G. S. Romanidis

 

L’utilitarismo egocentrico nei rapporti dell’uomo con Dio e sue conseguenze teologiche

 

 

Queste brevi considerazioni del celebre teologo greco G. S. Romanidis provengono da Appunti di un cristiano ortodosso sulla libertà cristiana (Delivered at the first national institute of the project, Religious freedom and public affairs of the national conference of christians and jews, Maryflower Hotel, Washington, D.C., november 20, 1962). Tali righe, tratte da una discussione più ampia, hanno un senso compiuto anche se ne sono state estratte.

Il teologo si chiede se il concetto occidentale franco-agostiniano del desiderio umano di felicità non abbia determinato una distorta rappresentazione dell’al di là, una visione escatologica utilitarista e se, in fondo, nelle opere buone attribuite alla Grazia non rispunti ancora quel medesimo utilitarismo che, lungi dall’aprire l’uomo all’evangelica gratuità (“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”), lo chiude maggiormente in un inguaribile egocentrismo. Il permanere di quest’utilitarismo egocentrico, strutturale ad un modo di concepire il cristianesimo, non si allontanerebbe, allora, dai concetti di fondo soggiacenti ad un culto naturale. E allora, stando così le cose, com’è possibile la guarigione dall’egocentrismo, dal momento che una struttura religiosa che veicola simili idee patisce profondamente dello stesso male e, per giunta, è pure impossibilitata a vederlo?

 

La dottrina della visione beatifica, che Agostino d’Ippona ha preso dai neoplatonici in base alla quale il destino dell’uomo è quello d’essere pienamente felice nel possesso della visione dell’essenza divina, è ignota alla Tradizione patristica ortodossa. Il destino dell’uomo è, piuttosto, la trasformazione del suo desiderio di felicità in un amore non utilitarista, un amore che non cerca il proprio tornaconto. Mentre nelle teologie cristiane neoplatoniche la ricompensa del giusto è la visione di Dio e la punizione dell’ingiusto è la privazione di questa visione, nella Tradizione ortodossa sia il giusto che l’ingiusto hanno la visione di Dio nella Sua gloria increata, con la differenza che, per l’ingiusto, questa stessa gloria increata di Dio è un fuoco d’eterno tormento. Dio è luce per quelli che imparano ad amarlo ed è un fuoco divorante per quelli che non hanno imparato a farlo. La causa di ciò non sta assolutamente in un’intenzione positiva di punire attribuibile a Dio. La sua realtà che immerge la persona in un’esperienza purificante non può non entrare in conflitto con coloro che non sono preparati ad incontrarLa non avendo voluto lasciarsi condurre in un continuo processo di perfezionamento. Questa comprensione della visione di Dio non appartiene ad una struttura teologica che concepisce una ricompensa e una punizione divina e quindi supera la dualistica distinzione tra un mondo inferiore di pene e di tormenti ed un mondo superiore di realtà immutabili e di felicità. La salvezza non è una fuga dalla commedia della vita, ma un movimento eterno verso la perfezione attraverso il fluire del tempo.

La preparazione per la dimensione escatologica nella quale c’è la visione beatifica di Dio nella beatitudine e non nella dispersione spirituale è legata a quanto l’uomo permetta a Dio di iniziare a trasformare la sua felicità egocentrica ed autosufficiente (inizialmente avvertita come positiva), in un amore che non cerca il proprio tornaconto. La salvezza, perciò, non può essere il prodotto di immeritate attività ed intenzioni positive ricompensate finalmente con la felicità della visione beatifica. Le buone azioni e le buone intenzioni sono solo passi preliminari alla preparazione necessaria. Ricompensare questi passi preliminari con la visione di Dio non sarebbe la salvezza ma la dannazione. Non si può nemmeno dire che questi preliminari passi siano meritori nel senso che siano possibili solo grazie alla virtù prodotta dalla Grazia, da un dono particolare e da una abitudine che orienta costantemente la volontà in senso positivo. La Tradizione ortodossa insegna che le buone azioni e le buone intenzioni sono già rinvenibili nel cosiddetto uomo “naturale”, il quale può trovarsi sia nella Chiesa che all’esterno di essa. Il lavoro di trasformazione dell’uomo con la Grazia di Dio avviene, invece, nella cooperazione tra Dio e l’uomo stesso (= sinergia). Attraverso questa cooperazione l’amore, da interessato, si trasforma in disinteressato. Essere cristiano non significa raggiungere una ricompensa ma essere preparato al fatto che il paradiso non è un’eterna statica inattività. Dio ha predestinato ogni cosa alla salvezza ma, per la loro pigrizia spirituale, alcuni si ostacoleranno da soli il cammino.

Va senz’altro detto che le dottrine sul peccato originale, sulla riparazione e sulla predestinazione non sono mai state comprese dai cristiano-ortodossi in maniera agostiniana, anselmiana o calvinista. Il peccato originale non è una colpa ereditata e la morte non è la punizione di Dio per tale colpa (Agostino). Dio ha permesso la morte perché colui che pecca non possa farlo eternamente. La salvezza non è il rappacificamento di un Dio adirato (Anselmo). Dio ama realmente coloro che rifiutano di ricambiare il suo amore anche se costoro, persistendo in un tal rifiuto, finiscono per condannarsi eternamente. Perciò, chiunque pensa che ha un diritto speciale all’amore di Dio perché appartiene o e affiliato ad una Chiesa speciale avrà una grande sorpresa. D’altra parte chi ha fiducia nell’amore di Dio ma è indifferente alla questione salvifica avrà pure lui una sorpresa. […] È una mia impressione che la tradizione latino-agostiniana abbia talora ristretto, talora eccessivamente enfatizzato il lavoro della grazia riconoscendolo nella volontà volta alla fede e alle opere buone a detrimento della comprensione patristica greca. Tale comprensione, invece, vede il lavoro della Grazia in ciò che alcune persone chiamano subconscio e che noi chiamiamo cuore, distinguendolo chiaramente dalla ragione umana e dalla volontà. Dal punto di vista ortodosso è molto ardito definire “prodotto dello Spirito Santo” il lavoro generato da una buona intenzione o da una fede razionalizzata per le necessità di un subconscio malato. Un cuore malato produce per misteriosi motivi un amore utilitarista che cerca di utilizzare Dio, il prossimo o entrambi per la propria soddisfazione e felicità.

È un mio sospetto che in ciascun uomo la comprensione di Dio e della natura dell’amore ha a che fare con i suoi problemi più di quanto normalmente sospettiamo. Personalmente ritengo che il principio dell’utilitarismo è buono e legittimo a livello dell’ordine pubblico, ma con delle limitazioni basate sull’uguaglianza dei diritti umani e degli interessi secolari. Comunque, quando questo stesso principio diviene la base che guida ed illumina i rapporti tra Dio e l’uomo, allora non riesco a vedere come una religione che si fonda su di esso, pur mantenendo una forma trascendente e un idealismo platonico, possa differire da un culto naturale. Se crediamo che Dio sta attendendo di punire giustamente coloro che rifiutano di unirsi alla nostra Chiesa o che la maggior parte della gente non si unisce ad essa perché non è stata eternamente prescelta, allora la nostra epoca non può che conoscere la tolleranza, essendo impossibile ogni vera libertà religiosa e rispetto reciproco. Le persone che credono d’avere un monopolio nell’amore di Dio ritenendo che Dio ha una positiva intenzione nel punire gli altri, sono fortemente tentate, qualche volta, ad anticipare la punizione futura per voler aiutare Dio già ora. Dico questo nella piena consapevolezza del fatto che le Chiese ortodosse non sempre sono state attente a vivere tutte le implicazioni dei loro corretti fondamenti teologici. Questo genere di cultura religiosa rappresenta una reale insidia anche se essa fu parzialmente risolta con la conquista islamica mentre la rivoluzione comunista ha aiutato ad allontanarsi da problemi di tal genere.

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/utilitarismo.htm

 

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