ESCATOLOGIA

di John Meyendorff

 

L’escatologia non può mai in verità essere considerata un capitolo separato della teologia cristiana perché essa qualifica il carattere della teologia nel suo insieme. Ciò è vero specialmente del pensiero cristiano bizantino… Non soltanto esso considera il destino dell’uomo – e il destino di tutta la creazione – come orientato verso un fine; questo orientamento è la caratteristica principale delle dottrine sacramentali, della sua spiritualità e del suo atteggiamento verso il «mondo». Oltre a ciò, seguendo Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore considera lo stesso fine ultimo come uno stato dinamico dell’uomo e dell’intera creazione: lo scopo dell’esistenza creata non è come pensava Origene, una contemplazione statica dell’«essenza» divina, ma un’ascesa dinamica di amore che non ha mai fine, perché l’essere trascendente di Dio è inesauribile, e che perciò contiene sempre cose nuove (novissima) ancora da scoprire mediante l’unione di amore.
        Ma lo stato escatologico non è soltanto una realtà del futuro; esso è già un’esperienza presente accessibile in Cristo mediante i doni dello Spirito. Il canone eucaristico della liturgia di Giovanni Crisostomo commemora la seconda venuta di Cristo insieme agli eventi del passato – la croce, la tomba, la risurrezione e l’ascensione. Nella presenza eucaristica del Signore il suo avvento futuro è già realizzato e il «tempo» è trasceso. Allo stesso modo tutta la tradizione della spiritualità monastica orientale si fonda sulla premessa che ora, in questa vita, i cristiani possono sperimentare la visione di Dio e la realtà della «deificazione». Questo forte rilievo dato a un’escatologia «già realizzata» spiega perché al cristianesimo bizantino manchi un senso di responsabilità diretta per la storia come tale; o se ammette questa responsabilità, esso tende a fare assegnamento su quelle istituzioni che la storia stessa può produrre, particolarmente l’impero cristiano. Lo stato cristiano, e non la chiesa come tale, assume una responsabilità per l’intera società ricevendo la direttiva e l’ispirazione dal vangelo cristiano. Ma il «movimento» dinamico che caratterizza la «nuova umanità in Cristo», e di cui la chiesa è responsabile, non è il movimento della storia, ma una crescita mistica in Dio nota soltanto ai santi. Questo movimento si compie certamente nella storia e può fino a un certo punto influenzare il processo storico, ma non appartiene alla storia, essenzialmente perché anticipa la fine della storia. Esso è in realtà il «movimento» della natura e dell’uomo naturale, ma l’umanità naturale – l’umanità come fu concepita e creata originariamente da Dio – presuppone comunione con Dio, libertà dal mondo, signoria sulla creazione e sulla storia. Deve quindi essere indipendente da ciò che il mondo intende come storia.                                                                   
        Nella sua esistenza storica la chiesa attende la seconda venuta di Cristo in potenza come il trionfo visibile di Dio nel mondo, e la trasfigurazione finale dell’intera creazione. L’uomo, centro e signore della creazione, sarà allora reintegrato nella sua situazione originaria che è stata corrotta dal peccato e dalla morte; questa reintegrazione implicherà la «risurrezione della carne» perché l’uomo non è soltanto un’«anima» ma un’unità psicosomatica, necessariamente incompleta senza il corpo. Infine la seconda venuta sarà anche un giudizio, perché il criterio di ogni giustizia
Cristo stesso sarà presente non soltanto «nella fede» per sollecitare la libera risposta dell’uomo, ma nella sua piena manifestazione e potenza.
       
Questi tre significati essenziali della parousia – trasfigurazione cosmica, risurrezione e giudizio – non sono oggetto di speculazione particolareggiata da parte dei teologi bizantini, ma costituiscono il centro stesso dell’esperienza liturgica bizantina. La festa della Trasfigurazione (6 agosto), una delle più splendide dell’anno liturgico bizantino, celebra nella «luce taborica» l’anticipazione escatologica della venuta di Cristo: «Oggi sul Tabor nella manifestazione della tua luce, o Verbo, luce inalterata della luce del Padre ingenerato, abbiamo visto il Padre come luce e lo Spirito come luce che illumina l’intera creazione»[1]. Nella notte pasquale la dimensione escatologica della risurrezione è ripetutamente proclamata: «O Pasqua grande e santissima, o Cristo! O Sapienza, Verbo e Potenza di Dio! Donaci di partecipare più intensamente di te nel giorno senza tramonto del tuo regno»[2]. La parousia come giudizio appare frequentemente nell’innologia bizantina, in particolare nel ciclo della quaresima, in cui anche l’amore attivo per il prossimo è spesso messo in evidenza dagli innografi: «Avendo appreso i comandamenti del Signore, seguiamo questa norma di vita: diamo da mangiare agli affamati, diamo da bere agli assetati, vestiamo gli ignudi, accogliamo gli stranieri, visitiamo i malati e i prigionieri, affinché colui che viene a giudicare tutta la terra possa dirci: venite, benedetti del Padre mio, ereditate il regno preparato per voi»[3].
        La sola occasione in cui i teologi bizantini furono costretti a sostenere dibattiti più sistematici e teorici sui temi dell’escatologia fu la controversia medievale sul purgatorio. La dottrina latina secondo cui la giustizia divina esige una riparazione per tutti i peccati commessi e, quando la «soddisfazione» non ha potuto essere data prima della morte, la giustizia sarebbe compiuta mediante il temporaneo «fuoco del purgatorio», fu inclusa nella professione di fede firmata dall’imperatore Michele VIII Paleologo e accettata al concilio di Lione (1274)
[4]. L’effimero accordo di Lione non suscitò un grande dibattito sull’argomento a Bisanzio, ma il problema fu nuovamente sollevato a Firenze e fu discusso per parecchie settimane; il decreto finale di unione che Marco di Efeso rifiutò di firmare conteneva una lunga definizione del purgatorio[5]. Il dibattito fra greci e latini, in cui Marco fu il principale portavoce dei greci, mostrò una radicale differenza di prospettiva. Mentre i latini assumevano come dimostrato il loro approccio legalistico alla giustizia divina – che secondo loro esige una riparazione per ogni atto peccaminoso –, i greci interpretavano il peccato non tanto in termini di atti commessi quanto in termini di una malattia spirituale e morale che doveva essere sanata dalla pazienza e dall’amore divini. I latini inoltre mettevano in evidenza l’idea di un giudizio individuale di ciascuna anima da parte di Dio, giudizio che divideva le anime in tre categorie: i giusti, i malvagi e quelli che appartengono a una categoria intermedia – che hanno bisogno di essere «purificati» dal fuoco. I greci a loro volta, senza negare un giudizio particolare dopo la morte o riconoscere l’esistenza delle tre categorie, affermavano che né i giusti né i malvagi avrebbero raggiunto il loro stato finale di beatitudine o di condanna prima dell’ultimo giorno. Entrambe le parti erano d’accordo che le preghiere per i defunti erano necessarie e di grande aiuto, ma Marco di Efeso sosteneva che anche il giusto ne aveva bisogno; egli si riferiva in particolare al canone eucaristico della liturgia del Crisostomo che offre il «sacrificio incruento» per «i patriarchi, i profeti, gli apostoli e ogni spirito giusto reso perfetto nella fede» e anche per la stessa vergine Maria. Evidentemente egli intendeva lo stato dei beati non come una giustificazione legale e statica, ma come un’ascesa infinita a cui l’intera comunione dei santi – la chiesa in cielo e la chiesa sulla terra – è stata iniziata in Cristo[6]. Nella comunione del corpo di Cristo tutti i membri della chiesa, vivi o defunti, sono interdipendenti e uniti da vincoli di amore e di mutua sollecitudine; così le preghiere della chiesa sulla terra e l’intercessione dei santi in cielo possono effettivamente aiutare tutti i peccatori, cioè tutti gli uomini, ad avvicinarsi a Dio. Questa comunione dei santi è però ancora in attesa del compimento definitivo della parousia e della risurrezione universale, quando un preciso, seppure misterioso termine definitivo sarà raggiunto per ogni singolo destino.
       
Il dibattito fiorentino sul purgatorio sembra sia stato in gran parte improvvisato lì per lì e entrambe le parti fecero uso di argomenti tratti dalla Scrittura e dalla Tradizione che non risultano sempre convincenti. Tuttavia è facilmente riconoscibile la differenza nell’atteggiamento fondamentale nei confronti della salvezza in Cristo. Il legalismo che applicava al destino umano individuale la dottrina anselmiana della «soddisfazione» è la ratio theologica della dottrina latina sul purgatorio. Al contrario, per Marco di Efeso salvezza è comunione e «deificazione». Nel suo cammino verso Dio il cristiano non è solo; è un membro del corpo di Cristo. Egli può realizzare questa comunione fin d’ora, prima della sua morte come dopo e, in ogni caso, ha bisogno della preghiera di tutto il corpo almeno fino alla fine dei tempi quando Cristo sarà «tutto in tutti». Naturalmente questa concezione della salvezza mediante la comunione esclude ogni visione legalistica dei poteri pastorali e sacramentali della chiesa sia sui vivi che sui defunti (l’Oriente non avrà mai una dottrina delle «indulgenze») come ogni descrizione precisa dello stato delle anime dei morti prima della risurrezione universale.
        Ad eccezione dell’atto negativo di rifiutare la dottrina latina del purgatorio implicita nella canonizzazione di Marco di Efeso e in affermazioni dottrinali successive di suoi teologi, la chiesa ortodossa non si propose mai di ricercare esatte definizioni dottrinali sull’«aldilà». Esiste in pratica una varietà di credenze popolari spesso accolte nella letteratura agiografia, ma la chiesa, specialmente nella sua liturgia, si limita a un’escatologia fondamentalmente cristocentrica : «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 3-4), Fino a quell’ultima «manifestazione» il corpo di Cristo, tenuto insieme dal vincolo dello Spirito, comprende a un tempo i vivi e i morti; ciò è simbolizzato nella liturgia dalla patena su cui i pezzetti di pane, che rappresentano coloro che riposano in Cristo e quelli che fanno ancora parte della comunità cristiana visibile sulla terra, sono tutti uniti in un’unica comunione eucaristica. In realtà mediante la risurrezione, la morte ha perduto il suo potere su quelli che sono «in Lui». Essa non li può separare né da Dio né gli uni dagli altri. Questa comunione in Cristo, che la morte non può distruggere, rende possibile e necessaria l’intercessione continua di tutti i membri del corpo per ciascuno di essi. La preghiera per i defunti, come l’intercessione per i vivi da parie dei santi defunti, esprime un’unica e indivisibile «comunione dei santi».
       
Ma il compimento ultimo del destino dell’umanità consisterà in un giudizio finale. La condanna dell’origenismo nel V concilio (553) implica il rigetto molto esplicito della dottrina dell’apocatastasi, cioè dell’idea che l’intera creazione e tutta l’umanità saranno alla fine «ristabilite» nel loro stato originario di beatitudine. Evidentemente la ragione fondamentale per cui l’apocatastasi fu ritenuta incompatibile con la concezione cristiana dell’ultimo destino dell’uomo è che essa implica una limitazione radicale della libertà umana. Se Massimo il Confessore con ragione definisce la libertà o l’auto-determinazione come il segno stesso dell’immagine di Dio nell’uomo[7], è evidente che questa libertà è fondamentale e che l’uomo non può essere costretto all’unione con Dio nemmeno in forza dì quella necessità filosofica che è la «bontà» di Dio. Nell’ultimo giorno, al momento del confronto supremo con il Verbo, l’uomo avrà ancora la libertà di rifiutarlo e di andare così all’«inferno».
       
La libertà dell’uomo non è distrutta nemmeno dalla morte fisica e vi è perciò la possibilità di un cambiamento continuo e di una mutua intercessione. Ma è proprio questa libertà che implica responsabilità: perciò nella prova suprema dell’ultimo giudizio l’uomo – solo, nell’intera realtà cosmica che conoscerà allora la sua trasfigurazione finale – avrà ancora il privilegio di affrontare la conseguenza eterna del suo «sì» o del suo «no» a Dio.

tratto da J. MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali,
Casale Monferrato, 1984, 264-269.


 

[1] Exaposteilarion, The Festal Menaion, cit., 495.

[2] Canone pasquale, Ode 9, Pentekostarion [trad. it. in Liturgia orientale della Settimana Santa, a cura di Maria Gallo, II, Roma 1974, 206].

[3] Domenica del Giudizio Finale, Vespri, Lite, Triodion.

[4] Enchiridion Symbolorum, ed. H. Denzinger, nr. 464. Ivi, nr. 693.

[5] Ivi, nr. 693.

[6] Cfr. i due trattati di Marco di Efeso sul purgatorio in L. Petit, Documents relaltifs au Concile de Florence. I: La question du Purgatoire à Ferrare, Patrologia Orientalis 15, 1920. nr. I, 39-60, 108-151. Una traduzione russa di questi testi si trova in Amvrosy, Sviatoy Mark Efessky i Florentiiskaia Unia, Jordanville, New York 1963, 58-73, 118-150; J. GILL, The Council of Florence, cit., 119-125, [trad. it, cit., 139-148]: questo studio offre un breve resoconto della controversia.

[7] «Dal momento che l’uomo è stato creato a immagine della benedetta e sovraessenziale Divinità e poiché, d’altra parte, la natura divina è libera, è evidente che l’uomo è libero per natura essendo immagine della Divinità» (Disp. cum Pyrrho: PG 91, 304 C).

 

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