui ce l’insegna la Chiesa. In altre parole, essa rappresenta, con l’aiuto dei simboli, questo stesso mondo sensibile ed emotivo, liberato dal peccato, trasfigurato e deificato.

 

Extrait des Mélanges de l’Institut orthodoxe français de Paris, IV, 1948.

Traduzione dal Francese del prof. G. M., luglio 2006

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