VITA DEL VESCOVO IGNATIJ BRJANCIANINOV

 

 

            Dimitri Brjancianinov nacque il 7 febbraio 1807 da una famiglia nobile di proprietari terrieri nel villaggio di Pokrov (governatorato di Vologda) situato a nord di Mosca. Sembra che non abbia ricevuto alcun affetto nell’ambiente domestico:

“La mia infanzia fu piena di prove, vi vedo la tua mano, o mio Dio. Non avendo nessuno a cui aprire il mio cuore, lo aprivo a te, mio Dio. Mi misi a leggere l’Evangelo e le vite dei Santi; il pensiero, che si elevava sovente a Dio con la preghiera e la lettura, cominciò ad apportare, a poco a poco, nel mio animo la pace e la tranquillità. Quando raggiunsi i 15 anni, un silenzio ineffabile si impossessò del mio animo e del mio cuore…”.

 

            È precisamente a quest’età che suo padre, che progettava per il figlio una brillante carriera, lo mandò a Pietroburgo. Lo presentò ai suoi numerosi amici, soprattutto a Corte, e lo iscrisse alla Scuola Militare del Genio. In viaggio, il padre gli chiese per quale genere di carriera provasse un certo interesse: “Voglio farmi monaco”, rispose il giovane, ma suo padre non diede, o finse di non dare, alcuna importanza a questa risposta inattesa.

 

            Nella capitale il giovane Brjancianinov condusse una vita mondana, grazie anche agli inviti dovuti alle numerose conoscenze della famiglia; conobbe le personalità più importanti di Pietroburgo, che contavano allora nel mondo della Corte, delle arti e della letteratura. Nel giro di due anni le occupazioni lo allontanarono da ciò che era per lui “l’essenziale”, ma, nonostante tutto, sentì profondamente il vuoto proprio del genere di esistenza che conduceva e che “lo spaventava, riempiendolo di un sentimento di vanità e di tradimento nei confronti della Verità”. E nello stesso tempo, si rendeva conto dell’insufficienza delle varie scienze che gli erano state insegnate e che lo conducevano sul cammino della Verità. Con qualche compagno della scuola militare organizzò un gruppo che si proponeva di dedicarsi alla preghiera, a letture ed a conversazioni spirituali, che si prolungavano sovente fino a tarda notte. Essendosi procurato le opere dei Padri, si mise a leggerle, le rilesse e le meditò. Da una sua confessione, ciò che lo colpì di più in tali letture consisteva nell’armonia esistente tra questi differenti scritti: “il loro accordo meraviglioso, grandioso, 18 secoli testimoniano per bocca dei Padri un insegnamento che costituisce una perfetta unità”. In questa stessa epoca, il Brjancianinov visitava spesso i monaci di una laura vicina, ciò che gli causò d’altra parte qualche dissapore con il padre, che si lamentò con il Metropolita di Pietroburgo dell’influenza che questi monaci esercitavano sul figlio. Il giovane studente andò personalmente a visitare il Metropolita e l’incidente non ebbe conseguenze.

 

            Negli studi il Brjancianinov riusciva perfettamente. L’esame d’ammissione alla suola era stato così brillante, che il giovane aspirante fu segnalato al Granduca Nicola – futuro imperatore Nicola I – il quale se lo fece presentare e fu iscritto nella lista degli invitati abituali della Granduchessa Alessandra. Questa benevolenza imperiale fu all’origine di numerose vicissitudini che ebbe a subire durante la sua vita. Al termine della Scuola del Genio, il Brjancianinov diede le dimissioni, ma gli furono respinte per ordine dell’Imperatore stesso che lo nominò ufficiale alla fortezza di Dunaburg. Raggiunse il suo posto, ma cadde malato poco tempo dopo. Nel 1827, il Granduca Michele, nel corso di una ispezione alla fortezza di Dunaburg, si rese conto dello stato di salute del giovane ufficiale e le sue dimissioni furono infine accettate.

 

            Ben presto, libero dagli obblighi militari, il Brjancianinov si recò al monastero di sant’Alessandro Svirskij presso il padre Leonid, starec molto conosciuto, che egli aveva già avuto l’occasione di frequentare durante i suoi studi e che aveva molto contribuito a fargli abbandonare la carriera militare: “Egli si è impadronito del mio cuore, la decisione è presa”, aveva detto allora il Brjancianinov al suo amico più intimo Cikacev. Tuttavia, come egli se l’aspettava, la sua decisione non fu del tutto gradita ai suoi genitori, i quali ruppero ogni rapporto con lui togliendogli anche ogni aiuto materiale.

 

            Al monastero di Svirkij, il giovane fu assegnato a servire in cucina. Egli assolse questo umile compito con una tale puntualità ed un tale zelo, si guadagnò la stima dei confratelli e dei superiori. Dopo circa un anno, seguì padre Leonid in un altro monastero, dove fu raggiunto dal suo amico Cikacev, le cui dimissioni erano state ugualmente accettate; infine, sempre sotto la guida di padre Leonid ed in compagnia del suo amico, raggiunse il celeberrimo monastero di Optina. Tuttavia il soggiorno in questo monastero non fu favorevole alla sua salute, perché vi cadde gravemente malato e fu costretto a rientrare nella sua famiglia dove, d’altra parte, fu accolto assai freddamente. Nel 1830, sempre accompagnato dal suo amico raggiunse il monastero di san Cirillo, ma anche là cadde malato e dovette, una volta ancora, ritornare dai suoi. Si mise sotto la guida spirituale del vescovo Stefano di Vologda. All’insaputa dei suoi ricevette da lui la tonsura il 20 giugno 1831 e prese il nome di Ignatij.

 

            Il Brjancianinov ha descritto la lotta che si svolse in lui nel corso degli anni che precedettero la sua monacazione: “Quali ostacoli si opposero a questa decisione… L’intelligenza confermava gli argomenti della carne, che si ribellava davanti alle difficoltà ed alle prove della vita monastica…, ma vi era una voce, una voce nel mio cuore, la voce della coscienza, io penso, o forse quella dell’Angelo custode, che mi indicava la volontà di Dio. Mi richiedeva di compiere il mio dovere, il mio dovere assoluto… Entrai nel monastero come uno che, avendo tralasciato ogni riflessione, si getta ad occhi chiusi nel fuoco o nell’abisso; o, meglio ancora, come un soldato che, spinto dal suo coraggio, si lancia in un combattimento sanguinoso o va incontro ad una morte certa...”.

 

            Poco tempo dopo la sua entrata nel monastero, il Brjancianinov fu ordinato sacerdote ed il 14 gennaio 1832 venne nominato Superiore del monastero di Lopotov. Poiché questo monastero si trovava in uno stato di totale decadenza, egli si applicò con un impegno inusitato ai lavori di ricostruzione e molto rapidamente il monastero fu rimesso in funzione. Di nuovo il Brjancianinov non poté sopportare il clima malsano di questo monastero edificato in mezzo alle paludi e fu nominato igumeno in un monastero dipendente dal Vescovado di Mosca. Intanto, l’Imperatore non aveva dimenticato il suo giovane protetto ed avendolo fatto ricercare, lo chiamò a Pietroburgo e lo nominò, il 5 gennaio 1834, igumeno del monastero di san Sergio, vicino alla capitale. La vicinanza stessa di Pietroburgo aveva molto nuociuto alla spiritualità dei monaci del monastero; inoltre, la chiesa era in pessimo stato. Il giovane igumeno si dedicò anima e corpo alla doppia impresa di innalzare il livello spirituale dei suoi confratelli e di rendere decenti i locali del monastero. Vi riuscì perfettamente e ricevette le calorose felicitazioni dell’Imperatore venuto in incognito con la famiglia a rendersi conto dei lavori.

 

            Sembra che il lungo soggiorno di 22 anni, che fece il Brjancianinov in questo monastero, costituisca il periodo più doloroso della sua vita sia per le prove fisiche che vi sopportò, che per l’atteggiamento dei confratelli nei suoi confronti.

 

            “… Poco dopo la mia entrata nel monastero, le prove si riversarono su di me come un’acqua purificatrice… Erano, nello stesso tempo, lotte interiori e l’assalto delle malattie, la pressione esercitata dal bisogno, l’incertezza dovuta alla mia ignoranza, alla mia inesperienza ed alla mia mancanza di saggezza. Le prove causate dagli uomini erano limitate; mi servì, per farne esperienza, un altro monastero. Fui, per i disegni incomprensibili della Provvidenza, assegnato a questo monastero vicino alla capitale del nord, che non volevo neppure vedere allorquando abitavo in questa città, considerando che non corrispondesse affatto ai miei obiettivi spirituali. Nel 1833, essendo chiamato al monastero di san Sergio, ne fui nominato igumeno. Questo monastero non mi accolse con ospitalità. Il primo anno, fui colpito da una grave malattia; il secondo da una seconda, il terzo da una terza, che portarono via le ultime forze della mia debole salute e fecero di me un uomo esaurito, incessantemente sofferente. È là che scaturirono e ribollirono l’invidia, la maldicenza, la calunnia; è là che fui oggetto di sanzioni gravi, lunghe, vessatrici, senza alcun giudizio, senza la più piccola inchiesta, come un animale braccato, come un manichino insensibile. È là che vidi i nemici nutrire una malvagità implacabile e desiderosi di rovinarmi. È là che il Signore misericordioso mi ha reso capace di conoscere la gioia e la pace dell’anima che non può esprimersi con le parole; è là che il Signore mi ha concesso di godere di un amore spirituale ed una dolcezza nel momento stesso in cui incontravo colui che era il mio nemico e voleva la mia testa ed il volto di questo nemico divenne ai miei occhi come il viso dell’Angelo, della luce. Appresi, con l’esperienza, il significato misterioso del silenzio del Cristo davanti a Pilato ed ai sommi sacerdoti giudei.

Quale fortuna essere una vittima simile a Gesù, o piuttosto: no! Quale fortuna essere crocefisso a fianco del Salvatore come lo fu il buon Ladrone e dire con questo Ladrone dal profondo di un’anima fortemente convinta: -Per noi, è giusto… Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno…-”.

 

Nel 1847 esaurito fisicamente, allo stremo delle forze, domandò di essere sollevato dalle sue funzioni, ma non ottenne che un congedo limitato, che trascorse nella solitudine del monastero di san Nicola a Babaievo sulle rive del Volga. Di questo soggiorno possediamo qualche lettera, da cui si può seguire l’evoluzione di una malattia senza dubbio molto grave, ma ugualmente la gioia di una vita solitaria al riparo dagli obblighi del mondo.

“… Vivo nella solitudine e mi curo, l’azione dei farmaci mi guarisce, ma la malattia nello stesso tempo, persiste violenta, e resto a letto per giorni interi…”. “Ringrazio il Signore misericordioso che mi ha condotto nella solitudine per riposarmi dal chiasso della capitale. Già i sentimenti, che l’uomo percepisce nella solitudine, non mi sono più sconosciuti. Ecco perché il deserto solitario mi ha attirato così facilmente fuori dal rumoroso deserto di -san Sergio-. La solitudine fortifica l’animo, gli impone un certo coraggio, una specie di disprezzo per il mondo che non si può avvertire a contatto con esso…”.

 

In una lettera scritta durante questo soggiorno sulle rive del Volga il padre Ignatij traccia questo curioso ritratto di se stesso. Fa dapprima allusione alla vista magnifica che ha dalla finestra della sua cella sul Volga, vista che non contempla quasi mai, e ci dice:

“Per quanto mi ricordi della mia infanzia, i miei sensi fisici erano poco recettivi, il mondo materiale agiva poco su di me per il loro intermediario. Io non ero curioso, ma freddo nei confronti di tutto. Ma l’uomo! Non potevo mai guardarlo con il sangue freddo. Sono creato per amare le anime degli uomini! Esse si muovono davanti a me come angeli, si presentano al mio sguardo con una tale attrattiva, una tale consolazione! È là il quadro, lo spettacolo che guardo, che scruto, che guardo di nuovo, che non posso tralasciare di guadare. Cose curiose: il viso, la statura, i tratti li dimentico subito, ma dell’animo mi ricordo. Sul quadro che il mio amore ha delineato, ci sono molte anime, anime magnifiche che la mia memoria conserva fedelmente nella loro integrità, nella vivacità dei loro colori… ”.

 

Il suo soggiorno in questo monastero durò circa un anno. In seguito, riprese le sue funzioni a san Sergio. Nel 1856, alla morte dell’imperatore, egli considera di nuovo l’eventualità di ritirarsi – vorrebbe ritirarsi ad Optina –, ma una volta ancora i suoi progetti sono contrastati ed il 27 ottobre 1857 è consacrato vescovo nella cattedrale di Kazan e raggiunge all’inizio del 1858 la sede di Stavropol. Nel discorso che pronuncia davanti al santo Sinodo prima della consacrazione, ritorna di nuovo al suo desiderio di solitudine. “…Avrei giudicato più conforme alle mie forze di trascorrere il resto della mia vita, come all’inizio, nel silenzio dei deserti, nella contemplazione dei miei peccati…”.

 

Tuttavia, secondo la sua abitudine, egli dedicò tutte le sue forze senza esitazione a questa diocesi, che era stata appena istituita e dove non c’era nemmeno la casa per il vescovo; il clero viveva in condizioni di indigenza, era poco istruito; le chiese e le scuole si trovavano in uno stato d’abbandono. Dopo qualche tempo, il vescovo Ignatij contrasse il vaiolo, che rovinò definitivamente uno stato di salute già tanto provato. Domandò al santo Sinodo ed all’imperatore di essere sollevato dal suo incarico e si ritirò definitivamente il 12 ottobre 1861 nel monastero di san Nicola a Babaievo dove aveva già soggiornato. Benché si fosse ritirato in questo monastero con l’intenzione di riposarsi nel silenzio e nella pace, egli non poté fare a meno di dedicarsi all’ammodernamento degli edifici, alla costruzione di una nuova chiesa e consacrò il resto del suo tempo a diversi scritti, alla correzione ed alla revisione delle sue opere.

 

Il vescovo Ignatij morì a Babaievo il 3 aprile 1867, dopo aver avuto la consolazione di ricevere il suo amico di sempre, Cikacev, come pure suo fratello, che era venuto a chiudere i suoi giorni nel monastero dopo essere stato governatore di Stavropol.

 

 

Dagli scritti del vescovo Ignatij Brjancianinov:

 

Discepolo: “Esponimi la maniera corretta di recitare la ‘Preghiera di Gesù’”.

 

Starec: “Il modo corretto per recitare la -Preghiera di Gesù- deriva naturalmente da una concezione corretta di Dio, del Santissimo Nome del Signore Gesù e dei rapporti tra l’uomo e Dio. Dio è l’Essere di una grandezza illimitata, perfetta, creatore e redentore degli uomini la cui onnipotenza si esercita sugli uomini, sugli angeli, sui demoni, su tutta la creazione visibile ed invisibile. Una tale concezione di Dio ci insegna che dobbiamo, quando preghiamo, stare davanti a lui nella più profonda venerazione, nel più profondo timore e nella più grande commozione. Volgendo a lui tutta la nostra attenzione, dobbiamo concentrare in essa tutte le forze dell’intelligenza, del cuore, dell’animo, respingendo tutte le distrazioni e tutti i pensieri che ci allontanano dall’attenzione e dalla venerazione, che ostacolano un atteggiamento corretto davanti a Dio, quale è quello richiesto dalla maestà di Dio[1]. Sant’Isacco Siro ha detto in una maniera perfetta: ‘Quando nella preghiera t’inginocchi davanti a Dio, pensa che sei come una formica, un verme, un bambino balbuziente. Non dire davanti a lui cose profonde, avvicinati a Dio con il modo di pensare di un bambino’.

 

Coloro i quali hanno acquisito la vera preghiera, provano una indicibile povertà interiore allorquando sono davanti a Dio, lo lodano, si confessano a lui, gli pongono domande. E ciò è naturale. Allorché colui che prega avverte realmente la presenza di Dio, la presenza della Vita stessa, la presenza della Vita incomprensibile, irraggiungibile, la propria vita gli appare allora come una minuscola goccia d’acqua paragonata all’oceano illimitato. È a questo stadio che è giunto il giusto Giobbe, lui che ha tanto sofferto raggiungendo le vette più alte della santità. Si è sentito come -fuso-, simile alla neve che fonde e sparisce sotto i raggi ardenti del sole.

 

Il nome del nostro Signore Gesù Cristo è divino, divine la forza e la virtù di questo nome – onnipotenti e salvatrici – al di sopra del nostro intelletto, inaccessibile a quest’ultimo. Con fede, esperienza e perseveranza, unite ad una grande devozione e con timore, adempiamo il grande compito di Dio, insegnato da Dio. -Esercitiamoci nella preghiera del nome di nostro Signore Gesù Cristo, nell’invocazione ininterrotta del Nome di Dio-, dice Barsanofio il Grande; -è là il mezzo che annienta, non solamente le passioni, ma la loro stessa azione. Allo stesso modo che il medico applica sulla ferita del malato medicamenti e fasciature e che questi agiscono efficacemente sebbene il malato ignori in quale maniera ciò si verifichi, così, esattamente, il nome di Dio, allorché l’invochiamo, stermina tutte le passioni anche se ignoriamo in quale maniera ciò si realizzi-. Il nostro stato abituale, quello di tutta l’umanità, è uno stato di caduta, d’illusione, di perdizione. Prendendo coscienza di questo stato e, nella misura in cui ne prendiamo coscienza, soffrendone in noi, dobbiamo lamentarcene nelle nostre preghiere, gemere con lacrime, piangere per essere perdonati. Rinunciamo a tutta la finezza spirituale, ad ogni stato elevato di preghiera, di cui siamo e indegni ed incapaci. È impossibile innalzare il canto a Dio in una terra straniera e con un cuore che è dominato dalle passioni. Se attendiamo un invito per elevare questo canto, sappiamo con certezza, che questo invito ci viene da coloro che -ci tengono prigionieri-. -Presso i fiumi di Babilonia, non passiamo e non dobbiamo che piangere-[2].

 

Tali sono, in ciò che concerne l’esercizio della Preghiera di Gesù, le istruzioni d’ordine generale tratte dalla Sacra Scrittura, dagli scritti dei santi Padri e da qualche colloquio con coloro che si dedicano con sincerità a questa preghiera. Per ciò che riguarda le istruzioni particolari e specialmente per coloro che iniziano, riconosco utile ricordare ciò che segue. San Giovanni Climaco consiglia di -porre- l’attenzione nelle parole della preghiera e, ogni volta che essa si allontana da queste parole, farla ritornare. Un tale procedimento è particolarmente utile, particolarmente efficace. Allorquando, in tal modo, l’intelletto sarà -nell’attenzione-, il cuore, commosso, entrerà in un rapporto di simpatia con esso, la preghiera si svilupperà insieme dall’intelletto e dal cuore. Bisogna pronunciare le parole della preghiera molto adagio – con lentezza – affinché l’intelletto abbia la possibilità di soffermarsi su di esse.

 

Confortando ed istruendo dei monaci cenobiti che si esercitavano nella disciplina monastica, esortandoli allo zelo e all’attenzione nell’esercizio della preghiera, san Giovanni Climaco disse: -Dio non esige dai monaci che pratichino con disciplina una preghiera assolutamente scevra di distrazioni. Non scoraggiarti se le distrazioni ti allontanano dal tuo proposito; obbliga, costantemente, con calma, l’intelligenza a ritornare ad esso. Una assenza totale di distrazioni è privilegio degli Angeli. Noi schiavi delle passioni, preghiamo il Signore costantemente, senza allontanarcene, perché tutti coloro che sono liberi dalle passioni sono passati, grazie ad una tale preghiera, dalla condizione di essere sottomessi alle passioni ad una condizione che ne è esente. Se, senza interruzione, educhi l’intelligenza a non allontanarsi dalle parole della preghiera, questa sarà presso di te anche in refettorio; ma se tolleri da parte sua un vagabondaggio incontrollato, essa non potrà mai dimorare in te. Il grande eroe della grande e perfetta preghiera ha detto: Amo piuttosto dire cinque parole con la mente che migliaia con la lingua[3]-. Una tale preghiera, preghiera benedetta dell’intelligenza nel cuore, esente da evasioni, non è propria dei bambini; ecco perché noi, fanciulli, che ci preoccupiamo della qualità della preghiera, dell’attenzione, per il fatto che l’intelligenza è chiusa nelle parole, dobbiamo pregare molto. La quantità dà principio alla qualità”.

 

 

Dall’opera di Emile Simonod: “La Prière de Jésus selon l’éveque Ignace Briantchaninoff (1807-1867)”, Sisteron 1976.

In “Messaggero Ortodosso”, Roma giugno-luglio 1978 Anno III, n. 6-7, pp. 27-37. trad. M. C.

 

 

Immagine: http://www.orthodoxologie.blogspot.com/



 

[1] Giovanni 4, 23-24.

[2] Ps. 136.

[3] 1 Corinti 14, 19.

 

 

 

 

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